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GODI, ANIMA MIA!

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GODI, ANIMA MIA!
Decimo Classificato

Marco non ingrana. In palestra ha provato il bilanciere e dopo il salto della corda e gli attrezzi … due pugni e un calcio al sacco e via … ha acceso il televisore e le immagini passavano senza coinvolgerlo … il caffè, cos’aveva il caffè ‘sta mattina? Ha letto due pagine senza capire, ripeteva una frase tre volte, collegava i significati delle parole, ma il senso del tutto gli sfuggiva ugualmente. Il giornale l’ha appena sfogliato. Non era in grado di concentrarsi.
Non va, ora gira inquieto nella sua casa di Gallio; sicuramente ha dimenticato qualcosa d’importante, ma cosa? Questa impressione lo punge come un avvertimento o una spina conficcata in profondità e nascosta. Vorrebbe riportarla in superficie per toglierla, ma come fare? – immersa com’è fra tanti ricordi di affari conclusi, di viaggi e paesi visitati, di lotte combattute, una vita insomma! E che vita!
No, è un ricordo più profondo quello che gli sfugge. Ha scavato in silenzio e a tradimento nel suo animo per farsi vivo ora e presentargli il conto. Si accorge che lo presagiva da tempo, minaccia lontana e trascurata, e tuttavia incombente. Questa impressione comincia a essergli odiosa. Si accorge che si sta facendo strada persino un senso di rimorso. Ci mancava anche questo! – pensa, poco abituato com’è a tale sentimento.
Un avvenimento deve aver smosso la memoria e attivato il meccanismo fermo da anni. Un sogno? Della notte precedente ne ricorda due. Nel primo era in Vietnam e usciva di pattuglia. Si era addentrato nella jungla, i sensi all’erta. La coscienza del pericolo gli chiudeva la gola. Il ricordo della jungla era riaffiorato nitido, con gli alberi di ramin, i bambù, le scimmie e gli insetti, il cielo abbacinante fra l’intrico dei rami. In uno scontro a fuoco, fra le capanne di un villaggio, aveva poi sparato e ucciso; ma l’ultimo vietcong, che lui colpiva e colpiva, non cadeva. Le pallottole lo trapassavano, il corpo sussultava a ogni impatto, ma non cadeva. Mai sarebbe caduto.
Aveva poi sognato una cerimonia funebre di gruppo; i morti non erano distesi in bare, ma composti in ginocchio sulle panche di un’ampia chiesa e frammisti ai familiari. Lui era con un amico. Questi era inginocchiato vicino a un cadavere, che continuava a cadergli addosso. Il suo amico lo ricomponeva, cercava di sostenerlo, ma inutilmente.
Pensieri dunque di morte. Ma solo due i sogni? O ce n’era stato un terzo, piccolo e duro come una sfera d’acciaio, e inafferrabile?
O il fatto che aveva rimesso in moto il meccanismo misterioso era avvenuto il giorno prima? Era stato sull’Ortigara. Era arrivato in auto fino ai piedi del Monte Lozze e ne aveva raggiunto la sommità, camminando spedito. Era una giornata limpida e si era tolto la camicia per godere il sole. Sulla cima aveva visitato il piccolo ossario e la chiesetta. Poi aveva proseguito verso l’Ortigara, entrando in una vallata aspra, priva di alberi d’alto fusto. Fra le pietre e i pini nani, splendevano fiori dai colori vivissimi. Terra sacra agli Alpini, aveva letto quasi commosso in un cartello. Non stupisca questa momentanea debolezza. Camminava vicino a un gruppo di giovani, che cantavano una canzone di guerra. Il ritornello, con un tapùm triste e cadenzato, ricordava il tuono delle artiglierie, qui impegnate in tremendi fuochi di distruzione. Ne aveva scoperto i segni sul terreno scavato, frantumato, capace appena, pur dopo tanti anni, di alimentare erba, fiore e pino mugo. L’artiglieria qui aveva martellato per giorni e giorni i soldati e le fortificazioni. Il monte, sotto quell’inferno, aveva perso la cima, abbassata di metri. Mai al mondo ci fu battaglia più feroce, mai tanta gioventù perduta per una vetta.
Man mano che saliva, apparivano le cime dei monti vicini. Aveva percorso l’ultimo tratto in fretta, desideroso di ammirare il maestoso panorama. Giunto alla vetta, si era fermato al monumento ai caduti italiani: un piedistallo con sopra una colonna spezzata. Era poi arrivato a quello austriaco. Poco più in là strapiombava la Valsugana. Era rientrato nel pomeriggio ed era rimasto a casa a leggere.
E’ ora nel patio e vede che da una strada laterale sale lenta una lunga fila di persone. Alcune sono ben vestite, altre indossano abiti da lavoro, operai, contadini, studenti, pensionati, bimbi, tutti insieme. Ognuno sembra andare per conto suo, ma tutti seguono un uomo alto e robusto, calvo, il viso cotto dal sole. Egli porta in braccio un bambino di pochi anni. L’esserino piange e i suoi singhiozzi si sentono fino alla villa. L’uomo cerca di consolarlo. Gli accarezza il viso, gli bacia il capo, gli sussurra parole dolci. Il resto del corteo è silenzio. I più salgono con gli occhi bassi. Una donna sospira. Un altro sorride rassegnato. Emana dall’insieme un’aria di dolore e di attesa.
Che strano corteo, Marco pensa, lo vedrò meglio quando sarà salito ancora. No, nemmeno l’Ortigara ha provocato la sua inquietudine. Cerca allora di rievocare gli incontri e gli accadimenti più recenti. Poi va indietro nel tempo, nell’età matura, fino alla giovinezza ormai lontana, e scopre così che la sua spina non si riferisce a un singolo fatto. E’ un piccolo rigagnolo d’acqua, che ha continuato a scorrere silenzioso, giorno dopo giorno. Lui non gli prestava attenzione, ma intanto l’acqua correva e scavava. Mai aveva pensato ad altri Marco Grandi, solo a se stesso, sempre il suo tornaconto, il suo vantaggio. Come poteva arrivare così in alto, se non impegnando ogni momento a superare chi gli stava davanti? E chi aveva sorpassato cancellava dalla sua vita, già proteso a un nuovo inseguimento. Quanti aveva lasciato sulla strada così, percossi e avviliti! Non era tenero lui con i vinti e i deboli. Non ha mai avuto tempo per loro né pietà. Marco non ha costruito nella roccia, ma ha saputo piegare la storia del paese al suo orgoglio.
Può essere contento della sua vita, ha avuto successo, quello che desiderava ha sempre raggiunto, la ricchezza, gli onori, mai una sconfitta, sempre vittorie. "Godi, anima mia, godi!" – pensa soddisfatto, irridendo l’inquietudine di prima, che ora si ritrae quasi timorosa.
Intanto la strana processione è arrivata a casa sua e si ferma. L’omone bussa alla porta. Ora Marco lo vede bene. Indossa una camicia a scacchi rossi e neri, un paio di calzoni di fustagno. Ai piedi calza scarponi consumati per le vie del mondo, ricoperti di polvere. "Che diavolo vorrà?" – Marco si chiede infastidito. Un’offerta per qualche strana associazione? Ora mi toccherà mettere mano al portafogli, pensa e rimpiange già la banconota.
Il bimbo si è calmato. Chiama ora la mamma con voce sommessa. Ecco, Marta ha aperto l’uscio e l’uomo entra deciso. Attraversa la stanza e arriva sino a lui.
"Marco Grandi? " – chiede imperioso, leggendo il suo nome in un lungo elenco.
"Sono io, che vuole e chi è lei?" – risponde seccato e aggressivo, mentre una sensazione di allarme dilaga nel suo animo.
"Sono l’angelo della morte, sono venuto a prenderti. Hai finito la tua corsa, Marco Grandi. Lascia ogni cosa e vieni con me."
La voce è profonda, sicura, non ammette repliche né rinvii. E Marco capisce che è tutto vero, non è un sogno né uno scherzo. E’ veramente finita. Domani non vedrà il sole e la luce. Non avrà un altro giorno. E’ finita per sempre.
"Dammi ancora un po’ di tempo" – chiede in ginocchio.
"Hai avuto una vita" – la voce rimbomba nelle stanze della sua villa. "Che ne fai di qualche giorno?"
Non chiede certo per rimediare, ma per vincere un’altra battaglia.
"Sapessi – riprende l’angelo della morte – quante volte ho chiesto all’Onnipotente di dare parte della tua vita a questo bimbo, che mi piange in braccio! Dio mio, gli dicevo, vedi che ne fa dei suoi giorni quel cane! Daglieli a questo bimbo, lascialo alla sua mamma. Mi chiedi una proroga? Guarda!"
E Marco vede a terra il suo corpo dare gli ultimi sussulti.
"Va in fondo alla fila" – gli ordina. E Marco obbedisce, forse per la prima volta. Gli altri fanno largo, schivandolo.


Paolo Cavraro

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