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Apriamo gli armadi, siamo Inglesi

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Apriamo gli armadi, siamo Inglesi

Come “Mojo” (“Soho”), di cui ho parlato qualche numero fa, anche
“Metroland” affonda le mani nell’immediato passato per dare una chiave di lettura del presente. La mediocre sezione “British Reinassance” che ospita questo film del regista TV inglese Philip Saville si tiene a galla solo per l’ottimo “TwentyFourSeven” perchè (e state attenti a quello che leggete sui giornali dove scrivono i critici prezzolati…)
né Antonia Bird con “Face” né la montagna-che-partorisce-il-topolino
“Wilde” possono far niente per farmi credere in un vero “Rinascimento
Britannico”.
Farò un passo indietro perché mentre sto scrivendo sto ripensando a
“Metroland” e non è così male come linizio del brano vi voleva far credere. Mediocre. Sì, mediocre è la parola più adatta per descrivere un film dalle buone intenzioni ma dai risultati appena sufficienti.
Chris e Toni sono due giovanotti amici fin dall’infanzia che, intrappolati nella periferia londinese, disprezzano la borghesia britannica e sognano il fumo dei jazz club di Parigi. Prima degli anni
’70 scappano; Chris a Parigi e Toni chissà dove.
Si ritroveranno poi alle soglie degli anni ’80 dopo che Chris ha conosciuto l’arte, poi la disinibizione sessuale di una francese, poi ancora l’inglese Marion con la quale ritornerà a Metroland. Toni ritorna ed in lui niente sembra essere cambiato: “libero”, ribelle, contro la borghesia e l’omologazione. Chris è invece sposato, ha una macchina e una figlia, deve pagare il mutuo e la sua arte della fotografia è sopita al servizio di un padrone.
La ricongiunzione sembra fatale per Chris che prova a riaccendere la fiammella di dieci anni prima. Un concerto punk, una bella sbronza, un adulterio non consumato fanno sbandare il nuovo Chris ed il suo rapporto con la moglie e gli scatenati anni ’70. Chris inizia a dubitare delle sue scelte e sua moglie oscilla tra la disapprovazione e il fascino per qualcosa che, forse, lei non ha vissuto in prima persona. “Tu sei diventato come i genitori che odiavi” dice Toni a
Chris, “Lui è geloso di te e della tua vita” dice Marion a Chris. “Si diventa quello contro cui si lotta” è il detto che ha ispirato Pavill che ha trovato nell’omonimo romanzo di Julian Barnes la terra fertile per coltivare il suo progetto.
La Londra in ebollizione e l’affascinante Parigi dell’epoca fanno da scenario a tre interpretazioni oneste, tra le quali spicca il nome di
Emily Watson, la “toccata” Beth di “Le onde del destino”, che con
“Metroland” si scrolla un po’ di dosso un personaggio che potrebbe darle fastidio in futuro. Gli altri protagonisti sono Christian Bale nei panni di Chris e Lee Ross (un gemello astrale di Vincent Gallo?) in quelli di Toni.
Il film è godibile, ritmato e colorato e l’intermezzo parigino, pur con qualche vitabile ovvietà, è intercalato senza scossoni ma
“Metroland” lascia un po’ il tempo che trova e, una volta usciti dalla sala, il pensiero scorre il programma della Mostra per il prossimo film piuttosto che le scene appena viste. Sembra che gli inglesi ci tengano a mostrarci-si un retro culturale e sociale che già ben conosciamo, in quanto maggiori fruitori con debito ritardo di tutto ciò che è “british”. Forse, e anche questo mi è venuto in mente proprio ora, il giudizio su “Metroland” soffre dell’inserimento in una sezione che prometteva molto ma che ha deluso un po’ tutti. Se la musica inglese, la moda inglese, la società inglese continua a dettar legge forse non è ancora così per il cinema, almeno traendone le conclusioni da questa selezione. Oscar Wilde è il primo uomo moderno?
Il teatro di Harold Pinter è ancora rappresentato con successo? L’800 inglese è stato unico ed irripetibile? Forse è tutto vero, ma forse lo sappiamo già. La strada del cinema britannico riaperta dal folgorante
“Trainspotting” è stata male interpretata sia dai film generazionali clonati dall’originale sia da altri registi pur con altre intenzioni.
In questa sezione c’era anche “Regeneration” che non ho visto con rammarico anche se, viste le premesse…

Michele Benatti

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