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Per la messa al bando delle terapie di conversione

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«Tutte le pratiche finalizzate alla conversione sono umilianti, degradanti e discriminatorie»

(Victor Madrigal-Borloz, esperto indipendente delle Nazioni Unite per la protezione contro la violenza e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere)

È riconosciuto universalmente che un orientamento sessuale che non sia etero e una identità di genere che non sia cis non rappresentano un fattore patologico e, dunque, risultano prive di ogni fondamento scientifico le purtroppo ancora diffuse “terapie di conversione” (conversion therapy), altresì note come terapie “riparative”, con le quali si cerca di modificare orientamenti e identità di persone LGBTIQ+[1].

Anzi, queste sono ormai considerate come veri e propri trattamenti crudeli, inumani e degradanti, al limite degli atti di tortura, in violazione dunque del Diritto internazionale dei diritti umani.

Ma in molti Paesi si fatica ad approvare norme che le proibiscano e che tutelino le vittime.

Cosa sono le terapie di conversione

Con i termini “terapie di conversione” o “riparative” ci si riferisce in maniera generica a pratiche di natura diversa, tutte accomunate dall’errata convinzione che l’orientamento sessuale e l’identità di genere di una persona possano e debbano essere cambiati quando differiscano dal cosiddetto pensiero unico.

Queste attività si prefiggono di trasformare una persona gay, lesbica o bisessuale in una persona eterosessuale e una persona trans o variante di genere in una persona cisgender.

Il termine “terapia” deriva dal greco e significa “cura”, e qui abbiamo la prima evidenza dell’assurdità di questi trattamenti che si prefiggono di curare, di riparare, una persona che non è afflitta da nessuna malattia, da nessun guasto.

La stessa Organizzazione Mondiale della Salute, nella propria Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Correlati Problemi di Salute[2], ha ribadito chiaramente che «l’orientamento sessuale di per sé non può essere considerato un disturbo» ma ciononostante tali pratiche sono utilizzate in molti Paesi, in tutte le regioni del mondo.

Su questo tema, il Consiglio dei Diritti Umani dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha pubblicato un importante rapporto[3] nel quale si identificano tre approcci principali nelle “terapie di conversione”: psicoterapeutico, medico, religioso.

Il primo, lo psicoterapeutico, poggia sulla convinzione che orientamento sessuale e genere vengano influenzati da esperienze anormali e che possano essere “corretti” con terapie psicodinamiche, comportamentali, cognitive e interpersonali.

Spesso tali tecniche impiegano pure l’elettroshock e gli psicofarmaci che causano nausea o paralisi al fine di provocare sensazioni negative, dolorose o angoscianti in correlazione al proprio orientamento sessuale.

L’approccio medico, invece, ritiene che la diversità sessuale e di genere derivi da una disfunzione biologica che cerca di trattare con la somministrazione di farmaci, ormoni o trattamenti steroidei, fino ad arrivare a veri interventi chirurgici.

Ultimo, ma molto diffuso, è l’approccio religioso che connota con le categorie di colpa e peccato i differenti orientamenti sessuali e le identità di genere obbligando le persone a partecipare a programmi di espiazione ed esorcismi.

Spesso tali attività sono infarcite di violenze fisiche e psicologiche e non di rado accompagnate da pratiche pseudo-religiose alla presenza di ministri di culto o santoni.

Tutti i metodi impiegati nel contesto delle cosiddette “terapie di conversione” causano svariati tipi di sofferenze di natura psicologica e fisica, tra cui sono state rilevate perdita di autostima, ansia, depressione, isolamento sociale, problemi di relazione, odio per sé stessi, vergogna, senso di colpa, disfunzioni sessuali, tentativi di suicidio e sintomi da stress traumatico.

Terapie di conversione e violazione dei diritti umani

Per quanto riguarda il Diritto internazionale, mi preme ricordare in questa sede l’Art. 2[4] della Dichiarazione universale dei diritti umani in merito ai fondamentali principi di universalità, uguaglianza e non discriminazione e il successivo Art. 5[5] che dispone il divieto della tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

Le “terapie di conversione” si rivolgono a un gruppo specifico di persone in base esclusivamente al loro orientamento sessuale e alla loro identità di genere e sono specificamente volte a comprometterne l’integrità e l’autonomia personale. Sono quindi intrinsecamente atti discriminatori che violano l’Art. 2.

Inoltre, sono palesemente contrarie al divieto di tortura e trattamenti crudeli, inumani o degradanti perché presuppongono che le persone con diversi orientamenti sessuali o varianti di genere siano in qualche modo inferiori, moralmente, spiritualmente o fisicamente, rispetto alle persone eterosessuali e cisgender e per questa ragione debbano cambiare orientamento o identità.

I processi e i meccanismi nei quali alcune persone sono considerate inferiori sono, per definizione, atti degradanti e possono equivalere ad atti di tortura a seconda delle circostanze, di chi ne è attore e della gravità della sofferenza fisica e mentale inflitta.

In sostanza, tutte le pratiche tendenti alla conversione sono umilianti, degradanti e discriminatorie. Sotto l’effetto combinato di un sentimento di impotenza e di estrema umiliazione, le vittime provano vergogna, senso di colpa, disprezzo di sé e la loro dignità viene lesa causando danni a volte irreparabili nella psiche e nel fisico.

In sintesi, le “terapie di conversione” violano il concetto stesso di dignità umana delle persone LGBTIQ+ negando loro le libertà fondamentali alla sessualità e all’identità di genere, ipotizzando la loro subordinazione sociale.

Ulteriore aspetto rilevante è la qualità del soggetto che mette in pratica l’attività: giurisprudenza e dottrina internazionalistiche concordano nel ritenere necessario lo status di superiorità di chi agisce verso chi subisce.

Difatti, un significativo squilibrio di potere è inerente a queste pratiche: le “terapie” sono offerte da membri di istituzioni sociali consolidate, come gruppi religiosi, psicologi o esperti medici, che detengono un potere maggiore in relazione alle singole vittime. Questa notevole disparità di status tra le parti non solo insulta le vittime ma le degrada.

Tutte le forme di “terapia di conversione” di cui si ha notizia equivalgono a un trattamento degradante perché tutte combinano una mancanza di rispetto di base per un determinato gruppo di persone che viene discriminato (le persone LGBTIQ+) con un significativo squilibrio di potere o status tra le parti coinvolte, in cui l’attore abusa della sua superiorità.

Possiamo quindi sostenere che siamo davanti a trattamenti crudeli, inumani e degradanti (giungendo in alcuni casi al limite della tortura) così come previsto dal Diritto internazionale dei diritti umani e, per questo, dobbiamo invocare dagli ordinamenti giuridici nazionali adeguati strumenti legali volti a proibirli, perseguire i responsabili e tutelare le vittime.

Adeguamenti normativi necessari

Sono molti i Paesi al mondo che, abbracciando l’interpretazione sopra sintetizzata, hanno previsto specifiche norme che vietano le cosiddette “terapie di conversione”, puniscono coloro che le praticano e offrono sistemi di protezione, garanzia e ristoro a chi le ha subite.

Tra questi, Brasile, Canada, Ecuador, Francia, Germania, Grecia, Malta, Nuova Zelanda e Vietnam in tutto il loro territorio; Australia, Messico, Spagna e Stati Uniti d’America solo in alcune province o stati.

In Argentina, Cile, Figi, India, Nauru, Samoa e Uruguay, invece, vi sono norme che vietano al personale medico di applicare simili trattamenti; Albania, Israele, Svizzera e Taiwan hanno optato per un’interdizione de facto supportata da pareri ufficiali e regolamenti amministrativi.

La Cina, dal canto suo, ha già una nutrita giurisprudenza di merito che condanna gli autori e risarcisce le vittime pur in mancanza di una legislazione in materia.

Bisogna però ricordare che, a fronte di questi esempi, abbiamo ancora i governi di Indonesia e Malesia che approvano e promuovono le “terapie di conversione” giacché definiscono l’omosessualità, la bisessualità e la transessualità come disturbi mentali da curare con trattamenti adeguati.

Proprio per spingere tutti i membri della comunità internazionale a prendere posizione sulle “terapie di conversione”, il rapporto Onu prima citato chiede la loro definitiva e universale messa al bando accompagnata da: una definizione condivisa delle pratiche oggetto del divieto; la garanzia che non vengano utilizzati fondi pubblici per finanziare tali pratiche; un generale divieto di pubblicità; l’istituzione di un sistema sanzionatorio in caso di mancato rispetto del divieto e lo svolgimento di indagini sulle diverse denunce; l’istituzione di meccanismi che consentano alle vittime di accedere ad effettive forme di riparazione, compreso il diritto alla riabilitazione.

Inoltre, si raccomanda di adottare misure urgenti per proteggere i bambini e i giovani; condurre campagne di sensibilizzazione con genitori, famiglie e gruppi sociali; facilitare i servizi relativi all’orientamento sessuale e all’identità di genere; incoraggiare il dialogo tra le parti interessate (organizzazioni mediche e sanitarie, organizzazioni religiose, istituzioni educative e organizzazioni comunitarie) per aumentare la consapevolezza degli abusi dei diritti umani legati alle “terapie di conversione”.

È chiaro che la criminalizzazione, la demonizzazione e la patologizzazione delle persone LGBTIQ+ contribuiscono a perpetuare violenze e discriminazioni anche tramite le pratiche di conversione.

Per combattere tali comportamenti, i governi, la comunità medica, le confessioni religiose e tutta la società civile devono fare la loro parte: vietare tali atti degradanti e sostenere i diritti delle persone LGBTIQ+.

  1. Per semplicità adotto qui la sigla nella sua formulazione breve, LGBTIQ+, consapevole che al momento siano in uso anche forme più inclusive quali LGBTQQICAPF2K+ (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer, Questioning, Intersex, Curious, Asexual, Agender, Ally, Pansexual, Polysexual, Friends and family, Two-spirit and Kink).
  2. Cfr. World Health Organisation, ICD, International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems, New York, 2019.
  3. Cfr. Human Rights Council, Practices of so-called “conversion therapy”, New York, 2020.
  4. Articolo 2. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.
  5. Articolo 5. Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti.

 

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