La parola serve a nascondere il pensiero,
il pensiero a nascondere la verità.
E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia
Ennio Flaiano
La tesi di partenza di questo articolo deve oggettivamente affermare che non esistono disposizioni specifiche sul velo islamico nella legislazione italiana.
D’altra parte si assiste a periodiche dichiarazioni della contraria antitesi per cui una norma esiste e giustifica non solo l’adozione di provvedimenti di natura amministrativa (come ordinanze del Sindaco dirette a “proibire” su tutto il territorio del Comune di competenza l’uso dei vari tipi di velo islamico esistenti), ma anche di provvedimenti giurisdizionali con lo scopo di sanzionare penalmente tale condotta. Quanto al primo caso, l’ultimo esempio, recentissimo, rinvenuto tra le notizie di cronaca nazionale, riguarda il comune di Vigevano (Pavia), dove la maggioranza di centrodestra in consiglio comunale ha approvato una mozione che vieta la copertura del volto con il velo da parte delle donne islamiche su tutto il territorio del Comune
[1]. Quanto alla seconda ipotesi è significativa la posizione dell’autorevole Procuratore della Repubblica Aggiunto di Venezia (la città di origine di Valeria Solesin, vittima italiana degli attentati terroristici di matrice islamica avvenuti a Parigi lo scorso 13 novembre 2015)
[2]: il Dott. Carlo Nordio, magistrato di lunga esperienza e inquirente già sulle
Brigate Rosse e sulla
tangentopoli del nord-est, una settimana dopo la strage di Parigi, ha affermato che “A
Venezia bisogna “
proibire il velo”; si tratterebbe di “una mossa giusta per combattere il terrorismo, le leggi ci sono già ed è arrivato il momento di farle rispettare
[3]”.
L’opinione è significativa proprio perché proviene da un Pubblico Ministero, e fa direttamente riferimento al “vecchio”
art.85 del Testo Unico della Legge di Pubblica Sicurezza (
T.U.L.P.S. Regio Decreto 18/6/1931 n. 773
[4]), che stabilisce:
“E’ vietato comparire mascherato in luogo pubblico.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da euro 10 a euro 103.
E’ vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale di pubblica sicurezza con apposito manifesto.
Il contravventore e chi, invitato, non si toglie la maschera, è punito con la sanzione amministrativa da euro 10 a euro 103”[5].
Tuttavia, il richiamo a determinate manifestazioni tradizionali (come, ad esempio, il carnevale), risulta abbastanza chiaro e gli univoci riferimenti contenuti nella norma, per opinione diffusa, non la renderebbero applicabile al velo islamico, che non è una “maschera” e che neppure in via analogica (come “caso simile”) può esservi assimilato
[6]; infatti, pur essendo la condotta prevista un “semplice” illecito amministrativo, cioè non più una forma di reato
[7], anche per questo caso opera il
divieto di analogia, affermato, in origine, dall’art.14 delle “Disposizioni sulla legge in generale” preliminari al Codice Civile del 1942, per cui “
le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”, come esplicazione del
principio di tassatività, che preclude al Giudice l’applicazione della sanzione oltre i casi tassativamente regolati dalla legge.
Più recentemente, in pieno periodo di sviluppo di fenomeni di terrorismo interno, il legislatore italiano ha adottato la Legge 22 maggio 1975, n. 152, il cui art.5, dopo modifiche introdotte nel 1977 e nel 2005 (a seguito degli attentati a Londra del 7 e 21 luglio 2005), dispone ora:
E’ vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. E’ in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.
Il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro.
Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza.
[8]”
In questo caso siamo ancora in presenza di un vero e proprio reato, anche se semplice “contravvenzione”, dove la caratteristica determinante del “mezzo” impiegato deve, secondo il legislatore, essere appunto quella di “
rendere difficoltoso il riconoscimento”; con riguardo a quello che genericamente viene definito “velo islamico” quindi, occorre necessariamente distinguere tra i vari tipi di capi di abbigliamento, e al loro diverso effetto sulla riconoscibilità dell’individuo. Infatti, esistono diversi
tipi di velo in uso tra le donne musulmane, ciascuno dei quali strettamente legato all’area di appartenenza geografica e alla cultura della donna, anche oltre l’aspetto puramente religioso: viene chiamato genericamente
hijab il normale foulard che copre i capelli e il collo della donna, lasciando scoperto il viso
[9]. Altri tipi di abbigliamento tipico femminile sono utilizzati solo in alcuni Paesi: il
Burqa, per lo più azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, copre interamente il viso e il corpo della donna, ed è in uso, quasi esclusivamente, in Afghanistan, mentre il
Niquab (erroneamente confuso con il burqa), è il velo che copre il volto della donna e che può (nella maggior parte dei casi) lasciare scoperti solo gli occhi
[10]. Il vestiario in uso nei Paesi del Golfo Persico, è l’
Abaya, lungo dalla testa ai piedi, leggero ma coprente, lascia completamente scoperto il volto, mentre il
Chador (tipico dell’Iran), generalmente nero, indica sia un velo sulla testa, sia un mantello su tutto il corpo, escluso il volto
[11].
Sono evidentemente solo il
Burqua e il
Niquab che pongono problemi circa la “identificabilità” di chi li indossa, potendo considerare le altre ipotesi di “velo femminile” usuali nel nostro vivere quotidiano, in alcun modo “illegali” in quanto non relative al viso, e in generale espressione di una cultura o, comunque, di una religione (non è superfluo ricordare che, in alcune zone dell’Italia, le donne anziane indossano ancora il tradizionale velo per non parlare delle suore e monache appartenenti agli ordini e congregazioni della cristianità cattolica)
[12].
Nelle società contemporanee occidentali, invece, l’obbligo per le donne di coprirsi il capo è ormai considerato contrario ai diritti fondamentali, primo fra tutti quello della parità tra uomo e donna, parità che alcune delle religioni più diffuse, e diverse da quella cristiana, non riconosce quando non osteggia apertamente, attribuendo alla donna un ruolo subalterno e di dipendenza e/o sottomissione all’uomo. Prendendo le mosse, infatti, dal riconoscimento del sacrosanto principio di libertà di coscienza, difficilmente si potrà avere la certezza che l’uso del velo sia conseguenza di una decisione volontaria o piuttosto frutto di un’imposizione dettata dai condizionamenti sociali e/o famigliari.
Le pronunce della magistratura italiana hanno fin ora interpretato il citato art.5 della L. 152/1975, tendendo a
valorizzare la libertà religiosa a discapito delle esigenze di prevenzione e di sicurezza pubblica sulle quali, indubbiamente, è stata tracciata la norma
[13].
Il punto di partenza obbligato oggi è costituito dalla decisione n.
3076 della VI sezione del
Consiglio di Stato del 9 giugno del 2008, che ha posto fine al caos determinato dalla serie di ordinanze emesse da vari Sindaci, i quali pretendevano di estendere l’applicazione dell’art.5 al semplice “utilizzo” del
burqa o del
niqab[14]. I supremi Giudici amministrativi hanno, anzitutto, specificato che non è dato rinvenire nell’ordinamento italiano alcuna norma che giustifichi l’estensione del divieto anche all’uso del velo (senza distinzione alcuna fra le diverse tipologie), specificando che il riferimento alla Legge 152 non sarebbe pertinente perché, indipendentemente dalla considerazione come simbolo culturale, religioso o di altra natura, il velo non “
è un mezzo finalizzato ad impedire senza giustificato motivo il riconoscimento”. Ancora “le esigenze di pubblica sicurezza sarebbero soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo, per tali persone, di sottoporsi all’identificazione o alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse, incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione, sulla base di specifiche e settoriali esigenze”. La conclusione del ragionamento del Consiglio di Stato ha portato al sistematico annullamento delle ordinanze dei Sindaci locali per erronea interpretazione dell’art.5 L.152, il quale non può costituire una base legale autorevole per disporre un divieto generalizzato di uso del velo, anche nelle sue versioni più estreme: il motivo religioso e culturale può giustificare la copertura del volto e perciò l’art.5 è inapplicabile nel caso in cui non si sia in presenza di problemi di ordine pubblico. Parallelamente, la magistratura ordinaria ha assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” (art. 530 Codice Procedura Penale), alcune donne che si erano presentate in Tribunale, al fine di assistere ad un processo, con un velo integrale, per il fatto che la collaborazione delle donne era stata massima nella loro identificazione e che quegli eventi non erano minimamente collegati ad attentati terroristici
[15]. Analogo orientamento lo ritroviamo nella
circolare del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno (n. 300C/2000/3656/A/21.159 del 24 luglio 2000) che, limitatamente alle foto identificative da apporre sui
documenti di identità, ha escluso che la citata normativa possa estendersi al velo, considerato parte integrante dell’abbigliamento abituale delle donne di religione islamica, che non può essere vietato alla luce del principio costituzionale della libertà di culto e di religione, salvo che non impedisca di rendere irriconoscibili i tratti del viso.
La sintesi tra l’interpretazione delle norme vigenti da parte della magistratura amministrativa e ordinaria (piuttosto indulgente e garantista), e le esigenze di sicurezza e controllo espresse dalle autorità (in casi sporadici, come visto, anche giudiziarie), amministrative locali e centrali, dimostra come la normativa esistente risulti del tutto inadeguata ad impedire l’abuso di mezzi che impediscono il riconoscimento della persona ed il pericolo che questi vengano utilizzati da soggetti determinati a commettere gravi reati. A opinione di molti, non è peregrina l’ipotesi per la quale qualcuno possa ricorrere proprio al Burqa o al Niqab per nascondere i propri connotati mentre si accinge a compiere un attentato, dato che tali indumenti possono essere facilmente indossati anche da un uomo senza considerare che tra le fila dei terroristi agiscono, in condizione questa volta di “assoluta parità”, anche donne.
L’ovvia conclusione è che non può essere sufficiente a garantire le esigenze di sicurezza e di prevenzione il semplice obbligo di “sottoporsi all’identificazione o alla rimozione del velo”, come ha asserito il Consiglio di Stato: il terrorista nascosto da un Burqa non attenderebbe certo la richiesta di farsi identificare e/o quella di rimuovere il velo
[16]!
L’argomento è oggetto di polemica e, spesso, strumentalizzazione da parte delle forze politiche nazionali in competizione fra loro, tuttavia appare ineludibile la necessità che, per ragioni di sicurezza dei cittadini e di ordine pubblico, vi sia un obbligo specifico, formulato in maniera inequivoca e non derogabile, alla possibilità di riconoscimento immediato (non subordinato all’incombente di “invitare” alla rimozione del velo) di qualunque persona che si trovi in una strada, in un luogo pubblico, sui mezzi di trasporto, ecc., del tutto oggettivo e distinto da ogni valutazione di merito o di valore sugli aspetti religiosi, morali o sociali.
In Italia, il tema dell’abbigliamento religioso e stato affrontato muovendo da punti di vista anche molto lontani (necessità di favorire l’integrazione di immigrati stranieri, rispetto di differenti credenze religiose, necessità di controllo e prevenzione dei fenomeni criminali, ecc.), per cui la normativa, oggi vigente in materia, è stata interpretata in modi diametralmente opposti.
In definitiva, non trovandosi un punto di equilibrio tra idee contrastanti, il legislatore, come per molte altre problematiche nel nostro Paese, ha preferito mantenere lo
status quo ante[17].
Il riso è il sole che scaccia l’inverno dal volto umano
Victor Hugo