Premetto che non ho letto il romanzo. Parlo del film senza essere influenzato, in bene o in male, dalla fonte letteraria che esso traspone. “Traspone”; illustra; mette in scena. Un'”illustrazione”: in partenza, il film non si propone niente più di questo. Riduzione per il grande schermo di un romanzo di successo internazionale. Così il film si presenta, ed in questo è onesto.
E’ un film molto spielberghiano, nello stile. Una storia di padri e figli; una storia di figli “orfani” che ritrovano il padre. Il copione che Spielberg, con gli sceneggiatori di turno, mette in scena ogni volta che fa un film (persino “La guerra dei mondi” e “Munich”).
Il primo tempo – la parte della storia da bambini, nell’Afghanistan degli anni ’70 – è raccontato discretamente. Onesto: convenzionale, ma accettabile. Verosimile; e non è poco (rimpiangeremo molto questa verosimiglianza, nel secondo tempo). Poi, dopo la melensa, scontatissima (e un po’ noiosa) parte americana, girata senza anima né mordente (pare girata a fatica, giusto perché il raccordo narrativo andava colmato), ecco che il film ci piomba nell’Afghanistan imbarbarito dei talebani, tra una lapidazione, edulcorata, e una rapida occhiata ai bambini finiti sulle mine e orribilmente mutilati. Ma assomigliano a immagini da repertorio di telegiornale; Makhmalbaf non abita qui.
Ovvio che per essere appetibile al più vasto pubblico, la messa in scena dovesse essere la più convenzionale. Non classica (che sarebbe un pregio): convenzionale. Che il regista fosse un mestierante, non un artista, me lo aspettavo: però non prevedevo che l’opera(zione) finisse per essere tanto mediocre, e mi facesse persino dubitare della sua moralità. Addirittura?! Provo a spiegarmi.
Uscendo dalla sala ho visto gente che si era commossa.
E’ dunque un film consolatorio?
E’ un film “consolatorio”, ma in modo immorale. Che, attraverso la storia a lieto fine di un singolo, lava la coscienza sporca di tutti. Non è una colpa l’ottimismo, tantomeno è immorale. Ma mi sembra una colpa quella di voler consolare milioni di persone, facendo loro credere di essere “buone” perché le si porta a facilmente identificarsi con il protagonista. Una persona che si mette a posto la coscienza, di fronte alla Storia e di fronte al proprio passato, con l’adozione di un bambino: il figlio del più sfortunato amico d’infanzia, alla disgrazia del quale il contributo di questo protagonista è stato determinante.
Con questo film abbiamo l’impressione che, succedano le peggiori catastrofi, sono sempre gli altri, i “cattivi”, ad esserne responsabili. Noi, siamo le vittime.
Troppo facile. Sono sempre gli altri i cattivi? E le nostre, di colpe? Ci basta adottare il figlio dell’amico che abbiamo tradito, per poterci redimere? “Ma non è un’adozione fatta per togliersi un senso di colpa, è di cuore”, dirà colui al quale il film è piaciuto e che per questo gli si è affezionato e lo vuole difendere. Certo, un’adozione di cuore: siamo stati sin dall’inizio portati a identificarci con il protagonista, senza dubitare della sua bontà d’animo.
Facile. Ma in realtà, visti da vicino, nella vita, tutti gli uomini mantengono qualcosa di buono. Anche i peggiori “cattivi”. E questa non è una falsa impressione: è proprio così, tutti hanno in sé un po’ di bontà, e una possibilità di riscatto. Ma il film non si cimenta con questi temi impervi.
Il film vuole solo raccontarci che, anche se abbiamo fatto del male al nostro migliore amico, anche se poi scopriamo che lui era nostro fratello, un giorno si presenterà l’occasione di riscattarci. La sapremo cogliere quell’occasione? Ma certo. Ci verrà a cercare lei. Può darsi. Ma sarà davvero riconoscibile come il figlio, identico a suo padre, dell’amico che avevamo tradito, e cui avevamo spezzato il cuore e l’esistenza (con la crudeltà di cui a volte da bambini si è capaci)?
Il nostro senso di colpa ce lo porteremo appresso per anni, senza però che ci impedisca di vivere serenamente: un bel giorno, riceveremo una telefonata. Allora, sentiremo una voce di dentro: “Ecco la tua occasione di riscatto”. E noi salveremo un bambino fortunato, e avremo anche modo di gonfiare il petto di fronte a nostro suocero, nel dire: “Quel bambino di un’altra razza è mio nipote”. Saremo andati nella tana del lupo, e quel bambino identico a suo padre avrà utilizzato gli stessi gesti di suo padre: impugnerà una fionda, e riuscirà a farci scappare, accecando un talebano cattivo che ci stava malmenando (solo malmenando?). Piccolo eroe! Commozione in platea. Tutto suo padre…
E così, non penseremo più, se non come a una ferita rimarginata, a quella vita distrutta del nostro amico di giochi e di aquiloni, al suo sangue sulla neve, alla nostra codardia. Ci laveremo la coscienza e purificheremo il senso di colpa, come se la Storia regalasse davvero a tutti un’occasione di riscatto. (Ma è poi riscatto, questo?)
E’ un’etichetta pietistica, quella di questo film: non un’etica. Anzi, nel suo essere consolatorio, il film rischia addirittura di essere immorale. I romanzi e i film consolatori, pseudo-poetici, concedono illusioni. Ma la Storia, come la vita, è ben più cruda. E i percorsi per riscattare le colpe di cui ci siamo macchiati, sono ben più complessi e tormentati di quanto lo sia un’irrealistica incursione alla Indiana Jones nell’Afghanistan dei talebani. (Da cui non ci si può proprio fare credere si possa fuggire, con un bambino rapito a un talebano, a bordo di una jeep, grondando sangue, e passando persino inosservati al valico di frontiera presentando i documenti. Eh no…)
I buoni sembrano buoni fin dall’inizio, ce l’hanno scritto nei tratti del viso quanto sono buoni, dolci fin dalla nascita, nobili anche nei tratti somatici come la razza del servo lo è (solo, mannaggia) nell’animo. Quanto ai cattivi, il talebano cattivo è il ragazzo di strada un po’ più grandicello, discolo e violento: sì, proprio lui, quello che ruba gli aquiloni e picchia a sangue. Proprio lui!? Che ci ha riconosciuto nonostante la barba finta! Eh… Chi altri, crescendo, sarebbe diventato il talebano cattivo, se non lui? Ma per favore!…