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Far East Film Festival 2009 – Undicesima Edizione

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Undicesima edizione del Far East Film Festival, considerato dagli organizzatori un festival di svolta, dopo aver festeggiato il decennale lo scorso anno. Svolta per il maggiore sforzo organizzativo nel cercare di aumentare ancora la qualità delle pellicole proposte, svolta perché in questi dieci anni il festival è cresciuto come è cresciuta l’importanza della cinematografia orientale in Italia e nel mondo, nei concorsi ufficiali dei maggiori festival internazionali, nella conquista di premi e di riconoscimenti e negli incassi al botteghino. E molti degli autori lanciati proprio dal festival di Udine hanno ormai raggiunto importanza internazionale. Testimonianza diretta è “Departures”, vincitore quest’anno dell’Oscar come miglior film straniero, opzionato dal Far East ben prima del prestigioso riconoscimento ricevuto. Se dieci anni fa il festival era nato come una scommessa, ormai è necessario adeguarsi all’importanza che queste cinematografie rivestono, e che sicuramente il Far East ha contribuito a diffondere, insieme ai numerosi autori orientali che sono passati da qui. Cercando sempre di tenere un occhio fisso al cinema più popolare e più amato dal pubblico, la ricerca non ha mai contraddetto la qualità delle proposte. Anche il festival di quest’anno conferma l’ottima riuscita dei precedenti, sempre impeccabilmente organizzato, con una programmazione ed una ubicazione ideale, proponendo pellicole perennemente interessanti. Oltre al già citato “Departures”, che anche qui ad Udine ha ricevuto il riconoscimento del pubblico (vincitore dell’Audience Award e del Black Dragon Audience Award), e di cui, purtroppo, non posso dare resoconti non essendo riuscito a visionare, vorrei segnalare alcuni film che andrebbero sicuramente recuperati, nella realistica previsione di una mancata uscita nelle nostre sale. Confido comunque che almeno “Departures”, in virtù anche dell’Oscar vinto, possa essere programmato nella nuova stagione cinematografica dopo l’estate.
 
“Yatterman” di Miike Takashi (Japan, 2009), era un po’ il film evento di questa edizione del FEFF, anche per vedere all’opera l’istrionico regista di culto Miike Takashi, alle prese con l’ennesimo genere da esplorare, un classico dell’animazione giapponese, una delle serie animate più amate per la loro comicità e demenzialità, trasmesse in Giappone alla fine degli anni ‘70. Per chi, come me, ha visto il cartone in televisione da giovane, e ne ha apprezzato le caratteristiche, l’originalità dei protagonisti, nonché l’erotica bellezza della cattiva Miss Doronjo, ha gradito soprattutto la fedeltà di questo live action con il cartone televisivo, di cui Takashi ripropone anche i riferimenti alla cultura pop degli anni Settanta. La storia rappresenta fedelmente i protagonisti, il Trio Drombo (i cattivi Miss Doronjo e i suoi due imbranati luogotenenti, Boyacky e Tonzra, agli ordini del prepotente Dottor Dokrobei), alla ricerca dei quattro frammenti della pietra Dokrostone, sempre sconfitti dai loro nemici storici, gli Yatterman (Ganchan, il ragazzo genio della meccanica nonché costruttore di giocattoli e la sua fidanzata Aichan). Nel film compaiono i robot ed i dispositivi conosciuti nella serie originale, il cane robot gigante Yatter-Wan ed i geniali dispositivi robotici creati da Boyacky per sconfiggerlo. Il film fa naturalmente grande ricorso alla computer graphics, ma la grande differenza con le produzioni hollywoodiane dei super eroi portati sullo schermo, di cui prevale sempre l’elemento drammatico e la triste realtà del mondo in cui si muovono, è l’inalterata comicità del cartone originale, che ne fa una pellicola divertente, dove il regista infarcisce la storia di elementi piccanti e di cui la protagonista Miss Doronjo ne è la rappresentante principale.
 
“Ip Man” del regista Wilson YIP (Hong Kong, 2008), è il classico film d’azione che può essere classificato nel genere delle arti marziali, anche se contiene elementi storici e biografici, pur nella libera interpretazione di certi dettagli romanzati non sempre fedeli alla realtà, che ne amplificano l’interesse. Si racconta la vita di Yip Man, il maestro di Kung Fu celebre per lo stile di arti marziali Wing Chun, e per essere stato, negli anni cinquanta, il maestro del giovane Bruce Lee. La storia si svolge in realtà ben prima del loro incontro, precisamente durante l’occupazione giapponese di Foshan, sua città natale nel sud della Cina, fino alla sua fuga a Hong Kong nel 1949. Il film descrive la dura e spietata occupazione giapponese e le terribili condizioni di vita degli abitanti, costretti a sopportare il duro lavoro e le umiliazioni, a volte solo per un pugno di riso. La pellicola è, in questo senso, classificabile anche come film patriottico, ed il maestro Yip Man diviene uno degli eroici simboli della resistenza sui crudeli occupanti. Visto il successo di questa pellicola nelle sale cinesi e di Hong Kong, i produttori del film hanno già accelerato i progetti di un sequel sulla vita di Yip Man a Hong Kong. Il film, per le sue caratteristiche di azione e spettacolarità, non sfigurerebbe nelle multisale cinematografiche italiane.
 
Stesso discorso accomuna il film coreano “The Good, The Bad, The Weird” del regista Kim Jee-won (Korea, 2008), chiaro omaggio al western di Sergio Leone. Il film, che non brilla particolarmente per la storia, un po’ scontata, ci regala soprattutto una splendida fotografia e la particolare ambientazione di “western manciuriano”, dove banditi, eroi tragici e comici, cattivi, inseguono una misteriosa mappa del tesoro. La trama è incalzante e ricca d’azione, ed il finale è l’apoteosi dell’omaggio a Sergio Leone, con il duello a tre fra appunto il “buono”, il “cattivo” e lo “strano”.
 
Il film è stato naturalmente campione d’incassi in Corea nel 2008, anche se ha perso la gara con l’altro film coreano “Scandal Makers” del regista Kang Hyoung-chul (Korea, 2008), selezionato anch’esso per il FEFF di quest’anno.
“Scandal Makers” è la classica commedia familiare, storia di un trentacinquenne dj di successo che incontra, dopo vent’anni, la propria figlia, di cui ignorava l’esistenza, che si presenta a casa sua con un bambino, suo nipote. La nuova situazione crea non pochi problemi alla vita del protagonista ed ovviamente si innescano una serie di gag e situazioni divertenti che rappresentano il successo del film. In particolare è la recitazione del piccolo protagonista di questa pellicola, il nipote, a risultare vincente, ma in generale anche quella di tutto il cast, trasformando una storia abbastanza scontata in una la pellicola di successo.
 
“The Equation Of Love And Death” del regista Cao Baoping (China, 2008), è stato probabilmente il film da me preferito in questa edizione del FEFF, se non altro per la scoperta dell’attrice cinese Zhou Xun, per la verità già star in patria. Vicenda sentimentale, giocata fra la commedia ed il noir, ci da un fresco ritratto della Cina moderna. La storia ruota attorno alla tassista Li Mi ed all’ossessiva ricerca del suo ex ragazzo, una storia densa di misteri e mai chiusa definitivamente, che vede l’alternarsi di strani e problematici personaggi, e di un sottobosco umano alle prese con le proprie sfortune e miserie.
 
Il regista Cao Baoping porta al festival di quest’anno anche un altro suo film “Trouble Makers” (China, 2006), che ha avuto diversi problemi, a causa della censura interna al suo paese, perché è un film che parla di corruzione delle amministrazioni e delle istituzioni nella Cina di oggi. Da questo punto di vista è già un miracolo che abbia visto la luce, ma la capacità del regista di portare comunque il messaggio, occultandolo dietro una commedia farsesca, ha ottenuto lo scopo. Un piccolo villaggio nella provincia sud-occidentale dello Yunnan è governato da quattro prepotenti e corrotti fratelli, che spadroneggiano gli innocui abitanti. Un giorno il segretario del partito locale, decide di porre fine al regno dei quattro fratelli ed organizza una sorta di ribellione popolare, che si concluderà con una divertente resa dei conti fra gruppi che si inseguono per l’intero villaggio.
 
“Love Exposure” del regista Sono Sion (Japan, 2009), è stato il film più curioso di questa edizione del FEFF. Innanzi tutto la lunghezza, 240 minuti di un progetto che in origine toccava le sei ore e che il regista dichiara di non essere riuscito a condensare di più, tempo minimo necessario per esprimere le proprie visioni. In un certo senso questo film rappresenta i temi tipici dell’underground giapponese: l’ossessiva citazione della perversione, chiodo fisso della società giapponese e di cui sono impregnati la maggior parte dei manga e degli anime giapponesi (soprattutto quelli a sfondo scolastico), la pericolosa influenza delle sette religiose, tema anch’esso affrontato in altri filoni, il sesso, il trash, la commedia scolastica e demenziale, le arti marziali. Il protagonista del film è il giovane liceale Yu, vissuto in una famiglia molto cattolica. Dopo la morte della madre, il padre reagisce rifugiandosi nelle fede diventando prete. La nuova condizione rappresenta un periodo molto felice, ma la situazione muta quando il padre si innamora di una sua parrocchiana, un’ex prostituta che prima lo seduce ma poi lo lascia. Il padre, sconvolto dalla perdita e dal senso di colpa, diventa sempre più ossessivo. Incolpa il figlio, pur essendo un bravo ragazzo, di mentirgli nel non confessargli i suoi peccati. Yu capisce che per rendere di nuovo felice il padre, deve paradossalmente dimostragli di essere un delinquente, ed allora si lega ad una banda e comincia a comportarsi in maniera violenta, sempre più interessato a diventare un peccatore per poter ottenere il perdono. La vera svolta si ha quando conosce un maestro della perversione, che lo guida su questo sentiero. Yu, grazie anche allo studio delle arti marziali, diventa un esperto voyer fotografico, con l’abilità di collezionare scatti proibiti delle parti intime delle proprie compagne di liceo e delle ragazze in generale. Yu però capisce che, nonostante questa sua abilità, non è riuscito ancora a trovare la donna della sua vita, la sua “Vergine Maria”, che, come promesso alla madre in punto di morte, avrebbe dovuto conoscere ed innamorarsi. Ma un giorno, durante una rissa fra bande, finalmente la vede. Questo però è solo l’inizio di una trama che si fa ancora più intricata e che vede coinvolti una perfida ragazza in cerca di vendetta, un fantomatico gruppo religioso, un’identità celata, ecc.. Nonostante la storia complessa, che fatalmente può registrare momenti di empasse, il regista riesce a traghettare il tutto verso un atteso lieto fine. Il film è divertente e satirico (spassosa l’intera parte riguardante la sua iniziazione a voyer perverso), con alcune parti meglio di altre, ma racchiude anche alcuni temi sulla società giapponese che fanno riflettere.
Ovviamente ci sarebbero anche altri film da citare, interessanti per alcuni aspetti piuttosto che per altri, e come in tutte le edizioni del Far East Film Festival, ognuno si può sbizzarrire con i generi che più ama. Per ultimo vorrei segnalare un film inserito nell’Horror day, e nonostante non sia un grande fan di questo genere, mi ha piacevolmente stupito, ed evidentemente non solo me, poiché è stato premiato fra le pellicole migliori di questa undicesima edizione.
 
“4BIA” dei registi Yongyoo Thongkongtoon, Paween Purijitpanya, Banjong Pisanthanakun, Parkpoom Wongpom (Thailand, 2008), è una pellicola horror composta da quattro storie girate da altrettanti registi. 4BIA raggiunge lo scopo di collocarsi come buon film di genere. Probabilmente l’idea di quattro episodi, anche con diverse caratteristiche, che spaziano dal filone horror umoristico all’horror soprannaturale, risulta avere meno cali di tensione di una intera pellicola di genere, in cui spesso la trama rimane scontata. Qui le quattro storie rimangono sostanzialmente semplici, e ci si può concentrare in maniera più diretta sullo scopo di queste pellicole: incutere tensione e paura. E questo film ci riesce.

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