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Eco a perdere – Fabio Izzo

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Il libro che Gordiano Lupi mi ha mandato (e gliene sono grata), Eco a perdere, si definisce più volte un “romanzo del terzo millennio”. Più che un romanzo, secondo me, questo libro è una ricerca, uno strumento di formazione tra le mani di un giovane scrittore che, abbisognando di un confronto diretto con il pubblico, sfida se stesso e la propria scrittura a diventare prodotto nelle mani del lettore. Lo si nota per esempio a partire dallo stile e dal linguaggio, costellato com’è, il libro, di puntini di sospensione (che tendono, per loro natura, all’indagine e alla domanda senza risposta, ma anche a una nozione di sé indefinita e titubante), di momenti lirici, di continui a capo, di frasi che, per loro occorrenza connatura, non rispettano le “regole” della sintassi e della grammatica così come le conosciamo. Ancora, in maniera del tutto esplicita, il libro stesso si interroga su di sé e sulla letteratura con una serie di quesiti – per lo più senza risposta – spesso incalzante e quasi ossessionante. Ecco, per esempio, come principia il capitolo 3, pregno di voci beckettiane e vittoriniane (per esempio, per una sorta di dialogo tra lo scrittore e l’io narrante – e quindi tra sé e sé – questo brano mi fa pensare alla sezione corsivata di Uomini e no):

 

Come si scrive un romanzo?

Come si scrive se un romanzo?

Che forse non vi si possa scrivere così?

Chi ha parlato?

Cos’è stato?

Un momento di sanità mentale in queste mente insana da sempre?

A me lo chiedi?

Lo sto appena facendo adesso.

Quindi non ne hai idea?

No come viene, viene… ma te chi sei?

Uno che passa

 

E così via.

Ancora, per altri “motivi” ricorrenti, per altri “toni”, Eco a perdere mi ricorda il fantastico Arancia meccanica. Come in questo passo:

 

Prese voglia di raccontarmi, per sminuire il lato geniale inespresso in me, esprimendomi avrei tirato fuori tutte le mie mediocrità d’uomo, d’artista, di scrittore, d’abitante dell’emisfero occidentale, di lettore, di persona con un gusto critico, di perdente delle piccole guerre quotidiane che si svolgono ad un centimetro dalle mie palpebre di guerriero inquieto.

 

Nel brano appena riportato, come in molta parte del libro, Izzo “fa” tre cose secondo me bellissime: riesce ad accomunarsi a noi tutti, avvicinando con maestria il lettore allo scrittore, al narratore, “entrando in amicizia” con noi e quindi spingendoci ad immedesimarci nell’io narrante del romanzo, che racconta proprio quello che proviamo anche noi, ogni giorno; lo fa con uno stile accattivante ma sincero, lirico e prosastico insieme, uno stile ibrido, suo personale (lo stile personale è secondo me una delle prerogative assolute di una buona scrittura, dalla quale non si può prescindere), profondamente emozionante; ci racconta il dolore, in fondo, nient’altro che il dolore e un senso di inettitudine totale (alla Leopardi, alla Pirandello, alla Svevo, alla Gadda, alla Tozzi, alla Pasolini e quant’altro, tutti grandi maestri senza i quali la letteratura non esisterebbe, e lo studio dei quali ci dà vita), ma ce lo racconta in modo ironico e sorridente, scegliendo di non affossarci nei nostri dolori e nelle nostre sconfitte quotidiane, ma spronandoci a ridere di noi, in maniera positiva, propositiva, direi, in questo modo trasformando il mondo circostante in materia letteraria, e in fin dei conti rendendo utile e produttivo anche un momento cupo.

 

A differenza di molti altri “romanzi” (lo chiamerò così per convenzione) contemporanei, e in particolare a differenza di molti altri scritti giovani, inoltre, Eco a perdere ci tiene a rivelare, e a sottolineare più volte, le competenze letterarie del suo autore, che di certo non si è improvvisato scrittore per il gusto di sedurre le donne (come si crede molto spesso – ricordo persino che qualcuno in un’intervista mi chiese in che modo lo scrivere libri mi aiutasse con l’altro sesso), ma che scrive per necessità, e che considera la scrittura non solo un piacere personale, ma una continua ricerca di certezze e di miglioramento – laddove, come probabilmente sappiamo tutti, è pressoché impossibile che, nel proseguimento della nostra ricerca, e nel perseguimento del nostro ideale letterario, arriveremo mai a un seppur minimo cenno di risposta, ma ci piace scrivere, amiamo leggere, e questo già ci basta –.

Anche se non amo, di solito, enumerare in maniera sterile le competenze letterarie che possiedo o non possiedo, perché mi sembra un’inutile esternazione di un piacere e di un merito esclusivamente interiori (leggere è a mio avviso un gusto troppo grande, che riceve il suo premio migliore nel momento stesso dell’atto di lettura e di studio letterario), pure credo fermamente, e non sono la prima a dirlo, che non esista scrittore senza lettore, senza lettore appassionato di letteratura, e Fabio Izzo, senz’ombra di dubbio, lo è. Questa, io credo, è una grandissima qualità, l’unica in grado di supportare in maniera sana e possente una qualsiasi tipo di ricerca letteraria. Fabio Izzo, inoltre, non ama gli scrittori che amano tutti solo perché sono degli scrittori affermati, ma ama, nel particolare, solo alcuni scrittori, che ha letto tanto e che lo hanno colpito profondamente. Anche se nel mio piccolo adoro perdutamente Il nome della rosa (secondo me uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana, che mi ri-stupisce e ri-seduce ogni volta che lo leggo), libro e autore che invece Izzo, suo conterraneo, dichiara più volte di non estimare (lo fa persino nel titolo, e nella quarta di copertina, come molte volte all’interno del libro), pure apprezzo moltissimo che un giovane scrittore, non ancora consolidato né ancora accettato nel “convivio” degli alti scrittori, dei geni della letteratura, apprezzo moltissimo che quello che definiremmo con un termine terribile “autore emergente” abbia già il coraggio e la dignità di dichiarare cosa per lui è letteratura e cosa no. Izzo lo fa nel corso di tutto il suo “romanzo”, in cui inserisce moltissime considerazioni personali, un abbozzo di storia (o meglio un abbozzo di vita, di vicenda personale) e alti momenti lirici, durante i quali la prosa si sublima in poesia (o meglio, di prosa ce n’è molto poca). Il tutto profondamente calato in un ambiente particolare, un profumo definito, un colore preponderante, un’atmosfera fruibilissima. Mentre leggiamo, allora, vediamo l’io narrante che consuma sere inutili in locali sconosciuti, che mangia ottime pizze panna e speck in pizzerie lontane quaranta minuti da casa sua (perché, si chiede l’io narrante, per una pizza siamo costretti a curve tanto tortuose da far dissociare gli occhi dallo stomaco nauseato e dolorante?, eppure la risposta dello stesso protagonista non è un ridondante “dove siamo andati a finire”, “che vita insulsa che facciamo”, ma piuttosto la ricerca di qualcosa di importante e di profondamente letterario anche nei gesti quotidiani, tanto impoveriti e inutili, a prima vista), che insegue alla radio un pezzo dei Nirvana trovando solo musica trip hop – come se la radio stessa fuggisse la musica di qualità propendendo per ciò che più fa moda –, che si accende per certi occhi celesti caleidoscopici, che lavora ai seggi elettorali per un referendum che non raggiungerà mai il quorum (e che si interroga se, scrivendo il quorum col “ck” al posto della “qu”, la gente, credendolo un inglesismo, si affretterebbe ad andare a votare tutta felice e soddisfatta), l’io narrante che ammette che criticare gli viene meglio che scrivere. E di fatti, il libro diviene una sorta di critica totale, perdendo man mano il suo seppur lievissimo carattere narrativo, per plasmarsi a guisa, appunto, di “romanzo del terzo millennio”, e cioè una “cosa” indefinita, che non si può prendere, che non si può afferrare, che è poesia, romanzo, e televisione tutto insieme, che parla di tutto e non dice niente di definitorio, che si innamora e disamora nello stesso sbattere di ciglia, che continua a chiederci se capiamo di cosa parla Eco, che esplode e si accende per un passo di Ossi di Seppia, che sente forte la mancanza di Rino Gaetano (anch’io!), che principia il suo libro con il Cantico dei drogati di De Andrè, che non si cura di alcuna regola grammaticale e di coerenza, ma che nel suo svolgersi segue sicuramente una coerenza interna e che possiede un enorme potenziale di dialettica tra scrittore e pubblico. Un io narrante che per tutto il corso della “storia” non pretende mai di non star scrivendo un libro, non dissimula mai lo sforzo creativo di arrivare alla fine della pagina, non teme mai di annoiarci mentre riflette su stesso, e, di conseguenza, non ci inganna mai. Un libro che si interroga sulla funzione attuale della letteratura e sulla funzione sociale dello scrittore, senza però mai perdere di vista che la propria principale caratteristica è quella di essere un romanzo del terzo millennio e, per deduzione, di essere uno strumento di ricerca.

 

Ma non ho tagliato il romanzo del terzo millennio, non ho spento le radio notturne e gli ululati gutturali di provincia che risuonano come shofar o trombe del giudizio per la fine dei tempi di Eco.

Che ad ogni lettore che mi avrà donato tempo avrà chiuso un libro d’Eco, simbolo di ciò che fu.

E che ad ogni lettore dopo questo libro appaia il tizio delle domande, non con una ma mille domande su tutto ad indagare

Che il mio ancora è qui

 

Mi viene da dire, Fabio sei coraggioso e intimo, sei spregiudicato e irriverente, sei presuntuoso e sei poetico, e per questo, secondo me, se col tempo eliminerai, anzi plasmerai rendendola propositiva, l’immodestia della giovinezza, potrai essere uno scrittore vero.

 

Per quanto detto, il mio giudizio su Eco a perdere (anche se qui non mi si richiede un giudizio, e soprattutto io lo so che non sono nessuno per emetterne, e infatti non ne spargo mai, però in questo caso voglio farlo proprio esplicitamente, per lealtà con lo scrittore, per quanto vale, e anche se non vale niente), il mio giudizio, dicevo, è un giudizio estremamente positivo. Soprattutto perché Fabio Izzo non si adagia su una letteratura già detta e già scritta, ma nello stesso tempo non si sogna nemmeno di rifiutare la letteratura che hanno fatto i nostri padri e i nostri bisnonni e i nostri avi, e la letteratura che stanno facendo ora  i nostri coetanei. Mi capita, infatti, troppo spesso, di leggere libri di gente che non sa in che tipo di mercato editoriale sta scrivendo, ma che soprattutto crede di poter liquidare tutta la letteratura altissima di coloro che sono venuti prima di noi, definendola in fretta come una massa informe di libri “difficili”, e per certi versi andati e inutili. Secondo me non è affatto vero. Questa, a mio avviso, è la più grande eresia. Nella letteratura, infatti, io credo. E credo che chi fa così ha paura in realtà di misurarsi con i geni letterari che ogni tanto partorisce il mondo. Noi non siamo niente, per la maggior parte delle volte, in confronto ai grandi della letteratura. Noi non saremmo niente, se loro non avessero inventato, scoperto, gli strumenti letterari che oggi diamo per scontati e di cui ci serviamo ogni giorno, come il discorso intimistico, quello psicologico, il realismo, il neorealismo, il naturalismo, il verismo, l’ermetismo e chi più ne ha più ne metta. Io mi inchino, davvero, davanti a chi la letteratura sa farla, e non solo amarla, come l’amo io, più di tutto. Io devo la vita a chi scrive e scrisse, dai tempi dei tempi, i capolavori che abitano ancora oggi l’universo, e che non moriranno mai, io gli devo la mia vita perché sono loro che mi hanno partorito, almeno quanto lo hanno fatto mia madre e mio padre.

E, anche se non posso non essere d’accordo con il grandissimo critico e letterato Giacomo Debenedetti, quando scrive che tutti gli –ismi sono per lo più inutili, perché servono soltanto a definire un insieme di gente tanto eterogenea che non si può dire sia accomunata da tratti pragmaticamente comuni, ma solo da nozioni lontanamente simili, assimilate l’un l’altra in maniera riduttiva e fortuitamente approssimata, pure, come ancora scrive Debenedetti, gli –ismi ci servono, uin maniera profana, per comunicare velocemente con il prossimo, e per riferirci a una grande quantità di persone contemporaneamente.

Allora, di certo Izzo si alza in piedi e non si fa inserire in alcun –ismo nemmeno alla lontana, e, nello stesso tempo, inizia una ricerca che sarà lunga e forse dolorosa, ma che, a mio avviso, fermo restando il suo tangibile amore appassionato per la letteratura, lo porterà lontanissimo, sempre ammesso che lo scrittore non si stanchi di cercare. Ma io non credo che si stancherà. Il libro stesso, infatti, costellato allo stesso modo di realtà e di sogno, inizia con la morte (Il cantico di De Andrè), ma finisce con un inno alla vita, perché non c’è vita più vera di una domanda insoluta, ma fresca e vitale (qui resa, ancora una volta, con l’impiego dei puntini di sospensione), in questo modo sancendo che la ricerca dell’autore, fortunatamente, non è finita, e che abbiamo molta voglia di continuare a cercare. Così, a mio avviso, è come se il libro finisse con un largo sorriso affascinante, una profonda fiducia nel futuro.

Se c’è infatti una “cosa” che Izzo descrive nel suo libro con enorme precisione è proprio la figura dello scrittore del terzo millennio, costretto tra tradizione e innovazione, come sempre, quando siamo davanti a una svolta, un po’ impegnato e un poco spirito libero e ribelle, un poco nostalgico dei grandi poeti del passato (includendovi, con amore, anche Rino Gaetano e De Andrè), un po’ arrabbiato e grintoso per voler essere il poeta del futuro. Io non credo, allora, che Izzo getti Eco in un cestino, ma che piuttosto rifiuti la ridondanza di certi scrittori di tutti i tempi, che niente vogliono dire se non il suono stesso delle parole che producono (come ho già detto, Eco secondo me non fa questo, ma per Izzo sì, e in quest’analisi è il suo giudizio che conta, anche perché non sono d’accordo con l’esempio, ma sono d’accordissimo con la teoria in generale), che niente vogliono produrre se non un’eco, appunto, di domande. Un’eco a perdere per questo, perché non porta a nulla, mentre invece la scrittura di Izzo porta a tanto, e questo è, secondo il mio modestissimo parere, un ottimo inizio da scrittore.

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