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Il Tempo delle Mele

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Il tempo di Christiane

 

Ce ne sono tre.

Dal primo all’ultimo, Il tempo delle mele è un cult della mia vita.

L’ho visto la prima volta che ero così piccola, ma così piccola, che la tredicenne Vic Beretton del film era per me una donna fatta e finita, i suoi genitori due vecchi e la bisnonna qualcosa come un decrepito fantasma che dava i brividi. L’ho rivisto l’ultima volta ieri sera, e poi ho fatto un sogno. Inutile non parlarne, Reality[i] mi rigira ormai da trentasei ore nella testa. Il tempo delle mele è stipato nel cassetto dei ricordi più belli della mia infanzia. La prima volta, l’ho visto con mia sorella Angela che, cinque anni più di me, me lo propinò come un “film per adulti”. Ce lo gustammo al buio, di nascosto da mia madre. È stato uno dei momenti più toccanti fra me e mia sorella. Uno di quegli istanti teneri di cameratismo e crescita.

Poco prima di iniziare la proiezione, Angela mi disse: Lo sai, l’attrice, Sophie Marceau, da un po’ di tempo gira film porno. Non ricordo se lo disse al numero uno, due o tre. Fatto sta che io ne rimasi esterrefatta. Stordita. Schifata. Povero, tenero talento precoce: come Shirley Temple, anche Sophie non aveva saputo gestire il proprio successo, dissipando la propria infanzia da piccola stella in un mucchio di “cose brutte” senza nome. Da quel che ne so, invece, la Marceau ha intrapreso una carriera da vera star. Bella, giovane, talentuosa, si gode ancora oggi un successo senza tempo. Allora, però, non lo sapevo. Allora, tra l’altro, andavo a scuola dalle suore. Ora ho ventisei anni. Inevitabilmente, ieri sera ho rivisto Il tempo delle mele con occhi completamente diversi. Prima di tutto, senza mia sorella. La notte poi ho fatto un sogno. Devo scriverne subito, altrimenti sarà troppo tardi.

Nel mio sogno c’ero io. Avevo i miei quattordici anni. Ero nel pieno della mia epoca ribelle, qualcosa come una ragazzina sfrenata alla ricerca del mondo. Alla conquista della terra. Perennemente occupata nell’espugnazione della morte. E meno male che sono ancora viva, ho detto stamattina appena sveglia al mio cane. Meno male, perché, con tutto quello che ho fatto, potevo minimo beccarmi una malattia che mi fulminava in qualche giorno. E invece sono ancora viva. E invece non sono ancora pazza. E invece ho una vita che per lo più mi piace, e un paio di sogni così forti così belli così grandi, che mi tengono in vita, che mi irrobustiscono le ossa, e per i quali lavoro come una matta tutti i giorni. Sono disposta pure al sacrificio. Ho dei progetti. Ho delle cose da finire. Certe volte il futuro mi spaventa. Voglio diventare una scrittrice. Voglio essere felice. Voglio avere dei figli. E non è poco. Per quello che ho fatto, è quasi tutto.

Allora, riguardando Il tempo delle mele, mi sono un po’ arrabbiata, perché più o meno nello stesso periodo in cui la gioventù europea si godeva questo film, anzi qualche anno prima, Stella, una delle migliori amiche di Christiane F., moriva a tredici anni di overdose, e diventava tremendamente orribilmente famosa per la sua assurda età, più giovane vittima della droga mai registrata dalla polizia sino a quel giorno.

Penso veramente che Il tempo delle mele sia un film importante. Dipinge con tratti veloci ed efficaci la società degli anni Ottanta: genitori divorziati o in procinto di farlo, gravidanze riparatrici, donne in carriera – che bella che è la Brigitte Fossey fumettista emergente! –, uomini incapaci e deboli e indecisi, che amano, tradiscono, riamano, antitesi degli uomini duri e senza lacrime dei film anni Cinquanta-Sessanta, degli horror freudiani di Alfred Hitickock, prigionieri di alti e bassi, persi e soli, nonne allegre e moderne che instaurano ottimi rapporti con generi e nipoti, e poi non sanno tenersi un uomo per più di qualche ora (celebre è la battuta di Claude Brasseur, nel film padre di Vic, che rimprovera in questo modo Poupette, bisnonna rampante, verso la quale nutre però un rispetto e un affetto immensi), che giocano a bacarà al casinò e perdono fior di quattrini – ma quanto sono ricche! – e intanto suonano da dio l’arpa e i grandi classici della musica da orchestra. Stuoli, stormi di ragazzini che pensano solo ai vestiti e al primo bacio e al primo sesso, crisi adolescenziali urlate in faccia a genitori che non capiscono, e che cercano di stare dietro ai propri figli, mentre cercano di stare dietro anche a se stessi. La carriera, la chimera di Venezia, i ristorantini italiani a Parigi, il giovanissimo Mattieu che sembra il ragazzo più bello del mondo, subito soppiantato dal primo venuto che bussa alla porta della festa di compleanno della protagonista, stelline-applique per nascondere i segni della varicella, poco più che neonate che trovano molto sexy dentisti quarantenni anche un po’ ingrassati, genitori che si baciano in macchina per non sentirsi vecchi, fujitine in Africa per raggiungere il principe azzurro della vita finite il mattino dopo in camere d’albergo e colazioni luculliane.

E intanto Cristiane F. si spara le sue pere in allegria e fa le sue allegre marchette al Bahnhof Zoo e cerca con disperata gioia di crescere e di guarire dalla sua dipendenza e vive la propria felicissima infanzia nei casermoni neri di Gropiusstadt, dove non si può neanche giocare con i propri cani.

Io non voglio fare la moralista.

Io ci tengo che il mio passato non mi indurisca.

Io sto attenta che le mie ferite non diventino calli.

Non mi piacciono quelli che si mettono a dire c’è poca profondità di qua ci sono i bambini poveri di là. Però mi salta all’occhio che Il Tempo delle Mele è sì il ritratto abbastanza ben delineato di un tempo e di una società precisa, un ritratto dipinto per il grande pubblico, un film del suo tempo che come tale va guardato, perché ci insegna com’era un determinato passato, che tra qualche anno sarà addirittura molto lontano, ma è, a mio avviso, il ritratto di un solo tipo di società e di un unico mondo, la società altoborghese che può permettersi di impegnarsi nella propria carriera, nella messa a punto del proprio studio dentistico, nella ricerca della felicità. Una società che può permettersi di considerare la scelta dei vestiti e dei fidanzati il più grande problema di un’adolescente alla scoperta della vita.

Uno dei momenti più dolorosi di questo film – mi pare il due – è la scena in cui la sorellina di Penelope si fa coraggio e, per vincere un provino di danza classica, nonostante la sofferenza fisica si mette una bistecca cruda sull’arto dolorante ed entra in scena, più brava e potente che mai. Anch’io ho studiato danza classica per un decennio. Poi è venuta la mia adolescenza matta a portarmi via la danza. Come un uomo nero che rapisce i bambini nella notte. Per fortuna che mi ha rubato solo quella.

Ora non vorrei mi si fraintendesse. Io amo la mia adolescenza. Come si dice, non rinnego niente. Me la sono fatta tutta da sola, la mia post-infanzia, combattendo ogni giorno contro la mia famiglia, contro tutti i “grandi” e anche molti miei coetanei, contro l’educazione che avevano scelto per me. Me la sono fatta a suon di risse, fermi penitenziari, recidivi arrembaggi nei regni più proibiti e pericolosi, processi, crisi mistiche e fisiche, bulimie varie, amori enormi, di quelli che mi scoppiavano nel cervello e nel corpo, amicizie profonde come tagli da ricucire con i punti, treni clandestini, vestiti sporchi, puzza, morte. Ora, io non la consiglio a tutti, un’adolescenza così. Se non ne fossi venuta fuori, chissà dove sarei. Non è bello vedere tanti amici dei miei quattordici-quindici anni aver perso la vita, per davvero o per finta, ma comunque averla persa nel senso più brutto, quello di ogni giorno al sert del quartiere e senza neanche il fantasma di un lavoro per le mani. Quello a casa dei genitori per tutta la vita, a guardare la tv a oltranza, a uscire ed entrare dal e nel tunnel della droga, così tante volte che alla fine lo conosci così bene, quel tunnel, che neanche ti fa più paura. Io sono una sopravvissuta. Io lo so ogni giorno che sono una sopravvissuta. Non so grazie a chi, forse anche grazie a me, lo sono. Però è stato bellissimo. Vivere forte, da scoppiare.

Nello stesso modo crudo e potente in cui prima vivevo senza freni, oggi, circa dieci anni dopo la mia adolescenza folle, mi impegno nel perseguimento del futuro. Mi siedo al tavolino. Scrivo. Leggo. Studio. Amo. Non ho perso in forza. Ho solo acquistato in passione e abnegazione ai sogni.

Forse è per questo che Il tempo delle mele ieri mi ha fatto tanto male. Perché hanno spacciato per Gioventù degli anni Ottanta la verde età altoborghese e un pezzettino piccolo di mondo. Perché mentre gli spettatori si divertivano e facevano oh con la boccuccia, fingendo di scandalizzarsi perché Vic faceva il giro dell’isolato coi tacchi alti e vestita da puttana nella seconda puntata del Il tempo delle mele, Christiane F. terminava il suo libro in campagna, speranzosa nella ricostruzione – quella cosa che c’è dopo la tossicodipendenza – e nel futuro, e poi moriva in un cesso qualsiasi in qualsiasi zoo di berlino del mondo, schiattava davvero, e non per finta, e non per film. E io ci penso, penso a Christiane molto spesso, da quando l’ho letta, la prima volta, a tredici anni. Mia madre mi aveva regalato questo libro. Così non ti drogherai mai, mi ha detto mentre me lo dava. Io l’ho mangiato. Di Christiane e me parlerò presto, ma sarà un’altra volta. Mia madre, invece, non ha mai posseduto il briciolo di un istinto materno, per fortuna. O di una qualche predisposizione alla codifica, alla comprensione del linguaggio di sua figlia piccola.

 

Titolo originale: La Boum

Titolo italiano: Il tempo delle mele

Colonna sonora: Richard Sanderson

Regia: Claude Pinoteau

Sceneggiatura: Claude Pinoteau, Daniele Thompson

Anno: 1980-1 (il numero 2 è dell’82, il 3 è dell’88)

Genere: Commedia

Durata: 110 min / USA: 100 min

Paese: Francia

Lingua originale: Francese

 

Interpreti e personaggi:

Claude Brasseur – François Beretton

Brigitte Fossey – Françoise Beretton

Sophie Marceau – Vic Beretton

Denise Grey – Poupette

Jean-Michel Dupuis – Étienne

Dominique Lavanant – Vanessa

Bernard Giraudeau – Éric Thompson

Jacques Ardouin – padre di Raoul

Evelyne Bellego – Éliane

Richard Bohringer – Guibert

Bernard Born

Jean-Claude Bouillaud – padre Boum 2

Micheline Bourday – gionalista ‘VSD’

Florence Brunold – donna incinta

Jean-Pierre Castaldi – Brassac

Alexandre Sterling

 

Anche conosciuto come:

Ready for Love (UK))

The Party (USA)

Country: France

Language: French

 



[i] La colonna sonora del film, firmata da Richard Sanderson, che diventò – e rimane – un tormentone.

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