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Senza fine, senza nome

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Senza fine, senza nome
(quarto classificato)

Sono settimane, ormai, che vago tra questi spazi di miseria. Ma tanto qui il tempo non ha significato. E anche i luoghi non sono mai gli stessi. Restano costanti soltanto le tonalità del grigio, interrotte ogni tanto da scariche elettriche bluastre. E la puzza di roba che marcisce. Come me, giorno dopo giorno.
Dicevo dei luoghi che attraverso. Sembrano a volte stanze immense, di una maestosità corrotta da millenni di abbandono. Oppure foreste senza ossigeno, o colline sferzate dalla tempesta. Tutto muta, senza che io possa far niente. Solo mi chiedo perché ancora non mi lascio cadere in posizione fetale, ad aspettare che i topi vengano a rosicchiarmi i globi oculari. Perché non sono morto, mi rispondo, non sono all’inferno, di questo sono sicuro. Qui il corpo sente. Niente metafisica, nessuna spiegazione teologica. Anzi, siamo pure manichei: qui è il male, e io lo vivo (vivo!) sulla pelle e nelle ossa.
Certo anche la mente subisce devastazione. Vedo orrori, e loro guardano in me. E non di rado incontro occhi spaventati quanto i miei. Perché è un universo popolato da tante creature, e il confine tra preda e cacciatore è labile. Eppure sento forte la voglia di sopravvivere. E di continuare a pensare.
Penso a ciò che chiamavo realtà, e mi sforzo di non dimenticare niente, per quanto diventi sempre meno facile. C’era un mondo, all’interno del quale vivevo, ora dov’è? Sono io ad essere scomparso o realtà è ormai questa corruzione organica dalle cui ombre spuntano sguardi gialli e incattiviti?
Sassofoni, mitragliatrici, pet-therapy, bioparco, pannelli solari, vintage, cellule staminali, digitale, kamasutra, defibrillatore, va ora in onda, vorrei salutare, va posto un freno all’immigrazione, spaghetti. Spaghetti. So cosa significano questi termini? Riesco a concretizzare le loro immagini nella mente? Chissà per quanto, ancora.
Esercitare la memoria. È dura quando in ogni momento devi guardarti alle spalle. Perché questa è la culla dei miti, forse. Precipitati dall’empireo o saliti dalle viscere della terra, o magari proiettati dal buio dello spazio, esseri senza tempo battono queste zone appestate riportandomi a ciò che ero e sapevo prima. (Eppure è tutto così caotico.). Occhi di Medusa da evitare, revenant che reclamano il loro debito di sangue, cerchi delle fate che si aprono ai miei piedi. E la scia di fuoco della fenice sulla mia testa, lì dove volano le arpie. E in ogni angolo, tre vecchie a tessere il destino di chissà chi.
Ripensandoci, però, non è la culla dei miti, ma la loro tomba. Siamo tutti chiusi in questa follia di carne e sangue, l’umidità che rode le cartilagini è concreta, e così la fame, la sete. Chi sta dentro questa alterazione è prigioniero, nessuno escluso.
Insisto, questo non è l’aldilà. Ci ho riflettuto a lungo e non mi sento colpevole, non ho fatto niente per meritarmi questo. E non sono morto. Ogni giorno lotto per vivere, finora non ho mai smesso di respirare. Forse qualcuno gioca con me. Qui, paradossalmente, è facile perdersi in speculazioni masturbatorie. Dio è un sadico? A volte ha voglia di giocare con le sue creature? Giocare.è possibile che io sia solo un personaggio, e non una persona, un fantoccio che, illuminato per un attimo dalla scintilla, si rende conto della sua inconcretezza.
Magari tutta questa assurdità è riconducibile ad una partita di Dungeons&Dragons. Ma sto distraendomi, questa è la degenerazione che devo evitare. Piuttosto devo rimanere concentrato sui suoni, gli odori, i movimenti. Sento che i lupi si avvicinano.

Home cinema, tolleranza zero, tiro al piattello, spinning, il fascino della divisa, a qualcuno piace caldo, road map, io ti querelo, climatizzatore, pick up.sono sicuro di comprendere tutto ciò a cui ora sto pensando? Cose che qui semplicemente non esistono, e nella mia testa appaiono sempre più tremolanti e vaghe, sottili visioni troppo delicate per sopravvivere a lungo in questi abissi. La memoria.Io e il mio altrove, gli oggetti, le parole. E le persone, gli altri? Dove sono gli altri adesso? Cosa ci separa, quali distanze, come scorrono non paralleli i nostri tempi? È l’oblio. Sono dentro un’immensa goccia nera di oblio, che ruota pigra tra le stelle, leggera, senza una meta. Tante gocce quante sono le stelle, eppure nessuna si sfiora. Al massimo ci schiantiamo a terra, e la nostra esistenza termina in un temporale.
Forse è l’ideale conclusione.

Ho fatto una pazzia, ma era necessario. Da un po’ sentivo il suo respiro sul collo, a questo punto anch’io ho imparato qualche scaltrezza. Mi sono girato di colpo, cogliendolo di sorpresa. Era un Cacciatore, uno dei tanti.
L’ho affrontato:
– Sai chi sei, chi eri? Sei sempre stato qui?
Mi ha risposto come immaginavo, facendo brillare la sua lama a un centimetro dalla mia gola. Ma io ho continuato.
– Da dove vieni? – E poi, alzando la voce: – Sai dirmi cos’è un digestivo? E il sirtaki? Quand’è il momento di cambiare le pasticche ai freni? Hai mai chiesto l’immunità parlamentare? Ti ricordi di Dolly Bell? E di Churchill? Ti faresti clonare? Perché? Perché?
Urlavo. E piangevo. Quello sgranava sempre di più le palpebre, e alla fine corse via. Io invece continuai a piangere, perché avevo realizzato che non sapevo rispondere a nessuna di quelle domande.

Cristallografia, scioperi, assopigliatutto, lattice, rapina a mano armata, yoga, crack, speleologia, più religione meno istruzione, antistress, spaghetti.
Erano buoni, gli spaghetti, questo lo ricordo ancora.
Sono settimane, ormai, che vago tra questi spazi di miseria. Possa qualcuno aver memoria di me.

Alessio Castellani

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