Intervista con Umberto Petrin
16 min read“Everybody Dance – The Music of Chic”
Note introduttive / comunicato stampa da inserire.
Biografia
Umberto Petrin, parallelamente agli studi di Chimica, da ragazzo si dedica allo studio del pianoforte e consegue il diploma al Conservatorio. Contemporaneamente si interessa alla poesia contemporanea, collaborando a riviste letterarie e pubblicando due raccolte. Vince diversi concorsi di poesia e partecipa a numerosi reading. Nel 1984 intraprende l’attività di musicista di jazz con un proprio trio. Viene notato da musicisti e critici e nel 1989 è chiamato nel gruppo di Tiziana Ghiglioni, con la quale collabora fino al 1996. Sia come leader che come ospite di importanti formazioni affronta ogni stile jazzistico fino al free jazz. Intraprende vari progetti di sincretismo tra musica d’improvvisazione ed altre arti, poesia, videoarte, performance, collaborando con alcuni tra i maggiori poeti italiani, come Luigi Pasotelli, Milo de Angelis, Giovanni Fontana, Tomaso Kemeny.
Notevole successo riscuotono gli album: “Breath and Whispers” in duo con Lee Konitz (1994), “Monk’s World” (con l’avallo del poeta Amiri Baraka, Piano Solo 1997) ed “Ellissi” (con ospite Tim Berne, 1999). Nel 1997 è invitato nella prestigiosa formazione italiana Italian Instabile Orchestra, con la quale svolge tournée in tutto il mondo. Resta nell’Instabile fino al 2009. Dal 2001 collabora con la Cineteca Italiana di Milano per la sonorizzazione di importanti film muti restaurati. Nel 2004 costruisce un importante concerto/performance per pianoforte-elettronica e video, Beuys Voice, insieme a Lucrezia De Domizio, storica e seguace del pensiero beuysiano, sull’ultimo prezioso video dell’artista tedesco Joseph Beuys. La performance già ripetuta circa 15 volte in Festival e Musei d’Europa (alla 52ª Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia, all’Anfiteatro Greco di Sparta, in Spagna, all’Auditorium di Girona, alla Kunsthaus di Zurigo, al Teatro di Pisa, Napoli, Grosseto…).
Nel 2011 Beuys Voice diventa anche un libro ed un CD, pubblicato da Mondadori Electa e presentato ufficialmente al Kunsthaus di Zurigo, con il supporto vocale del soprano Susie Helena Georgiadis. Dal 1999 inizia un sodalizio artistico con Stefano Benni, uno tra i più famosi scrittori italiani. Dal 2000 costituisce un duo ed un trio con Gianluigi Trovesi, con il quale ha pubblicato un cd per la prestigiosa etichetta ECM (Vaghissimo ritratto, 2007), pluripremiato dalla critica. Nel 2006 costituisce un duo con il trombettista francese Jean-Luc Cappozzo, col quale realizza un cd (Law Years) per l’etichetta SOUL NOTE (2007). Compie vari tour in Svizzera, Germania, Spagna. Realizza un nuovo impegnativo progetto insieme a Stefano Benni, realizzando ed eseguendo le musiche per The Waste Land di Thomas Stearns Eliot, pubblicata su cd-audiolibro (con Benni come voce recitante).
Nel 2011 pubblica in solo A dawn will come per l’etichetta inglese Leo Records (che ottiene un notevole successo di critica, valutato eccellentemente dalle riviste Jazz Magazine francese, dalla belga Free Jazz e risulta tra i migliori album del 2011 nel sondaggio U.S.A di CultureCatch) e costruisce un nuovo progetto con live electronics. Al Festival Iseo Jazz 2011 è invitato per eseguire un intero programma su brani originali di Cecil Taylor in “Piano Solo”. Nel 2012 si esibisce a “The Stone” di New York. Nel 2014 pubblica in Piano solo un nuovo album, “Traces and Ghosts” (Leo Records-UK) che ottiene pieno successo di critica e viene riconosciuto come “Disco CHOC” dalla rivista francese Jazz Magazine-Jazzman. Successivamente suona in Piano solo al Festival Jazz di Lisbona e nuovamente a New York, allo Spectrum. Inizia una collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e con il CERN, dai quali è invitato più volte ad esibirsi nell’ambito dei Festival della Scienza. Nel 2017 esce l’album “Twelve Colours and Synesthetic Cells” (Thinking of Alexandr Skrjabin) in duo con Gianluigi Trovesi. Nel 2018 è invitato dalla cantante brasiliana Rosàlia De Souza come ospite nel suo nuovo album, “Tempo” (NAU Rec.). Alcuni brani del CD portano la sua firma. Realizza una serie di puntate musicali per la RSI 2 Svizzera insieme al vocalist Boris Savoldelli. Invitato come ospite nell’ensemble L’Arpeggiata di Christina Pluhar, nel 2019 costituisce un nuovo duo con Tino Tracanna (sax) e nel 2020 inizia una collaborazione con il quartetto Lunatics del percussionista Francesco D’Auria, insieme allo stesso Tracanna al sax e a Roberto Cecchetto (chitarra el). Il suo nuovo album “Everybody Dance – The Music of Chic” esce in edicola nel febbraio 2022 come allegato al mensile Musica Jazz ed ottiene un notevole successo. Insieme al pianista sono presenti Danilo Gallo al basso elettrico e Ferdinando Faraò alla batteria, a cui si aggiungono in alcuni brani la voce di Alessia Marcandalli e il synth di Giacomo Jack Zorzi.
Ha inciso oltre 80 dischi e collaborato sia in studio che dal vivo con numerose personalità di spicco del jazz internazionale come Lester Bowie, Cecil Taylor, Tim Berne, Steve Lacy, Paul Lovens, Paul Rutherford, Enrico Rava, Lee Konitz, Barry Altschul, Robbie Robertson, Paolo Fresu, Michael Moore, Willem Breuker, Misha Mengelberg, Han Bennink, Marc Ducret, Yves Robert, Evan Parker, Michel Godard, Assif Tsahar, Lanfranco Malaguti, Antonello Salis, Renato Borghetti, Gianni Coscia, Gianluigi Trovesi, Italian Instabile Orchestra.
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Umberto_Petrin
Intervista
Davide
Buongiorno Umberto. “Everybody dance, the music of Chic” è un omaggio alla musica degli Chic, ma anche a una certa disco music, quella degli ultimi anni settanta e inizio anni ottanta, quando il genere fu al culmine della sua popolarità, influenzando anche molti artisti non-disco? Come è nata questa idea di rivisitare, in chiave jazz, il genere disco e perché in particolare, quella degli Chic?
Umberto
Buongiorno Davide. Ho scoperto la musica disco, il soul e il funky mentre nascevano le prime radio private. Ero un ragazzo introverso e quell’ondata di novità, di desiderio di vivere e comunicare mi ha aiutato a uscire dal mio guscio protettivo. Non avevo mai ascoltato una musica simile, io studiavo pianoforte e tutta l’attenzione era rivolta al repertorio “classico”. Ascoltavo anche qualche disco di jazz che avevano i miei genitori, ma quel nuovo genere di musica che arrivava dall’America mi trasmetteva una gioia che gli altri generi non riuscivano a darmi. Scoprivo così varie tipologie di ascolto e piaceri diversi che potevano convivere, uno più cerebrale, l’altro più intellettuale, uno partiva dal profondo e l’altro ti faceva muovere e ti spensierava. Avevo necessità di tutti questi stimoli e non facevo differenza di genere ma di qualità. Descrivo tutto questo in un romanzo che credo possa vedere la luce nel 2024.
Tra i gruppi che maggiormente mi colpirono, oltre agli Earth Wind and Fire o a Kool and the Gang, c’erano proprio gli Chic, per il suono raffinato, diverso dalle altre formazioni. Gli accordi ricordavano il jazz e c’era quel bassista strepitoso che ti faceva ballare e non ti mollava mai. Una sera, avevo 15 o 16 anni, in una disco di provincia ascoltai un brano che si distingueva da tutti; andai alla cabina del dj e gli chiesi che pezzo fosse. Lui mi porse la copertina dell’LP e indicò Everybody Dance. Disse che era appena uscito e il gruppo era quello degli Chic. Mi si stampò nella memoria ed eccomi qui. Conservavo da parecchi anni il desiderio di riprendere a modo mio quelle musiche, ma non capivo come. Alla fine Luca Conti, il direttore di Musica Jazz, insistette a lungo perché realizzassi il progetto. Ora ne sono felice.
Davide
Manca una rivisitazione dei più noti successi degli Chic quali “Le freak” e “Good times”… Come è avvenuta le scelta del repertorio. Cosa doveva esserci di base?
Umberto
Dico subito che Good Times lo suoniamo dal vivo ai concerti, ma è una versione che ho elaborato dopo l’uscita dell’album. Ho evitato volutamente di proporre i brani più noti, quelli che tutti si aspettano, anche perché sono i più rischiosi. Così, ho preferito affrontare Good Times solo dopo aver assestato il suono del trio. E proprio con quel tema iniziamo i nostri concerti, collegandolo a Everybody Dance. In realtà a un certo punto quel tema si trasforma in qualcosa che ricorda una sezione di Nardis (brano di Davis reso celebre dalle magnifiche versioni di Bill Evans), ma questo è un dettaglio che ha poca importanza.
Riguardo invece a Le Freak, il brano più famoso, ho preferito non toccarlo proprio per la sua particolarità. Avevo chiesto a Giacomo Zorzi, il tastierista che partecipa a un paio di tracce, di campionarmi il glissato iniziale delle voci. Volevo usarlo come citazione in qualche brano, ma poi ho deciso di soprassedere, perché quando metti mano a pezzi come quello, rischi di rovinare tutto. Lo inserirò probabilmente nel prossimo album.
Di base, per riprendere la coda della tua domanda, mi interessava chiarire quanto di comune abbiano il jazz e la musica disco-funk. Quando confessavo ad alcuni amici jazzman che mi piaceva la disco music (quella disco music), sorridevano compassionevoli. Io invece partivo dall’idea che tutta la musica black ha un’unica origine, che puoi trovare nelle sue varie diramazioni. In questo album cerco di dimostrarlo; è forse l’album più “jazzistico” della mia produzione, c’è molto blues, e ci sono il free, l’avanguardia e il soul; insomma, il mondo musicale nel quale mi piace vivere.
Davide
Il jazz è stato anche ballabile fin dalle origini con il dixieland degli anni ’10 e a seguire la swing era su fino al groove funk di Herbie Hancock, alla fusion e a una più ampia danza jazz e contemporary. In che modo hai affrontato la traduzione in chiave jazz, anche dal punto di vista ritmico, del repertorio degli Chic, nato “in misura di danza” per essere appunto ballato in discoteca?
Umberto
Questo è l’aspetto che più mi ha creato difficoltà. Volevo mantenere alcune peculiarità dei temi, filtrandole attraverso le mie esperienze in ambito artistico, non esclusivamente jazz. Armonicamente, come dicevo prima, a volte non occorreva cambiare nulla o poco rispetto all’originale, perché i brani di Rodgers ed Edwards presentano già una connotazione jazz. Ma occorreva evitare il rischio di cadere in una tribute band. Per questo motivo ho pensato molto alla formazione, escludendo la presenza della chitarra o suonando il tema in duo (vedi Soup For One con la voce di Alessia Marcandalli) in modo da mantenere la struttura originale “svuotandola” per modificarne il carattere. E proprio grazie a questo stratagemma, in Soup For One ho cercato di evidenziarne il carattere malinconico e di esprimere la nostalgia che provo per un’epoca che penso sia irripetibile, quella in cui noi giovani ci sentivamo eterni, sospesi tra mirror ball, strobo e strepitosi bassisti (penso ad esempio, oltre a Edwards, a Louis Johnson dei Brothers Johnson, dietro i quali aleggiava il genio di Quincy Jones). Poi ho scavato tra le tessiture tematiche per ricavare episodi solistici in modo da ottenere strutture più aperte e malleabili anche dal vivo.
Davide
Vista la tua esperienza anche nel Free Jazz, c’è stato spazio per l’improvvisazione con il gruppo? Ci presenti i musicisti che hanno contribuito a questo lavoro?
Umberto
Non poteva mancare il “Free”, che inserisco ad esempio in Spacer. Dal vivo, in trio, ci sono altri momenti di libera improvvisazione, perché la versione “live” del programma presenta diverse modifiche alle strutture che si ascoltano nell’album. Devo dire che dal vivo la risposta del pubblico è molto calorosa, perché proprio questi momenti di grande sospensione o di energia prorompente riescono a coinvolgere gli spettatori.
I musicisti, dunque. Avevo bisogno di un batterista poliedrico dal forte polso jazzistico. Ferdinando Faraò, mio fraterno amico da almeno trent’anni, con cui ho condiviso il palco in molte situazioni, era una sicurezza. Poi mi interessava un bassista che non fosse inquadrato in un preciso genere, che avesse personalità e uno spirito punk (l’ho già dichiarato in altre interviste: sono sempre stato un fan dei Clash e dei Sex Pistols). Danilo Gallo è perfetto e, nonostante non avessimo mai suonato insieme, accettò subito con entusiasmo la proposta. Poi occorreva la voce e un supporto di tastiera e volevo offrire a due giovani di talento l’opportunità di farsi notare. Ed ecco quindi Alessia Marcandalli e Giacomo Zorzi, incontrati al conservatorio di Milano dove insegno da anni. Alessia ha una notevole conoscenza della musica soul, che pratica assiduamente con una formazione chiamata Soul Circus, e Giacomo, che io chiamo Jack, che è stato mio allievo di pianoforte e di cui conosco bene il talento, il desiderio di ampliare il proprio pensiero e la capacità di cogliere al volo i cambi di registro espressivo.
Con questi elementi bastano due o tre prove e poi tutto accade. In studio abbiamo registrato l’album in poche ore.
Davide
Bernard Edwards non è più tra noi. Nile Rodgers ha invece ascoltato questo tributo?
Umberto
Ricordo la mattina in cui lessi sul Corriere della Sera la notizia della improvvisa morte di Edwards durante un tour in Giappone degli Chic. Ero addolorato, perché il suo basso mi aveva accompagnato in un periodo delicato della mia adolescenza. È stato sostituito molto efficacemente da Jerry Barnes, ma per me gli Chic restano quelli della coppia storica Rodgers-Edwards.
So che la Warner, attraverso i suoi canali interni, ha inviato l’album al manager di Rodgers. Non so se gli sia arrivato. Spero di sì. Credo che possa piacergli, ma potrebbe al limite usarlo come caratteristico sottobicchiere.
Davide
Bowie è stato molte volte riarrangiato da artisti jazz, anche in Italia (tra cui Paolo Fresu, Cinzia Bavelloni, Federica Zammarchi, Max De Aloe ecc.). Nile Rodgers fu fondamentale nell’arrangiamento di “Let’s dance”. Perché hai inserito il brano di Bowie nella lista dei brani di un omaggio agli Chic?
Umberto
Ho inserito Let’s Dance per motivi affettivi. Ho adorato quel pezzo: appena senti l’arpeggio iniziale già ti alzi dalla sedia e inizi a muoverti. Però questo avviene grazie a Nile Rodgers, che ovunque si trovi riesce a caratterizzare un brano. Che sia con i Duran Duran o con i Daft Punk, Rodgers cambia suono e ritmo, inserisce i suoi inconfondibili riff e rende ogni tema irrimediabilmente suo.
Un giorno mi telefonò Carlo Boccadoro, che aveva ascoltato il mio album e ne era entusiasta. Entrambi condividiamo questa ammirazione per Nile Rodgers e fu proprio lui a indicarmi un video in cui Bowie suona Let’s Dance come l’aveva pensata in origine. In quel video si ascolta una canzone molto diversa da quella ricostruita grazie all’intervento di Rodgers, il cui impatto è folgorante.
Davide
Sono presenti anche due tue composizioni, “If you want” e “Lost in a lonely woman”. Come rientrano nel progetto? Sono brani ispirati in qualche modo alla musica di Edwards e Rogers?
Umberto
Certo; in realtà gli originali sono tre, perché oltre ai citati si aggiunge Everybody Trance, che nasce dalla destrutturazione del tema di Rodgers e si chiude con una sequenza accordale che richiama lo spiritual, come a dimostrare (per riprendere ciò che dicevo poco prima) che il percorso parte da lontano e da un unico punto. In Everybody Trance inoltre l’inizio è un’improvvisazione su microstrutture, secondo una concezione più attuale (evito il termine “contemporanea”, perché ormai svuotato di significato).
In If You Want utilizzo le prime cinque note del tema di I Want Your Love, che eseguo in piano solo nella traccia che precede, mentre nella parte centrale applico gli accordi originali del tema degli Chic. Invece Lost In A Lonely Woman cita Lost In Music, ma subito si dirige verso due miei punti di riferimento: John Coltrane (quello di Equinox) e Ornette Coleman (di cui si può cogliere un frammento della magnifica Lonely Woman). Anche dal vivo è uno dei brani più intensi e coinvolgenti e, come nel disco, viene preceduto dal tema originale di Lost In Music.
Davide
La copertina richiama contemporaneamente il dance floor gremito di una discoteca e la strobosfera specchiata o disco mirror ball, divenuta ormai simbolo delle discoteche degli anni ’70?
Umberto
Esattamente. Quando accettai di registrare l’album, non ebbi alcun dubbio riguardo alla copertina. Ci voleva il mio vecchio amico Marco Lodola. Ho sempre avuto copertine di autori importanti, che peraltro conosco personalmente o di cui sono amico, come Piero Guccione, Giovanni Frangi, Paul Kostabi, William Xerra, Mirko Baricchi, Joseph Beuys (l’unico che non ho avuto l’opportunità di incontrare) per citarne alcuni. Chi mi conosce sa che ho una passione sfrenata per l’arte visiva e performativa. Ma, data l’operazione di incrocio tra jazz, pop e concettuale che stavo per completare, nessuno era meglio di Marco. Lo chiamai e fu felice del mio invito, anzi, quasi mi redarguì per non averlo ancora coinvolto. Gli illustrai il progetto e mi inviò subito alcune immagini, ma quando vidi questa capii che era perfetta nell’evocare l’ambiente della disco. Quando invece uscì il singolo, nella riedizione di Niafunken, chiesi a Marco un’altra immagine, che riproduceva la Statua della Libertà di NYC. Questa copertina si può vedere in rete con il singolo Everybody Dance.
Davide
“Spacer” miscela anche echi di “Space is the place” di Sun Ra. Perché questa commistione con un brano di una delle figure più controverse ed eccentriche del jazz moderno, anzi della free music?
Umberto
Ho sempre ammirato Sun Ra, perché sapeva essere contemporaneamente dentro e oltre la tradizione. Lo vidi una volta per caso a Domenica In, invitato da Pippo Baudo, suonare stride e un blues arcaico incantando il pubblico, così come lo vidi come in trance suonare una tastiera elettronica col dorso delle mani. La presenza di un “estremista” come lui serve a ribadire il concetto già espresso, che la musica black ha un’unica origine. È ciò che gli sentii dire quella domenica di tanti anni fa a Domenica In e non l’ho mai dimenticato. Ci vorrebbe ancora un Sun Ra in questo eccesso di accademismo e superflui tecnicismi che spesso appesantiscono la musica jazz, allontanandola dal pubblico più giovane e meno avvezzo a questo genere.
In passato (ma forse ancora oggi per alcuni) noi “gezzisti” abbiamo affibbiato al termine “pop” una accezione negativa. Questo è un errore, una sciocca forma di snobismo. Warhol, che ammiro molto e di cui leggo i preziosi diari, ci dimostra che arte bassa e alta possono coesistere. Credo, da questo punto di vista, che anche Sun Ra sia stato un artista pop: ne possedeva le caratteristiche. Da parte mia, con Everybody Dance desideravo fare il mio piccolo Brillo Box. Non so se ci sia riuscito, ma il disco può essere ascoltato a vari livelli, ha venduto molto, ora viene ripubblicato perché le richieste proseguono, e la fascia d’età dei fruitori si è allargata. Un motivo ci sarà.
Davide
Il cd è uscito una prima volta a febbraio del 2022 come allegato a un numero della rivista Musica Jazz. Ci sono differenze nella sua attuale riedizione con Niafunken? Come è trascorso l’anno tra le due edizioni in termini di accoglienza, critica e live?
Umberto
Rispetto all’edizione di Musica Jazz, quella di Niafunken presenta un’aggiunta finale di un brano in piano solo (che dal vivo suoniamo anche in trio): si tratta di una versione di At Last (I Am Free), brano meno conosciuto degli Chic, ma non per questo meno attraente ed emozionante, già ripreso anche da altri artisti, come il grande Robert Wyatt. Inoltre, come già dicevo, Niafunken aveva fatto uscire in anteprima un singolo, con una diversa copertina (sempre di Marco Lodola).
Tra le due edizioni abbiamo fatto alcuni festival in trio e io ho riproposto parte del programma anche in concerti di piano solo, in cui non suono solo brani dell’album ma anche temi a me cari del periodo Motown, raccontando aneddoti vari riguardanti l’arrivo in Italia di questa nuova musica e dei nostri sogni adolescenziali di visitare lo Studio 54 di New York.
Devo dire che non mi aspettavo una risposta simile da parte del pubblico, sempre numeroso e soprattutto variegato. Agli spettatori più vicini al jazz si sono mescolati curiosi, amanti del funky, giovani e persino bambini che alla fine mi chiedevano il “disco degli Chic”. Al festival Naturalmente Piano, dove ho suonato nei giardini del castello di Porciano, addirittura c’era chi ballava su alcuni brani. Questo lo considero già un successo.
La risposta a livello di pubblico mi è giunta anche attraverso Messenger: ho ricevuto i complimenti di cultori del jazz, ma anche di compositori o di semplici ascoltatori e mi piace citare anche il messaggio di un taxista di Roma che ascoltava l’album in auto e riportava anche le impressioni positive dei clienti. Queste sono le recensioni che preferisco. Poi arrivano anche quelle degli addetti ai lavori e mi hanno colpito alcune di “critici” notoriamente rigorosi, i quali descrivevano il disco come (parole di uno di loro) “strepitoso”.
Nonostante questo, a volte è difficile superare l’indifferenza di alcuni organizzatori che magari a voce ti lodano, ma poi non rispondono alle email. È una questione che tra noi musicisti spesso si solleva, ma occorrerebbe un capitolo a parte, oltre a qualche lezione di educazione. L’ipocrisia, lo sappiamo tutti, è uno dei grandi mali della nostra società e tutti rischiamo di caderci.
Davide
Cosa seguirà?
Umberto
Vari progetti, che spero possano proseguire. Intanto il romanzo, al quale ho lavorato molto e intorno al quale comincio a notare qualche interesse.
Poi sto già pensando a un nuovo album, sulla scia di Everybody Dance. Mi piacerebbe coinvolgere un ospite, qualcuno di imprevedibile e apparentemente fuori contesto.
Sul versante più intermediale, ho appena presentato un quartetto che prevede l’intervento di live electronics con una collaborazione con Agon di Milano, nella persona di Massimo Marchi, vero esperto in quell’ambito. Insieme a noi una voce proveniente dalla musica contemporanea (ljuba Bergamelli) e un percussionista (Marco Falcon Medrano). Il progetto si fonda su frammenti da La Terra Desolata di T.S.Eliot intorno ai quali ho costruito linee tematiche che lasciano spazio a un’eterogeneità stilistica che scorre dall’improvvisazione al rap, con manipolazioni sonore. Le prime due esibizioni sono state un successo e vorremmo registrare il progeamma.
Proseguo poi con un progetto molto evocativo su Cesare Pavese, ideato dal fotografo Pino Ninfa, col quale lavoro ormai da anni a queste interazioni tra immagine e suono.
Ho ripreso anche ad esibirmi come poeta-improvvisatore, su invito da parte del Festival di Piacenza. Torno alle mie origini, a ciò che facevo prima di dedicarmi più attivamente al jazz, e ne sono felice. Mi esibisco in duo con la violinista Eloisa Manera, che utilizza anche l’elettronica in modo molto accurato.
Sempre in ambito di musica e poesia, sto riprendendo la collaborazione con uno dei nostri maggiori poeti-performer, Giovanni Fontana, con cui sarò in duo prossimamente a Venezia, dopo una felice performance a Matera in trio con Tino Tracanna al sax.
Cerco insomma di non farmi sopraffare dalla quotidianità e da un mondo che ho qualche difficoltà a riconoscere come luogo in cui vivere serenamente.
Davide
Grazie e à suivre…