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Le memorie dell’acqua – Antonio Messina

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PARTIRE E RITORNARE NON È CERTO ANDAR VIA[1]

 

 

“La verità è che non riusciamo ad accettare la parte malata di noi stessi; quanti segreti e orribili desideri agitano i nostri sogni, quanto odio coviamo, quanta cattiveria. La ragione ci ordina d’essere saggi, caritatevoli, buoni con il prossimo e invece, tradimenti, guerre, ingiustizie, potere e denaro, carriera…” (pag. 31)

 

Mi perdonerete, amici lettori, se parrà che io faccia Cicero pro domo sua; ma non potevo esimermi dal parlare ancora di questa bruciante soavità che risponde al titolo summenzionato: “La memoria dell’Acqua”.

L’ossimoro si spiega perché, dietro una prosa suadente e cullante, quantomai metaforica, che ci narra di un cielo che pare una coperta di raso; di una magica luna che, nella notte immobile, dall’alto, ha cambiato il colore dei miei gerani; di un’altrettanto ammaliante Nuova musica che percorse il tempo, e il suono grave e appassionato del violoncello, sgorgò possente; il pianoforte ne accompagnò il canto, facendo in modo che il nuovo mattino sorgesse fulgido ed espressivo (pag. 117), Antonio non esita ad alzare il dito contro l’Ingiustizia di un mondo basato su privilegi nient’affatto meritocratici e su un paradigma socioeconomico ultracompetitivo, che a stento maschera una totale assenza di selezione basata sul merito, appunto.

Questa denuncia la si evince da un titolo: “Il suono violato”, di uno dei nove (tre più sei, invero) racconti raccolti a formare la “Memoria dell’acqua”, e da quest’invettiva che si risolve nel tepore di in un auspicio d’ispirazione si direbbe platoniana: Gli uomini mediocri… riescono a vivere solo con quel misero potere che viene loro concesso. A vivere una vita insignificante. Non so se sugli altri pianeti i poeti, gli scrittori, gli artisti amministrano il potere, ma se così non fosse sarebbe una vera catastrofe, perché solo gli uomini illuminati possono garantire pace e prosperità. (pag. 131)

 

Gli uomini illuminati, però, da tempo non risiedono su questa Terra; qui il primato dello scientismo iperpragmatico ha eroso da tempo ogni margine alle pascaliane Raisons du Coeur. Al loro posto, esseri umani che, come uno degli antieroi che, nella trilogia d’apertura, impersonano non solo gl’io narranti ma anche lo sfacelo dell’umanità, sono indeboliti dall’Ipercogito cartesiano: Sulla Terra avevo trascorso la vita a fare congetture, sperare, amare, dimenticando di vivere il presente (pag. 90).

 

Il Presente: il tempo per antonomasia della Grecità Perduta, la grecità presocratica, la grecità cantata dai grandi tragici e bramata fino alla follia da un altrettanto tragico Nietzsche. Tragico perché antistorico, appunto; perso nella suprema diacronia dell’essere un Esule nell’era ipertecnologica della seconda rivoluzione industriale: quella del Petrolio e dell’Acciaio.

Anche Antonio, da buon figlio di Trinacria, la più Greca di quelle terre che furono Magno-greche, intona un canto di Dolore, ma anche di Speranza; un canto che è anche riproposizione di quella sublime Diacronia nicciana, che urla alla e nella Natura la sua vertigine all’incontrario (quella che ti prende guardando dal basso verso l’alto): l’Ottembre: Era forse una linea sospesa, l’immagine che si perde nei sogni che una mia amica scrittrice aveva definito Ottembre, storpiando il mese delle foglie cadenti. Proprio Ottembre vedevo apparire, nei colori tenui che si spandevano tra i greti, nel gelido spumeggiare del mare, nell’incessante corsa del vento verso il promontorio, nella QUIETE CHE AGITAVA IL MIO CUORE (pag. 29, stampatello mio).

L’amica scrittrice non è un’invenzione letteraria; esiste davvero, ha scritto un libro-shock, dove Ottembre assume una connotazione più disperata, diventando il toponimo di un Io narrante che ha un placentare bisogno di scorciatoie per giocare col proprio passato. Così, Ottembre diventa «[…] Il tredicesimo mese, magico e muto, scrigno di segreti[2]»; una sorta di libro mastro dove vengono contabilizzate […] cose vere, tutte verificatesi, belle e brutte, tutte poco amanti della storia, tutte traumatiche, in fondo. Tutte iscritte sotto la voce ottembre e sotto voce “crediti personali” estinguibili con ricevimento scuse o avveramento miracoli.  Anche qui, dunque, una sorta di contrapposizione di una dimensione a-storica, a-storicista, a-sincrona, al tempo del paradigma occidentale, quello misurato, misurabile, scandibile e condizionante (vedansi le prime scene di “Castaway”, col magnifico Tom Hanks) . Ed Antonio coglie la palla al balzo, reinterpreta secondo la sua sensibilità la suggestiva e disperata eco dell’Eterno Presente urlato da Monica, e non a caso lo fa attraverso un personaggio femminile, non (più) terrestre: Thana-la- Maieuta. Con l’armonia, invece, tramite la memoria dell’acqua, si poteva sondare un mondo che appariva lontano, quel mondo che la tua amica scrittrice aveva giustamente definito Ottembre: una realtà percepibile soltanto con l’immaginazione, l’unica che poteva sconfiggere il vostro materialismo, quella che sicuramente vi condurrà verso la distruzione. (pag. 35).

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Antonio Messina (Partanna, Trapani, 1958), romanziere e poeta italiano.

Siciliano che vive in plenissimo Nordest (Padova), nel 2003 ha esordito col romanzo “L’assurdo respiro delle cose tremule”[3]

 

Antonio Messina “La memoria dell’acqua”, Il Foglio Letterario, Piombino, 2006.

 

Introduzione della scrivente.



[1] Parole prese in prestito da una bella canzone di Riccardo Cocciante “Ti amo ancora di più”, risalente ad una decina d’anni fa circa.

[2] La presente citazione e le seguenti sono estrapolate da: Moniica Cito “Venere, io t’amerò”, Giulio Perrone editore, Roma, 2005.

[3] Lo trovate recensito al n. 131 di www.kultunderground.org

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