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Tideland

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Una macchina da presa sotto oppiacei, che galleggia nello spazio, che taglia per obliquo le inquadrature. Come i due scoppiati che fanno da padre e da madre a Jeliza-Rose, mentre lei gli prepara con amore ed efficienza la prossima dose, scaldando la roba, filtrandola nell’ovatta, tirandola su con la siringa. La madre non ci mette molto a finire in overdose, il padre (Jeff Bridges in versione Big Lebowski tossicomane) le concede qualche giorno in più, decide di portarla con sé, in ultimo delirante viaggio, verso una wonderland macabra e mostruosa, immersa in una luce abbagliante, abitata da dementi e streghe, scoiattoli parlanti e grandi squali bianchi.
Terry Gilliam somministra cinema come fosse droga, allucinogeno od oppiaceo non ha molta importanza, l’effetto tanto è assicurato. Il suo occhio distorce e amplifica le percezioni, viaggia nelle storie, concede tutto all’immaginazione, rasenta la libertà assoluta.
Una strepitosa Jodelle Ferland è Jeliza-Rose, bambina abbandonata in un mondo assurdo, talento teatrale impareggiabile nel creare voci e personaggi (le teste delle barbie) per sconfiggere la solitudine, per mascherare la sua realtà, per creare altri mondi, altre possibilità, altre vite.
Tanti i riferimenti al capolavoro di Carrol ma con più ombre, più cattiveria, più incubi. Jeliza-Rose non rappresenta la bontà o il candore infantile, cela malizia e opportunismo anche se con innocenza, tutto per lei può essere ancora possibile perché la vera paura ancora non ha contaminato il suo cuore. Immersione totale in una fiaba nera come la pece, ironica e delirante, costruita su corpi deformi e ghignanti, dove la dolcezza può essere un bacio proibito e infinitamente tenero o il bisogno di una figura paterna, fosse anche quello che rimane del corpo, mummificato e sventrato, di Noah, il padre di Jeliza-Rose, un involucro di cuoio a cui confidare i segreti del cuore.
Tideland è anarchia visiva e narrativa, capacità di spingersi oltre i limiti dell’immagine e del racconto, per tuffarsi in quel buco che porta in una altro mondo. Come per Noah, che in quel buco nelle vene trova la propria vacanza, la propria fuga. Come Alice, che nel buco del bianconiglio trova l’accesso verso il concretizzarsi di un mondo immaginario. Cinema come capacità di vedere quello che non esiste, di dare forma al sogno o all’incubo, di trovare nell’allucinazione e nel trip una dimensione favorevole alle necessità della propria mente e del proprio essere.
Tideland, da un romanzo di Cullin Mitch, è un viaggio unico, non sempre positivo, incompiuto e a tratti sgradevole, ma che vale la pena di fare, per vedere cosa si nasconde al di là delle nostre normali percezioni, in quel luogo magico dove la mente e le sue deformazioni non hanno più confini.

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