KULT Underground

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Sempre fretta

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Sempre fretta

Luca ha sempre fretta. Luca ha fretta di consumare la sua vita. Luca e la sua bicicletta hanno fretta. E’ come se inconsciamente sapesse di avere un appuntamento importante, a cui Luca non vuole mancare per nessuna ragione al mondo. E’ per questo che corre. Pedala spavaldo e rapido nel traffico intasato della sua mini cittadina. Conosce tutte le strade, tutte le buche. Conosce tutti gli stop, i tempi dei semafori, i dare la precedenza e la dislocazione delle rotonde. Sa quando gli conviene saltare sul marciapiede e quando superare a sinistra la colonna di macchine in attesa di un assenso semaforico. Si può osare supporre che conosca anche tutti i cocchieri delle carrozze a motore della città. Conosce le loro reazioni, sembra leggergli nel pensiero cosa faranno, a che velocità vanno, se desiderano svoltare a destra o a sinistra.
Così Luca corre. Corre a perdifiato, mulinando i grandi rapporti della sua bicicletta rossa. Sfrecciando impavido nel traffico, curvando inclinandosi al limite di aderenza dei suoi pneumatici consunti. Corre verso il suo appuntamento, come se non sapesse fare altro.
Ad ogni modo, quel giovedì di Marzo c’era una ragione in più per correre. Si era alzato tardi, colpa di quella stupida sveglia che oramai è da buttare, si era lavato la faccia con l’acqua fredda nel tentativo di rianimarsi più rapidamente, si era infilato i primi vestiti che gli erano capitati tra le mani, aveva, infine, preparato la cartella in modo casuale, buttando dentro i libri a casaccio e si era sparato fuori di casa come una saetta.
Quattro chilometri lo separavano dalla scuola. Quattro chilometri da farsi a tutta manetta. Così era montato in sella e aveva dato fuoco alle polveri. Via, sul lungo rettilineo a tutta velocità, poi secca curva a destra, appena rialzato dalla svolta due o tre pedalate e bloccata posteriore, bici intraversata e ancora infilarsi sulla destra. Semaforo da mangiare finche è giallo, e via giù per il discesone, dove si tocca la velocità massima. Un occhio rapido per vedere chi sopraggiunge da dietro e pronti per la curva a sinistra.
Carlo è stanco di pantofole e televisione. Carlo è stanco di che cazzo fai tutto il giorno seduto su quel divano io alla tua età già mi ero sposata e stavo allevando te e tuo fratello che grazie a dio almeno lui un lavoro c’è l’ha ma quando ti decidi a trovarti un lavoro così almeno ti togli dalle palle che io sono vecchia e stanca, le parole si confondono poi in un orribile cacofonia che viene dalla finestra con vista sul lattoniere Ermanno. Così Carlo in un impeto di forza giovanile e fresca, all’alba dei suoi trentatré anni si è alzato dal divano, ha dato una spolverata a se stesso al suo diploma di ragioneria e si è messo in cerca di un lavoro.
Dopo due anni di piccoli impieghi settimanali e arrivederci e grazie se avremo bisogno di lei la richiameremo, Carlo era ad una svolta. Dopo due anni di ricerche e vita in casa con la madre, stronza, che lo dileggia come un secondino con l’ergastolano, sentiva una ventata di possibilità rinfrescargli la faccia smunta :"Bene, Sig. Cavalli, si presenti alle otto e trenta di giovedì prossimo per iniziare il suo nuovo lavoro."
Era arrivato il condono. L’amnistia lo aveva liberato dalla sua condanna avita. Aveva un appuntamento che non doveva mancare. Non avrebbe tardato neanche un secondo. Non avrebbe tardato neanche un secondo.
Così quel mercoledì sera aveva preparato tutto, aveva puntato la radiosveglia alle sette e quindici e si era infilato a letto, euforico, pronto a cominciare quella nuova vita che lo avrebbe portato lontano da quella prigione stantia. Quando aprì gli occhi giovedì mattina si rese subito conto del ritardo. Quei bei temporali notturni che riservano i mesi di marzo alla vecchia maniera, aveva fatto saltare la luce e con sé la radiosveglia collegata con il suo cordone ombelicale nero e lustro all’impianto elettrico del palazzo. Era in ritardo. Ma c’è la poteva ancora fare.
Vaffanculo i mezzi. Avrebbe preso la macchina. Si era vestito come un turbine, raccogliendo gli indumenti preparati la sera prima, si era lavato i denti a razzo e si era precipitato giù per le scale.
Quattro chilometri, solo quattro chilometri. Poco tempo a disposizione, macchina in riserva e di fronte l’insormontabile ostacolo del traffico paralitico e caotico della città incazzata delle otto e un quarto. Ma non si sarebbe arreso adesso. Si era così lanciato sul vialone a tutta la velocità che gli consentiva l’alfetta bianco sporco dell’ottantacinque da revisionare. Aveva bruciato due stop e due semafori. La meta era vicina e il ritardo quasi estinto, non avrebbe ceduto proprio adesso, avrebbe svoltato a destra subito prima della salita.
"E questo chi cazzo è ?"
Questo fu il penultimo pensiero di Luca mentre, oramai in ritardo di linea si buttava a sinistra con la bici. Si domandava da dove era sbucata l’alfettona bianca da rapina che gli veniva incontro a folle velocità, saponetta impazzita nel traffico al rallentatore.
"Cosa cazzo succede ?"
Si domandò Carlo, mentre il pazzo in eskimo e bici rossa gli tagliava la strada a pochi metri dal traguardo della sua libertà.
Le reazioni furono per entrambi istintive. Carlo frenò bruscamente sull’asfalto ancora sudato di pioggia. Lo stridio delle gomme fu il grido di dolore che attirò gli sguardi dei passanti distratti. Luca con l’istinto di un furetto tentò di piegare ulteriormente la magica bici, sperando di guadagnare spazio e stringere la traiettoria.
L’impatto fu spettacolare e violento, ma parecchio impari. Il candido lamierone dell’alfetta aveva una consistenza e una rigidezza ben diverse della giovane carne di Luca, e anche l’alluminio della sua bici era poca cosa contro il paraurti metallo-cromato dell’auto. Così Luca rimbalzò prima sul famelico cofano, poi sul parabrezza e infine sull’asfalto, lasciando una traccia di sangue cremisi a ricordargli il percorso fatto, mentre la bici veniva mangiata dalla onnivore ruote dell’alfettone.
In quell’istante Luca fu sicuro della puntualità al suo appuntamento e si beò un poco della sua ostinata precisione. Se lì la morte lo stava aspettando, lui certo non l’avrebbe fatta attendere oltre, neanche un secondo di troppo.
Carlo, al contrario, maledì la sua tendenza al ritardo, maledì quella stupida pioggia di marzo e inveì contro il suo carceriere che sicuramente lo attendeva a casa per riaccoglierlo tosto nelle prigioni familiari.
Il resto sono sirene di polizia e pallore di ambulanze. Ma queste sono come un invitato in ritardo ad una festa dove l’ospite se ne è già andato.

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