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Flags of our fathers

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Parlare di guerra e soprattutto cercare di mostrarla senza retorica credo che siano cose molto difficili da fare. Per riuscirci bisogna aver raggiunto quella maturità umana che permette il distacco necessario per uno sguardo che vada al di là dei credo politici o religiosi. Uno sguardo che mostri prima di tutto gli uomini che combattono e che ci racconti quello che tra questi uomini succede. I legami che si creano.

Clint Eastwood sceglie proprio questa strada. Quella di un umanesimo sincero e profondo, che finalmente fa piazza pulita delle retoriche della guerra, prima su tutte, quella dell’eroe.

L’intera storia narrata da Clint è infatti una progressiva demistificazione della figura dell’eroe. Ne viene svelata la vera natura, cioè quella della trasformazione dell’uomo in un simbolo per le masse. Ne viene svelato il valore, quello di spingere gli americani a comprare i buoni del tesoro per cercare di ricavare nuovi fondi per continuare la guerra. Ne viene svelato il funzionamento, un teatro itinerante che di città in città mette in scena lo spettacolo di alcuni uomini che innalzano una bandiera.

E poi l’immagine.

L’immagine di questi uomini, conosciuta in tutto il mondo, è quella che ha creato gli eroi.

Anche di essa Clint ce ne svela la natura, gli uomini alzarono quella bandiera per un semplice ordine, senza nessun impeto eroico. Un fotografo era lì e scattò la foto.

L’immagine divenne qualcosa di grandioso. Divenne la speranza che la guerra potesse essere ancora vinta, che bisognava continuare a sovvenzionare l’esercito. L’immagine divenne più potente di migliaia di discorsi.

Fermiamoci un attimo a riflettere su questo punto.

Negli ultimi dieci anni le immagini di guerra, in televisione, sono state più o meno costantemente all’ordine del giorno. Fino ad un punto in cui lo spettatore assuefatto a queste immagini è arrivato ad una condizione tale in cui non provava più nulla rispetto ad esse. La guerra è sempre altrove, i morti non sono mai persone che conosciamo, le immagini di guerra sono diventate parte del flusso televisivo, se non ci interessano basta cambiare canale. Questo per dire che se nella Seconda Guerra Mondiale una singola immagine poteva avere un simile potere, quello di condizionare milioni di persone, adesso tale potere non esiste più. Adesso la televisione e la stampa hanno fatto della guerra  una riserva pressoché infinita di notizie e servizi fino a quando l’opinione pubblica si stanca di sentire cosa accade in Iraq o in Afganistan o in Libano e si cerca qualcosa di più interessante da vedere. Ed è in questo meccanismo che il cinema invece sembra portare con sé una nuova etica, cercando di riconsegnare alle immagini (soprattutto quelle di guerra) il loro vero valore.

In televisione, filtrate dal buon senso (ma leggete ipocrisia) di chi mettendosi una mano sulla coscienza decide che all’ora di cena non sta bene vedere soldati sbudellati o massacrati, le immagini mostrate sono quelle di guerre senza nessuno che muoia, come se non ci fossero mai scontri. Immagini dunque appositamente scelte e selezionate per una fruizione da pasto serale.

Clint e con lui il cinema (si pensi anche a Salvate il soldato Ryan, non a caso il film è prodotto dalla Amblin di Spielberg) ridanno invece alle immagini di guerra proprio quella crudezza necessaria che le riporta nella loro vera dimensione.

Il paradosso quindi è il seguente. La televisione che prende immagini reali della guerra ce le mostra in modo che ci appaiano finte e per questo digeribili, mentre il cinema che ricostruisce attraverso la finzione episodi di guerra ce ne mostra il crudo realismo rendendoci la visione molto indigesta.

Cioè nel nostro mondo iperspetacolarrizato sembra che il cinema sia diventato (almeno in questo caso) uno dei modi per rimandarci senza censure il vero orrore della guerra.

Tutto lo sbarco sull’isola di Iwo Jima è infatti un’esperienza agghiacciante. E’ un qualcosa che ti lascia lo stomaco in subbuglio. In questo modo il cinema ti avverte, ti dice esattamente le cose come stanno e tu per nulla al mondo vorresti trovarti lì. Per nulla al mondo vorresti che altre persone si trovassero lì a combattere.

E questo è il pacifismo.

E’ mostrare l’orrore della guerra per dire a chiunque di non continuare a farla.

O meglio ancora di non iniziarla proprio.

Perché oltre al dolore e alla morte, in una guerra, non c’è altro da aspettarsi.

Nel bellissimo finale Clint ci parla di una verità forse troppo spesso nascosta. Che chi sta in guerra non combatte per la patria o per un ideale o per diventare un eroe. Lo fa semplicemente perché ci si è trovato coinvolto e perché ha stretto con gli uomini che ha intorno legami di fratellanza che meritano di essere rispettati. Si può morire dunque per il compagno o per salvare qualcuno, ma sempre e comunque perché è l’uomo che hai vicino che ti interessa e non il fatto che salvandolo potrai diventare un eroe.

Oltre le scene di guerra, girate in una maniera da mozzare il fiato, con un uso espressivo del colore (tutto sfuma nel grigio e nel nero, i colori non sono mai saturi, sembra l’inferno e forse lo è), il film è costruito su una continua alternanza tra le immagini della guerra vera propria e quelle dei tre ragazzi protagonisti (dei sei che avevano alzato la bandiera) che una volta tornati in America si trovano costretti ad imbarcarsi in un tour promozionale dei buoni del tesoro. L’uso dei flashback rende ancora più drammatico il rapporto tra lo spettacolo che sono costretti ad interpretare (con tanto di pantomima in cui ricreano la scena in cui piantano la bandiera) e la realtà di come sono andate le cose (i loro compagni morti, il sangue, la paura).

Nella fine del film Clint allarga ancora di più il respiro della sua storia. Si vedono i destini di Doc, Rene e Ira, quello che la vita gli riserverà dopo la fine della guerra. Non molto. Il tempo aiuta a dimenticare. Gli eroi si vorrebbero immortali, ma quasi mai è così. Il ricordo svanisce, le persone invecchiano, la morte ci accoglie tutti.

Clint Eastwood è un autore che nella sua maturità artistica sembra aver raggiunto una profondità umana ed espressiva che veramente in pochi gli avrebbero concesso. Ed è in film come questo che di un regista oltre alla grande bravura puoi scorgere anche un’altra rara qualità umana.

Quella della saggezza.

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