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La strada di Levi

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La strada di Levi non è dritta. Non è una strada semplice, lineare, veloce. E’ una strada che si snoda attraverso l’Europa, che torna su se stessa, che attraversa territori a noi sconosciuti. Di questa strada vi ricordo l’inizio e la fine.
Auschwitz. Torino.
Nel mezzo un viaggio puro e semplice. E quindi movimento, avventura, imprevedibilità. Ma soprattutto, per lo stesso Levi, questo viaggio fu una tregua. Quella fra l’orrore del campo di sterminio e il ritorno alla vita borghese. Una tregua che durò solo gli otto mesi di questa peregrinazione in Europa, otto mesi di incontri, speranze e inconvenienti. Otto mesi per tornare a Torino, dove la tregua, a poco a poco, si concluse. Levi confidò poi alla scrittura tutto il suo dolore.
Davide Ferrario si mette in viaggio seguendo il percorso di Levi, seguendo la sua strada. Una voce narrante ci legge alcuni passi de La tregua. Le brevi descrizioni dell’autore cedono alle immagini l’obbligo di mostrarci cosa è rimasto, dopo sesssantanni, di quei luoghi che ha attraversato, cosa il tempo ha cambiato, cosa ha lasciato immutato.
Il viaggio attraverso i paesi dell’ex Unione Sovietica ci parla della fine del comunismo, si vedono ancora le enormi statue di regime, inneggianti l’uomo nuovo, l’eroe proletario, gigantesco e invincibile.
Le masse che avrebbero dovuto prendere il potere, gli uomini come fratelli, il lavoro come etica.
Rimane invece il quadro desolante di paesi rinchiusi in un destino cieco. Quello del capitalismo occidentale. Un destino fatto di sogni di plastica. Macchine, oggetti, computer, vestiti. E quindi l’emigrazione, e quindi tutti gli uomini e le donne dell’est che vengono da noi. E quindi la morte dell’utopia, della fratellanza e dell’uguaglianza.
Ma i volti di questi uomini, incorniciati in splendidi primi piani, ci danno ancora il senso e il valore della loro dignità. Del loro passato. E del coraggio con il quale dovranno affrontare il futuro.
Si passa dalle parti di Chernobyl, la città vicino alla centrale ormai deserta, un insieme di fantasmi di cemento e metallo.
Si attraversa la Bielorussia, l’Ucraina e poi verso occidente la Romania, fino alla Germania.
Davide Ferrario lascia semplicemente parlare le immagini, distribuisce forza attraverso la musica, poche le interviste. Sono la strada, i luoghi e i volti che devono raccontare.
Il regista si inventa momenti picareschi e ironici, dove l’uso del linguaggio filmico del cinema sovietico degli anni venti diventa allo stesso tempo omaggio e presa in giro.
Si affacciano sullo schermo i lineamenti marmorei dei padri della patria russa, Lenin e Stalin.
Rimangono statue, tutto il resto è andato perduto.
Vedere questo film è importante per vari motivi.
Prima di tutto non c’è fiction, ma solo documentario. Le immagini si ancorano di nuovo alla realtà, ci mostrano cosa succede nel resto dell’Europa non ancora occidentalizzata. Poi perché si ripercorre la memoria storica e artistica di un uomo che attraverso le sue parole ci ha lasciato un ricordo indelebile dei campi di concentramento. Infine perché questa è un’operazione coraggiosa che smuove le acque nel nostro panorama cinetelevisivo sempre più stantio e nauseabondo.
Le immagini dell’undici settembre aprono la pellicola. Anche noi siamo in una tregua. I prossimi anni non promettono nulla di buono. E allora cogliamo l’occasione per fermarci a riflettere su cosa è successo e su cosa sta succedendo.
Per me il senso del nostro mondo è abbastanza chiaro.
Caduta.
Lenta e inesorabile caduta.
E per questo avere il coraggio di cadere con esso.

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