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Neo-neoralismo?

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Neo-neorealismo?

Quando è finito "Festen", il magnifico film del danese Vinterberg, non ho potuto fare a meno di pensare all’ormai celeberrimo "Dogma 95", il codice deontologico imposto dall’amico-mentore Lars Von Trier a chi voglia fare un cinema naturale, vero e reale. "Dogma 95" vieta gli effetti speciali o le luci artificiali, ordina l’uso della camera a mano ed il suono in presa diretta. Il risultato? Una storia ed i suoi personaggi, ancor prima di un film, il cinema dell’"accadendo" piuttosto che quello dell’"accaduto". E così come 50 anni fa il neorealismo che rivoluzionò il cinema partì proprio dall’Italia, o meglio dall’Europa in genere, ancora una volta è la vecchia Europa che crea e innova, senza bisogno di lucertole o ruffiani film fintamente veri (vedi il "Soldato Ryan").
Il paragone tra "Festen" ed il neorealismo che cominciò con "Sciuscià" e "Ladri di biciclette" non è azzardato. Allora il merito fu della coppia Zavattini-De Sica, volutamente non in ordine alfabetico ma in ordine d’importanza. Il loro sodalizio fu duraturo e litigioso, fruttuoso e altalenante, ma fu senza ombra di dubbio incredibilmente fertile e proficuo. L’ovvietà dei soggetti e delle idee del provinciale Zavattini, nato a Luzzara (RE) ma cresciuto culturalmente a Parma, si sposarono perfettamente con la visione metropolita di De Sica, con la sua indiscussa capacità di concentrare e valorizzare i pensieri, anche degli altri, in un gesto o in una inquadratura. "Ladri di biciclette" confermò l’Oscar assegnato a "Sciuscià", nonostante quest’ultimo fosse stato un fiasco commerciale e di pubblico. Nell’immediato dopoguerra era più godibile un film d’amore piuttosto che la messa a nudo della povertà e delle continue tribolazioni della gente comune. Era molto più rilassante vedere paesi e paesaggi nuovi, ridenti, ordinati piuttosto che i vicoli polverosi e cadenti delle nostre città. Zavattini è incredulo. A chi gli chiede come fa ad elaborare un nuovo soggetto cinematografico risponde che non ce n’è bisogno, la trama è lì davanti ai nostri occhi, continuamente. E’ così che Zavattini elabora la teoria del "pedinamento", sposando alcune avanguardie cinematografiche che provengono dall’estero e che pensano ad un film/non film fatto solamente seguendo un uomo nel corso della sua giornata, un film da "…vedere con una pazienza insaziabile, educarsi alla contemplazione del nostro simile nelle sue azioni elementari.", "…il film dell’uomo che dorme, il film dell’uomo che litiga, senza montaggio e oserei aggiungere senza soggetto". La vulcanica mente di Zavattini e la lucida visione di De Sica, i due si arricchivano dell’esperienza altrui e si limitavano gli eccessi di realismo o romanticismo, diedero poi vita ad una serie incredibile di realizzazioni importanti, sempre in anticipo sui tempi o comunque sempre con l’occhio cinicamente penetrante del realismo. "I bambini ci guardano", "Sciuscià", "Ladri di biciclette", "Miracolo a Milano", "Umberto D." che, forse, mise fine al neorealismo "ufficiale" quando fu pubblicamente osteggiato dall’allora sottosegretario allo Spettacolo Giulio Andreotti che pose il problema della "…responasibilità dei grandi autori di opere cinematografiche di fronte all’opinione che il mondo si fa di noi, del nostro Paese attraverso la visione di esse", scosso dalla triste povertà del piccolo borghese Umberto Domenico Ferrari e dai pensionati che inneggiavano ad "aumentare le pensioni". Anche in seguito, quando non si parla più di neorealismo ma il nostro cinema fa comunque scuola, i due realizzarono "Stazione Termini", la commedia "L’oro di Napoli" con Totò, "La ciociara", "Il giudizio universale", "Il boom" ed altri ancora. Ognuno di questi film era un vero e proprio parto. Da un lato l’acuta e vivace intelligenza di Zavattini male si scontrava con quello che ormai era diventato un business, business nel quale De Sica entrò dalla porta principale con la pioggia di Oscar e di incassi dei suoi film. L’attaccamento alla realtà e al soggetto di Zavattini, semplicemente "Za", insieme col mancato riconoscimento formale del suo indispensabile contributo al film strideva con lo status di "star director" ormai raggiunto da De Sica, al quale i produttori facevano la corte per fargli dirigere le stelle di Hollywood o del cinema europeo, indipendentemente dalla storia.
Se De Sica è l’occhio dietro alla macchina da presa, e che occhio!, Zavattini è l’altro occhio, quello che guarda la strada e le persone che la percorrono.
"Ladri di biciclette" ne è l’esempio perfetto. Ricci Antonio, uno dei miseri abitanti dei nuovi quartieri alla periferia di Roma, ha appena ottenuto un lavoro come attacchino ma, condizione indispensabile, serve la bicicletta che ha appena impegnato. Riscattandola con delle lenzuola comincia l’indomani il suo nuovo lavoro. La moglie lo saluta dignitosamente nella sua nuova divisa comunale ed il figlioletto si è alzato prima del solito per lucidargli la bicicletta. Mentre attacca un manifesto di Rita Hayworth gli rubano la bicicletta. Comincia così il suo viaggio disperato alla ricerca del ladro e comincia il nostro viaggio in una Roma altrettanto disperata e lontana dalle cartoline. I film diventano due: quello dell’attore non professionista e di un bambino incredibilmente espressivo e quello che scorre dietro loro, fatto di mercatini, mense dei poveri, chiese stracolme, santone prezzolate, tifosi di calcio. Lo spettatore "pedina" letteralmente i protagonisti sia nei movimenti fisici sia nei pensieri. Il film è proprio come voleva Zavattini, in ogni inquadratura e De Sica ne è il realizzatore; "…uno come te non lo trovo" dice di lui Zavattini.
Ecco perché a distanza di cinquant’anni la realtà continua a stupire; d’altra parte non c’è tema più attuale e comune della realtà, del quotidiano o del microuniverso che è l’esistenza di ognuno di noi.
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Benatti Michele

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Alcuni riferimenti e citazioni sono state tratte dal catalogo Cesare Zavattini una vita in mostra.

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