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Intervista con Teo Ho

10 min read
Teo Ho – I Gatti Di Lenin – dall’8 dicembre 2017 – l’esordio del cantautore friuliano in CD & Digitale da New Model Label
Teo Ho, nome d’arte di Matteo Bosco, un “osservatore friulano” come ha scelto di definirsi. “Ho sempre scritto tutto quello che non era abbastanza forte da poter essere ricordato, o che lo era troppo“. Così riassume in breve la sua poetica, nata tra il Friuli e a Milano. Cantautore, potremmo definirlo noi, di quelli meno allineati e meno o formali, che propone per anni canzoni nate suonando in strada, senza nemmeno pensare lontanamente ad entrare in studio, e durante i live, le canzoni si sono lentamente sviluppate acquistando personalità, colore e vita. “È normale, pensando che nelle mie canzoni nasce sempre prima il testo e questo si forma dal contatto con la gente. Riassumendo: tanti live, tanta musica in strada, un solo disco“. I versi costituiscono la parte fondamentale, a volte preponderante, delle sue canzoni e per diversi anni Matteo Bosco ha scritto e pubblicato poesia.
Con questi due strumenti, pensieri e suoni, si possono “disegnare” infinite storie: tutte quelle che una persona osserva o da cui è osservato durante il giorno.
Autori di riferimento ce ne sono, inutile stilare una lista.
Indubbiamente, anche e soprattutto per la poetica, è Francesco De Gregori l’artista a cui mi sento più legato. Per proprietà transitiva Dylan è un riferimento, mio come quello di ogni cantautore.
Sul podio ci sono tre gradini: fatti apposta per “inserirci” un poeta come De Andrè
“.
Il titolo fa presupporre l’esistenza di riferimenti “politici” nel disco ma questi sono ben mascherati, e soltanto in un brano, “Genova, Berretto Di Lana”, diventano espliciti, con riferimento ai fatti del G8, mentre per l’autore è “La Volpe e l’Uva” ad essere il brano più diretto, perché mette in mostra le contraddizioni, anche se in ambito privato e sentimentale, mentre “Mr. Sands” parla del volto di Bobby Sands sui murales di Belfast, anche qui, in maniera poetica, e come un sognatore.
“I Gatti Di Lenin” è stato registrato a Udine da Matteo Dainese (Il Cane, Zeman, Ulan Bator) ed è un disco essenziale, costruito prima di tutto sulle canzoni, con sovraincisioni minime, per volere riprodurre l’approccio live.

Tracklist: 1. Hamlin / 2. Il Gatto Di Lenin / 3. Mr. Sands / 4. Genova, Berretto Di Lana / 5. Incastrati Sui Ponteggi / 6. La Volpe E L’Uva / 7. 1986 / 8. Le Fate Nude / 9. Rimboccare Marciapiedi / 10. 9 Per 

 
Prossimi concerti:
 
17 dicembre 2017 – Osteria Li di Prime – Gonars (UD)
22 dicembre 2017 – Osteria al Molino – Farra d’Isonzo (GO)
26 dicembre 2017 – Birra e basta – Palmanova (UD)
12 gennaio 2018 – Arci Miskappa – Udine
13 gennaio 2018 – Gasthaus Alpino – Aiello del Friuli (UD)
3 Febbraio 2018 – Bar Cooperativa – Nogaredo Di Prato (UD)
24 Febbraio 2018 – Arsenale Jazz House – Cividale (UD)
 
Intervista
 
Davide
Ciao Matteo. Perché un nome d’arte e perché un apparentemente cinese “Teo Ho”?
 
Matteo
Ciao Davide. Domanda d’obbligo. La “storia” di “Teo Ho” è molto semplice, le motivazioni che mi hanno spinto ad adottare un nome d’arte no (non a livello conscio).
Una mattina mi chiama un’amica cantautrice dicendo di avermi trovato una data a Udine (io vivevo a Milano e, fino a quel momento, avevo suonato solo in strada) e mi intima: “dammi il nome d’arte che devo preparare la locandina…subito”.
Preso dal panico e fresco del viaggio in Vietnam, ho “rielaborato per assonanza” l’appellativo con cui viene ricordato Ho Chi Minh, “Zio Ho”, in “Teo Ho”.
Quella di Ho Chi Minh, peraltro, è un’immagine che mi affascina perché coniuga la combattività del rivoluzionario con la pacatezza di chi non può permettersi di trasmettere “ansia” o “dubbi”. Capisci che, da persona ansiosa quale sono, non posso che “invidiarlo”.
Perché adotto un nome d’arte? Forse perché non mi piace parlare di me, neanche un po’. Abbastanza ridicolo visto che tutti sanno che Teo Ho è Matteo Bosco (il viceversa, invece, non è scontato!).
 
Davide
Come e quando nasce la tua passione per la musica, quando hai capito che avresti voluto scrivere canzoni?
 
Matteo
È difficile, per chiunque, stabilire una data di partenza quando si tratta di passioni. Però ti posso dire che il primo ricordo di qualcosa di “diverso”, di una vera e propria scoperta (mentre te ne parlo mi viene in mente Gene Wilder nella celeberrima scena del “Si può fare…”) è legato ad un brano di De Gregori: “Giorno di pioggia” (del 1974). Lo ascoltai a 9, 10 anni, non ci capii assolutamente niente ma mi stregò, tutt’ora è uno dei miei pezzi preferiti.
La figura del cantautore, credo, prima ancora che artisticamente, è indicativa di un approccio alla vita, al processo creativo, al desiderio di cambiare e di parlare del cambiamento.
De Gregori è stato, per quanto mi riguarda, un artista di riferimento: ha compiuto un’operazione sul linguaggio della “canzone” che, fatta eccezione per Dylan a cui lui stesso si ispirò, non ha pari in Italia.
Insomma, è dai cantautori (Dylan, Young, De Gregori, De André, Lolli, Roy Harper e mi fermo qui, anche se percepisco il senso di colpa per qualche omissione importante!) che è nata la passione, la voglia di scrivere canzoni e, soprattutto, di ascoltarle.
Certo, amo il rock, amo il blues, baratterei le ferie da qui al 2043 (anno della mia ipotetica pensione) per dieci minuti di conversazione con Jimmy Page e Buddy Guy, ma non è dei miei gusti che si sta parlando.
Ah sì, Dylan: per me non è una passione, è una religione!
Per rispondere alla tua domanda: una volta che hai ascoltato questi artisti, è naturale dire (dirsi) “lo faccio anch’io” e così cominci a scrivere e non ti fermi più.
 
Davide
Cosa hai fatto prima di questo disco e come vi sei arrivato, per raccontare quale preciso punto della tua storia di uomo e di cantautore?
 
Matteo
L’unica cosa che non ho mai smesso di fare, dai 13 anni ad oggi, è scrivere (la lettura è conditio sine qua non): poesie, racconti, brutte poesie.
Prima del disco e prima ancora di prendere in mano la chitarra, ho “spiato” tutto ciò che vedevo e l’ho descritto. Durante questi anni ho cercato diverse forme di espressione, come se la scrittura mi permettesse di arrivare davanti ad una porta ma non mi desse il coraggio di bussare.
Il “toc-toc” sono state le canzoni che ho iniziato a scrivere, è stato lo scendere in strada e suonare.
Prima del disco ho fatto questo: ho cantato e ho raccontato, mi sono sempre immaginato come i cantastorie di Istanbul, nei romanzi di Pamuk.
In realtà, non ti saprei indicare un punto preciso, una “svolta”, una decisione netta, se ce ne fosse una non sarebbe stato un percorso, e questo avrebbe precluso molte cose.
 
Davide
Cosa sono i “gatti di Lenin”?
 
Matteo
“I gatti di Lenin” sono l’ossimoro con cui abbiamo a che fare ogni giorno, la contraddizione che non è più eccezione, ma regola.
L’idea di utilizzare questo titolo (anche in uno dei brani del disco, ma al singolare!) nasce da un’immagine vista molti anni fa: Lenin che, in tutta la sua austerità di rivoluzionario, tiene in braccio un gatto. Un uomo che si auto impose di non ascoltare Beethoven perché, a suo dire, lo rendeva troppo “buono”, immortalato mentre accarezza un gatto, è un ossimoro vivente!
I miei “gatti di Lenin” sono le persone che si innamorano dopo essere state costrette a dormire su un marciapiede perché, sono le persone che “sorridono da quarant’anni” dopo essersi lasciate morire di fame, sono le “filastrocche sui numeri” per ricordare chi non le può ascoltare.
Però non farmi passare per persona “triste” (sto facendo tutto io!), i “gatti di Lenin” sono anche le risate che la volpe si fa, osservando l’uva troppo “acerba”.
 
Davide
Sono tanti i nomi e i rimandi, tante le storie che rievochi. C”è però un filo in particolare che lega i diversi testi de “I gatti di Lenin”?
 
Matteo
Ce ne sono molti di fili, molte le sensazioni che accomunano i personaggi dei miei testi e che ho provato mentre scrivevo (e mentre canto).
Le persone, sempre, in ogni circostanza. Le persone che non parlano mai, che stanno sempre dietro lo stesso lato della vetrina: quello dove si guarda ma non si tocca, si pensa ma non si parla.
Le esistenze così “potenti” (umanamente) da dover essere ignorate, per non rischiare di mescolarle con le nostre acque tranquille.
Sono storie di persone (e personaggi, quando la faccenda diventa personale!) che hanno viaggiato e hanno “lasciato”: oggetti, case, affetti, sicurezze, paure.
Chi ascolta il disco, ascolta un sacco di gente, i musicisti sono tutti lì, per strada, impegnati a camminare e vivere.
 
Davide
Non puoi viaggiare su una strada senza essere tu stesso la strada. È una frase che si attribuisce a Buddha. Si potrebbe forse anche dire che non puoi suonare in strada senza essere tu stesso la strada. Cos’è stata e cos’è per te la strada?
 
Matteo
Preferisco il presente indicativo: la strada, per me, è “dialogo”. Quando suono nelle vie o in qualche piazza le uniche cose che voglio fare sono raccontare e ascoltare. Dopo ogni brano le reazioni sono diverse e, indubbiamente, molto più spontanee di quelle che puoi avere durante qualsiasi live.
In strada le persone si fermano e se ne vanno, ti sorridono, ti disapprovano, ti parlano.
Io non sono un musicista, né un cantante (non nell’accezione canonica dei termini) e, per quanto sia importante suonare bene e cantare bene, il mio intento e lasciare delle immagini, delle emozioni, delle sorprese. Quando sono seduto sul marciapiede mi pare di poterlo fare molto meglio (bisognerebbe chiederlo ai bambini che ascoltano, loro, nel bene nel male, non mentono mai!).
Non solo, come ti dicevo prima, sono molto ansioso e quando suoni in qualche locale devi sempre preoccuparti di tutto: verrà gente, come si sente, a che ora inizio, che cosa faccio prima.
Per strada sono e faccio il cantautore.
 
Davide
Nel tuo caso, in che modo si diversifica il poeta dall’autore dei testi di canzone?
 
Matteo
Credo ci sia una differenza profonda: per fare poesia, quella vera, è necessario “spogliarsi” completamente, rendersi totalmente vulnerabile. I versi nati da questa “condizione” sono quelli che possiamo chiamare Poesia, questi versi non hanno bisogno di arrangiamenti, sono già musica.
Io racconto e mi racconto ma, giocando con il linguaggio e con le figure retoriche, mi nascondo o, quantomeno, rendo più difficoltosa la strada togliendo le “indicazioni”.
Non mi definirò mai Poeta: per essere poeti bisogna essere, se non bravi, sempre onesti. Qui mi viene in mente un verso bellissimo di De Gregori (da “La testa nel secchio”) “…quante volte ho chiesto scusa senza essermi pentito…”.
 
Davide
L’anno scorso c’è stata troppa polemica italiana intorno al Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Qualcuno da noi ha preso per molto meno e senza diatribe una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione… Torniamo a noi. Qual è il tuo riconoscimento ideale, che insegui? Cosa ti gratifica di più nella tua attività creativa?
 
Matteo
Permettimi poche parole su quanto hai detto a proposito del Nobel a Dylan. Concordo, troppa polemica, strumentale, spesso senza cognizione di causa: senza valutare né conoscere l’Opera di Dylan e il suo impatto, senza interrogarsi su cosa sia la “letteratura” e quali le sue trasformazioni, i suoi risvolti sociali.
Si sono dette tante cose “poco simpatiche” su questo premio e sul cantautore di Duluth, ma come scrisse Dostoevskij “non tutti sono in grado di offendere”.
Torniamo a noi dunque: non inseguo riconoscimenti nel senso “formale” del termine, mi spiego: sono felice se arrivano ma non ho obiettivi in tal senso.
Ciò che inseguo e che, nel contempo, mi gratifica te lo posso dire con estrema chiarezza. Ogni persona che, ascoltata una canzone o tutto il disco, me ne riporta un verso e me ne dà la sua interpretazione. Ogni persona che, scherzando, mi dice “nei preti e nelle pecore c’è troppo da mangiare” oppure “mangi pane e avanguardia operaia”.
 
Davide
Tiocfaidh ár lá, “Il nostro giorno verrà”… Così credette Bobby Sands. Quali sono i giorni che tu  più auspichi vengano per te, per la nostra nazione e per la Terra tutta?
 
Matteo
È una domanda molto impegnativa, parte da una frase che suona come una profezia, nel caso di Bobby lo è stata.
Ho così tanti dubbi che anche le mie proiezioni future, seppur in chiave di “speranza”, sono poco chiare.
Per quanto mi riguarda spero di continuare a fare quello che mi piace e conoscere ancora un mucchio di persone fantastiche, cosa che ha reso splendido questo 2017. Spero che non si spenga mai la mia curiosità.
Per l’Italia, come per tutto il resto del Mondo (mi sento assolutamente a disagio ad auspicare qualcosa per così tanta gente) spero che tutto rallenti. Sai, ogni tanto mi capita di percorrere a piedi  dei tratti che ho sempre fatto in macchina, ti assicuro che i metri e i colori si moltiplicano e quello che non vedevi guidando lo vedi camminando: tutta questione di velocità.
 
Davide
Cosa seguirà?
 
Matteo
Tanta musica, tanti live, tanti progetti in studio e, soprattutto, tanti esperimenti.
Mi muoverò molto, anche fisicamente!
 
Davide
Grazie e à suivre…
 
Matteo
Grazie a te Davide!

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