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L’Arco

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Kim Ki Duk (2005)
 
  Il mondo reale è malsano, nel cinema di Kim Ki Duk. Là fuori, sulla terra, nella società, l’uomo fa male a se stesso. L’individuo, terreno fertile per passioni che generano sentimenti di morte (per riecheggiare il maestro di Primavera…), a contatto con altri individui precipita in un inferno morale cui non si scappa (in cui però è difficilissimo attribuire colpe e innocenze. Lo dice La samaritana).
  Appartati rispetto al mondo reale, vivono come dentro enclavi i personaggi di Primavera…, il giovane di Ferro 3 (che quel mondo attraversa, penetra, ma restandone immune nella sua alterità).   E naturalmente, distanti da terra, sospesi sull’acqua, stanno il vecchio e la fanciulla de L’arco.
  Si sarebbe tentati di instaurare un primo parallelo tra i personaggi de L’Arco e di Ferro 3. Il giovane de L’Arco, come il protagonista di Ferro 3, viene a liberare la fanciulla segregata, dalla libertà e vitalità compresse. …Ma il vecchio de L’Arco proprio non ci sta al confronto col grigio marito di Ferro 3. E ha ragione. Kim Ki Duk descrive il rapporto tra quei due (il vecchio e la fanciulla) con una tenerezza a volte selvaggia, con una sensibilità per il cuore di quel burbero arciere, che trascende il giudizio fondato sul senso comune, per cui quel vecchio sarebbe un depravato pederasta; di più, un sequestratore di bambine, presto affascinanti fanciulle in fiore.
  Il rapporto tra il vecchio e la fanciulla si avvicina a quello tra maestro e allievo in Primavera… . L’isolamento su una casa galleggiante, appartata dal resto del mondo, lontana dalle sue brutture – in un’armonia resa, in apertura del film, da uno splendore di melodie e colori.  L’evoluzione, poi: la ragazza conosce un ragazzo (in Primavera… avveniva l’opposto. La barca sull’oceano non è impermeabile al mondo esterno, come non lo era il tempio galleggiante di Primavera…) e vuole andar via con lui. Lo spettatore è dalla sua parte. In Primavera… il legame tra giovane e anziano appariva più sano, con una sua motivazione. Qui c’è qualcosa di apparentemente insano, che non è insano come appare, ma che tuttavia non può durare: perché la ragazza, semplicemente, non lo vuole. Il sogno del vecchio è infranto. Il vecchio comprende, e lascia andare la ragazza. Opta per il suicidio. Ma il primo tentativo non gli riesce. Era ancora preda delle passioni, come il giovane di Primavera… quando tenta di uccidersi.
  La ragazza comprende, lo salva. Torna indietro. Anche il ragazzo sembra da quel momento comprendere, e guardare al vecchio con rispetto. Si sposeranno il vecchio e la fanciulla? Un rito viene celebrato. Quanto basta perché il sogno del vecchio possa dirsi coronato; la fanciulla ha accettato con affetto sincero di rimettersi nelle sue mani. Ma è un’unione che non può esistere. Ora il vecchio ha realizzato il suo scopo: non tanto celebrare un rito, ma ritrovare la mano della ragazza che stringeva la notte con tenerezza. Ora può eclissarsi: è giunto il momento. Scompare nel mare, come il maestro in Primavera…
  Il vecchio si è fatto spirito, lancia una freccia, conquista simbolicamente la verginità della fanciulla (in un amplesso a tre che rimanda al finale di Ferro 3), segue per qualche istante il suo amore che se ne va (è lui la barca ormai deserta che segue l’altra), prima di affondarsi definitivamente.
La fanciulla col suo ragazzo stanno per approdare sul continente. Cioè sul mondo reale con tutte le sue brutture. Cosa c’è dopo l’idillio? Una storia di sangue come in Primavera… prima che l’allievo torni al tempio? Ci sarà comunque il mondo crudele dei film di Kim, cui questa coppia non potrà sottrarsi. Allo stesso modo appariva un’utopia il finale di Ferro 3.
  Kim Ki Duk ha raccontato una favola: in questo senso il film è più vicino a Ferro 3 che a Primavera… (che era piuttosto un apologo morale). Ma c’è una differenza. Ferro 3 nell’utopia ci credeva. C’era un percorso verso l’alleggerimento, fino allo stato fantasmatico, alla levità raggiunta. L’Arco (in più passaggi un po’ forzato nella costruzione), compone in modo originale frammenti della poetica di Kim Ki Duk, per ottenere un risultato un po’ fine a se stesso. Un difetto? Forse no. Ché L’Arco si confronta con uno dei sommi archetipi narrativi. Il vecchio, la giovane, l’altro; il conflitto e l’inevitabile sorpasso tra generazioni. Lo fa con una purezza e un’originalità morale che odorano di genuino; con un lirismo visivo estenuato ma di cui non si riesce proprio a negare lo splendore. Kim Ki Duk ha realizzato il suo film più semplice; ha declinato un archetipo secondo la sua poetica. L’Arco è, per Kim, quello che Ju Ha era stato per Kaurismaki.

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