Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, vittime di un attentato dei nazionalisti serbi persero la vita l’erede al trono dell’impero austro-ungarico Francesco Ferdinando d’Asburgo e sua moglie Sophie Chotek; l’evento in sé, per quanto grave, sarebbe stato confinato nei fatti, non sempre lieti, che costellano la storia se non avesse invece costituito il pretesto per l’inizio di un conflitto enormemente sanguinoso, più conosciuto con il nome di prima Guerra Mondiale. Se forse è vero che nessuno voleva uno scontro aperto, è altrettanto vero che nulla fu fatto per impedirlo, con conseguenze nefaste per chi vi si impegnò militarmente soprattutto per tentare di risolvere il problema, invece ormai senza soluzione, di una inarrestabile decadenza. Furono sufficienti infatti pochi anni per cancellare dalla scena europea alcune grandi monarchie, che ormai da tempo apparivano in inesorabile declino; sparirono così i grandi regni e imperi di Russia, di Turchia, di Germania e di Austria-Ungheria. Perché ciò avvenne? Perché una grande dinastia quale quella asburgica giunse alla fine dei suoi giorni? E’ a queste domande che Edgarda Ferri intende rispondere con il suo romanzo storico Guanti bianchi, partendo proprio da quel funesto 28 giugno 1914. Ed è lì che con l’improvvisa scomparsa dell’Arciduca, nel vuoto di un potere rappresentato dall’imperatore Francesco Giuseppe, vecchio e stanco e soprattutto atrofizzato nel suo personaggio di regnante, padre di tante patrie di cui ormai non conosce più i figli, prende corpo una figura normalmente non di primo piano in una dinastia, ma che nella circostanza ha il potere di dettare regole e comportamenti a cui tutti devono soggiacere. Si tratta del principe Alfred di Montenuovo, il Gran Ciambellano, il cui compito è ora di organizzare le solenni esequie, secondo un protocollo rigido, pomposo, fuori di ogni logica e anche fuori dal tempo. Lui può tutto, ciò che decide è legge e deve essere obbedito; è un uomo insensibile, perfino gretto, che di certo non aveva in simpatia l’Arciduca, per non parlare si Sophie Chotek che, per quanto contessa, era troppo poco nobile per sposare un erede al trono. Infatti il futuro imperatore d’Austria avrebbe dovuto sposare solo una figlia di re e ce ne volle a Francesco Ferdinando per convincere Francesco Giuseppe a dare l’assenso al matrimonio, assenso frutto di un compromesso di una meschinità incredibile: la sposa avrebbe dovuto vivere nell’ombra, come se non ci fosse stata. E anche questo è un bel problema per il Gran Ciambellano, costretto a far convivere un funerale di prima classe con un altro di terza, un catafalco immenso su cui collocare il corpo dell’arciduca e qualche cosa di infinitamente più modesto per la moglie. Tuttavia, per gentile concessione, in un apparente impeto di umana pietà, il principe di Montenuovo consentirà che sulla bara di Sophie, esposta per due ore nella cappella palatina dell’Hoffburg, vengano messi un paio di guanti bianchi e un ventaglio nero. Perché? Per sancire un indiretto legame con la famiglia del marito in quanto lei da nubile era stata dama di corte della moglie di un arciduca Asburgo. Sophie era stata solo una dama di corte, quasi una cameriera di rango nobiliare, e tale era da considerarsi ancora. Non si tratta quindi di umana pietà, bensì di un ulteriore affronto a una donna che in vita sua aveva avuto solo il torto di amare l’erede al trono. E in un’atmosfera come questa, nella cappa opprimente del vecchio e stantio che l’attentato ha reso ancora più cupa, è evidente che ci troviamo di fronte alla degenerazione di un sistema che, divorando se stesso, finisce con l’implodere.
Il ritmo è dovutamente lento perché tale deve essere ed Edgarda Ferri ha saputo dare a un dopo (dopo l’attentato) il senso ben preciso di una cerimonia funebre con cui una dinastia finisce con il seppellire se stessa.
Da leggere senz’altro.
Edgarda Ferri, giornalista, saggista e scrittrice. Le sue biografie di Maria Teresa d’Austria, Piero della Francesca e Giovanna la Pazza e La gran contessa (Matilde di Canossa) sono ripetutamente ristampate negli Oscar Mondadori. Per Skira ha pubblicato Il cuoco e i suoi re (2013), sulla figura di Antonin Carême.
Nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svitlana a Borgo Virgilio (MN). Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006. Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Carmina, Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book. Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme (www.arteinsieme.net)
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