Da più parti in questi ultimi tempi si levano annunci riguardo un’incombente crisi alimentare di livello globale: l’argomento occupa le pagine dei quotidiani e ne è nata una petizione internazionale che sta creando una certa discussione (date un’occhiata qui).
La situazione però viene di rado spiegata nei suoi risvolti, non si dice, per il vero, che l’attuale crisi non discende da un’epocale penuria di cibo, ma dalla sua accessibilità e distribuzione. E’ un dato di fatto che siamo 80 milioni in più ogni anno (interessante ricordare, a proposito, che il filosofo e scienziato Arne Naess in “Ecosofia” parlava di 100 milioni di umani contemporaneamente viventi, per una vitalità planetaria autosostenentesi), ma non è questo il problema; non ci troviamo nemmeno davanti a carestie causate da patogeni, infestanti o agenti esterni che hanno danneggiato le coltivazioni. Il nocciolo della questione è che il cibo è, ora più di ieri, per molti inaccessibile. Prezzi in rialzo stanno mettendo in difficoltà milioni di persone e sono la causa delle rivolte in atto dal Bangladesh al Sud Africa. Le Agenzie per gli aiuti umanitari rendono noto che oggi 100 milioni di persone in più corrono il rischio di morire di fame. Volendo portare alcuni esempi, in Sierra Leone il prezzo di un sacchetto di riso è raddoppiato, ed il 90% dei cittadini non se lo può più permettere. In Italia il prezzo dei cereali, che era in netto calo alla fine degli anni ’90, sta subendo rincari continui; i produttori di mais si stanno rimboccando le maniche, per loro si annuncia una (breve) stagione di vacche grasse.
Ogni proprietà su cui si coltiva mais l’anno scorso si è rivalutata mediamente a livello globale del 15%. Merito dell’aumento del prezzo del mais da etanolo. Dall’Australia agli Stati Uniti passando per Argentina (+27%) ed Uruguay non ci sono eccezioni. Nei prossimi anni gli analisti finanziari si attendono rivalutazioni ancora del 15% per anno. Jim Farrel – uno che ne dovrebbe sapere qualcosa, dato che è CEO della Farmers National di Omaha, una società che gestisce 1,2 milioni di acri di terra distribuita fra 3700 fattorie – ha recentemente dichiarato: “non sono gli investitori a spingere verso l’alto i prezzi della terra, ma l’aumento dei prezzi del mais dovuto alla domanda di biocarburanti“. Come se non bastasse, l’aumento dei prezzi è anche stimolato dal fatto che ogni anno la terra coltivabile diminuisce perché il terreno si deteriora o viene coperto da nuove edificazioni. Fra il 1981 e il 2001, le fattorie statunitensi hanno perso 9,6 milioni di acri (il 2,8%). La vicenda ha risvolti più complessi, il prezzo delle fattorie sale perché sale la domanda di agrocarburanti, salita a sua volta poiché i governi cercano soluzioni per il riscaldamento globale (negli Usa, in 10 anni, sono stati spesi 51,3 miliardi di dollari per incentivare la produzione di agrocarburanti). Il riscaldamento globale darà presto un ulteriore contributo al caro-prezzi, rendendo più difficile la vita degli agricoltori.
Come evidenziato, lo scombussolamento dei prezzi trae origine dal grande business che sta montando attorno ai combustibili di derivazione agricola, negli States, dove la lobby degli agricoltori è più viva che mai; l’idea dei biocarburanti, ovvero di ricavare combustibili che sostituiscano il petrolio attraverso la granella dei cereali, ha promosso a livello globale una fiammata speculativa senza precedenti, che sta portando molte grandi aziende a investire su produzioni come mais, soia e colza.
Risultato? Gli Usa, tra i più imponenti produttori di granaglie per il mondo, hanno ritirato molta parte della loro produzione interna, prima destinata all’alimentazione umana e animale, per orientarla alla trasformazione e, quindi, alla produzione di biodisel e derivati. L’offerta sul mercato si è in conseguenza sensibilmente ridotta e il prezzo dei cereali ha preso a salire.
Quali conseguenze? Le conseguenze sono disastrose almeno per tre motivi. Il primo di ordine etico e sociale: l’impennata dei prezzi sta escludendo sempre più ampie plaghe del pianeta dalla possibilità di un approvvigionamento minimo di cibo, le grandi multinazionali – non crediate, sono sempre loro a manovrare i burattini, ancora quelle degli Ogm e delle biotecnologie – hanno deciso che si possono sacrificare alcuni milioni di vite umane per permettere ad un quinto della popolazione del pianeta di usare i propri SUV.
In secondo luogo, è legittimo attendere conseguenze ecologiche su ampia scala: la saga dei biocombustibili sta attivando a livello mondiale una corsa agli “armamenti” agricoli, sembra di essere tornati ai primi anni 80, torna a verificarsi un processo di intensificazione dell’agricoltura, che sembrava destinato a un lento declino poco dopo i primi anni 90. In due o tre anni assisteremo a una “restaurazione” delle pratiche intensive e allo smantellamento dei pochi risultati ottenuti dalle (sempre troppo timide) politiche agricole comunitarie. Medesimo discorso si può prospettare a livello globale: spazi verranno rubati alle fasce ecotonali, al bosco, alle foreste, verranno impiegate tecnologie sempre più massive e basate su criteri di distruzione, piuttosto che su una corretta biofilia. I “bio”-carburanti saranno l’ennesima giustificazione funzionale all’introduzione delle biotecnologie in campo! Questo con sensibili ripercussioni dal punto di vista ecologico, in termini di inquinamento e perdita di biodiversità.
Infine, mi sento di accennare ad una terza conseguenza/ipotesi di riflessione. Ai biocarburanti non crede nessuno, entro tre-quattro anni le multinazionali si disferanno di questi falsi progetti di produzione, avendo ottenuto quanto desiderato: più terreni e un ritorno poderoso in termini di tecnologie massive e industriali. Gli Usa rilasceranno allora sul mercato i cereali destinati alla produzione di carburanti, con uno scossone che metterà in ginocchio i molti agricoltori, soprattutto terzomondisti, che, senza le barriere economiche e gli ammortizzatori europei (ricordo che metà del bilancio Ue è ancora oggi speso per il solo settore primario) e senza i prezzi gonfiati di questi periodi, si troveranno a gestire investimenti senza più senso.–
La produzione di biocarburanti, giustificata falsamente come la soluzione ecologica alla fine del petrolio, è una doppia fandonia. Lo è in primo luogo per i limiti fisici della terra, che non può sopportare una produzione di carburanti da cereali utile per soddisfare le crescenti esigenze mondiali; potrebbe soddisfare quelle di una esigua parte della popolazione mondiale, ma con costi in termini di qualità ecologica (erosione suoli, desertificazione, inquinamento, perdita di biodiversità, eutrofizzazione, ec) non minori di quelli provocati oggi dalla combustione dei carburanti fossili. Fandonia due volte, in quanto, la produzione di biocarburanti è strettamente dipendente dall’agricoltura industriale, celeberrima fagocitatrice di carburanti fossili. L’agricoltura si vedrà costretta, nel prossimo futuro, a ripensare i propri metodi produttivi, davanti all’aumento dei prezzi del petrolio e alla fine sempre più imminente delle sue riserve.
Si tratta di agire subito a livello transazionale. Quel che fa specie è che non esistano, ad oggi, organi istituzionali di questo livello e che le politiche coordinate a livello internazionale, almeno per ora, non abbiano saputo dare i risultati sperati. Da ultimo, è forse poco corretto credere ancora alla politica come credibile contraltare del mercato, oggi la politica sembra piuttosto un’emanazione, una seconda essenza delle logica neoliberista. L’Unione Europea incarna bene il modello e non sembra voler offrire opportunità per ricredersi.