drammaturgia e regia
Francesca Macrì e Andrea Trapani
con
Andrea Trapani e Lorenzo Acquaviva
“Anch’io sono uno di quegli uomini che sa aprire una porta con un calcio… per essere rispettati in questa porca città bisogna essere ben vestiti… avrò un abito perfetto… gli andrò addosso con una spallata… davanti a tutti… io non ho paura.”
L’inadeguatezza. La città. Con le sue vicende che si susseguono diverse sulla strada. La psicosi della solitudine – quella che nelle grandi metropoli può diventare incubo – in questo spettacolo si svela ai nostri occhi come un’ossessione che cresce prestabilita, premeditata eppure inganno della stessa mente: l’uomo si ritrova soggiogato dai suoi stessi pensieri. La realtà diventa proiezione soggettiva dell’incubo. E allora non resta altro che sognare ad occhi aperti: “Avremmo camminato fianco a fianco… Ti avrei sorpreso e tu non avresti più fatto a meno di me… e cosa, cosa saremmo diventati.”
Il dolce e l’amaro. Contrappunto di una sensibilità macchiata, ferita, stropicciata che cerca di proteggere se stessa ma che in definitiva non può essere che vittima degli altri e di sé. Così tra l’ironia, il gioco, l’evocazione scenica – protagonista delle scelte registiche di questo spettacolo – La Spallata, ci proietta in una dimensione altalenante, in una tensione continua rivolta al momento catartico, in cui la rivincita, la vendetta si dovrà compiere.
Secondo capitolo di una trilogia che indaga l’inettitudine dell’uomo-animale-sociale nelle sue varie età, è spettacolo ispirato a uno dei racconti de: I ricordi del sottosuolo di Dostoevskij, ed è il frutto del lavoro di una compagnia di emergenti professionisti: bianco fango.
La drammaturgia a singhiozzo di frasi spezzate e ripetute, di frasi cariche di sottotesto è tutta tesa a riprodurre un parlato che non tende mai ad essere prosastico e verboso, ma che riproduce la poesia del reale. Perfino quando si ricorre al dialetto, al gergo: “Che tempi Pippo…”, si ha sempre la giusta sospensione, il ritmo misurato e calibrato della parola, di frasi brevi, di sottrazioni che nascondono altri pensieri.
E così svelando e mostrando le grida di chi dice: “Dico a te… perché non mi scaraventi per terra!”, si delineano due linee bianche a terra che dividono lo spazio in una strada con panchina. Questa la scena. Una scena che è progetto: la trilogia si caratterizza infatti per l’utilizzo dell’oggetto panchina e della linea di polvere bianca… e allora se prima siamo in un campo di calcio (per: In punta di piedi) poi siamo in piscina: il protagonista sta in piedi sulla panchina come sul trampolino pronto per il tuffo…
Da ambientazione ad ambientazione però, e qui la bravura degli attori, non si perde mai di vista la psicologia dei personaggi, orchestrando così le situazioni in un crescendo drammatico colorato. In questo sia dato credito all’invisibile.