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Venezia 2013

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70a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
 
Archiviato il secondo anno del ritorno di Barbera, se ne può finalmente tracciare un consuntivo. Il Concorso Ufficiale è risultato abbastanza modesto. Tra i venti film selezionati, poche sono state le pellicole di un certo interesse e di una certa qualità. Il film quasi unanimemente giudicato il migliore non ha vinto, “Philomena” del regista inglese Stephen Frears, che si è dovuto accontentare solamente di un premio “minore”, il Premio per la migliore Sceneggiatura. Il film, tratto da una storia vera, illustra un tema già rappresentato in passato qui al Festival di Venezia, precisamente nel 2002 con il Leone d’Oro “Magdalene”, del regista scozzese Peter Mullan. Si raccontano le difficili esistenze di quelle ragazze che, nella bigotta società irlandese degli anni 50-60, venivano rinchiuse nelle Case Magdalene, istituti gestiti da suore, di vari ordini, sotto il diretto controllo della Chiesa Cattolica. Si trattava, nella maggioranza dei casi, di giovani rimaste incinte e lasciate dai fidanzati, spesso orfane o abbandonate dalla famiglia per evitare scandali, che ricevevano asilo, insieme ai figli, in questi istituti. Solitamente disprezzate a causa della loro situazione, erano costrette a massacranti turni di lavoro non retribuito, soprattutto nelle famigerate lavanderie. Il duro lavoro, le privazioni e la preghiera dovevano servire per redimersi dai peccati commessi. Inoltre le suore si occupavano direttamente dell’educazione dei loro figli, e a discrezione, spesso incassando offerte in denaro, gestivano adozioni a favore di ricche famiglie, soprattutto americane, separando di fatto madri e figli, senza neppure dare loro la possibilità di averne poi successive notizie. “Philomena” si occupa appunto della storia di una di queste madri, alla ricerca del proprio figlio adottato negli Stati Uniti. Il film, pur non essendo clamoroso, spicca nel concorso per la pochezza delle altre pellicole, a cominciare dai vincitori. Il premio a mio parere più scandaloso è quello al cinese “Jiaoyou (Stray Dogs)” del regista Ming-Liang Tsai, Gran Premio della Giuria. Il film è insopportabilmente lento, camere fisse in sequenze lunghissime di ordinaria quotidianità, nella ruffiana ricerca di una drammatizzazione scenica che coinvolga lo spettatore in una storia famigliare ai margini della società. Il Leone d’Argento per la migliore regia è andato ad Alexandros Avranas per il film greco “Miss Violence”, drammatica storia di violenza familiare che ha vinto anche la Coppa Volpi per il migliore attore. La torbida vicenda rende la pellicola interessante, e le crude scene di follia paterna non la lasciano ad uno sguardo indifferente, ma forse è proprio questa morbosa rappresentazione che la indebolisce. Quest’anno il Festival ci ha mostrato molte pellicole estreme di violenza familiare, rivolta soprattutto verso i figli, un autentico massacro del concetto di famiglia. Oltre a questo film greco, si possono citare, riguardo l’argomento, l’altro film in concorso “Die Frau Des Polizisten” di Philip Gröning, autore da cui ci si aspettava francamente di più, visto il successo del suo precedente film “Il Grande Silenzio”, “Je M'appelle Hmmm…” film francese di Agnès B. (sezione Orizzonti) e l’apoteosi con il film fuori concorso di Ki-Duk Kim “Moebius”, talmente estremo da risultare spesso parodistico. Per quanto riguarda il Leone d’Oro a Gianfranco Rosi con “Sacro Gra”, che ha finalmente esaltato lo spirito patrio di chi voleva da anni un film italiano vincitore al Festival di Venezia, il discorso si fa complesso e si aprono diversi fronti di discussione. Innanzi tutto può un documentario vincere un Festival? Certamente sì, Michael Moore lo ha già fatto, però è proprio qui che nasce l’equivoco, e l’inevitabile distinguo che contraddistingue questo genere. Se consideriamo documentario tutte quelle pellicole che traggono direttamente spunto dalla realtà e non vengono filtrate dalla fiction, si contano molte differenze fra le diverse maniere di porsi. Tornando proprio a Michael Moore, lui parte da un argomento ben preciso di cui ha già bene in mente la tesi finale che vuole dimostrare, e va a ricercare nella realtà (spesso forzandola) le parti che gli servono. Oppure c’è il fantastico approccio di Frederick Wiseman, che si rende invisibile e riprende la quotidianità come viene vissuta, sintetizzando (si fa per dire) le pellicole dall’immensa mole di girato. A tal proposito proprio quest’anno si è potuto ammirare qui a Venezia la sua ultima fatica “At Berkeley”, bellissimo documentario che, analizzando le dinamiche odierne di una storica università come Berkeley in California, ci apre uno specchio sulle problematiche economiche e sociali che affliggono oggi gli Stati Uniti. O ancora c’è un documentario più classico, che si occupa direttamente di un soggetto e fa un’analisi storica dei fatti per capire come si è arrivati a certe situazioni, come l’esempio visto sempre qui a Venezia del film su Lance Armstrong, “The Armstrong Lie”, del regista americano Alex Gibney, partito come film celebrativo, ma poi trasformato, dopo le verità svelate, in una feroce critica verso l’atleta e l’ambiente ciclistico che lo ha salvaguardato. Anche un altro film nel concorso di quest’anno,“The Unknown Known” di Errol Morris, altro esempio di regista documentaristico premiato ai festival, può appartenere alla categoria precedente, pur con un timbro stilistico differente. “Sacro Gra” non appartiene a nessuna di queste categorie, ci consegna storie e personaggi legati fra loro da un semplice elemento fisico, il Grande Raccordo Anulare di Roma. Però non hanno niente in comune, non rappresentano nessuna realtà se non quella di se stessi, la cui collocazione poteva esistere in qualsiasi contesto fisico e sociale. Tutte le città, tutte le realtà collettive hanno i loro “personaggi particolari”, la loro descrizione può divenire una rivincita al ruolo spesso marginale che rivestono, ma non da nessun tipo di chiave di lettura per capire la società in cui siamo immersi. Rimane una simpatica ma sterile rappresentazione della vita di alcune persone che spesso, discutibilmente, si “evolvono” in personaggi, provocando perplessità anche sull’elemento realistico, con un evidente sospetto di forzatura. Per questo, a mio parere, più che per il fatto che sia un documentario, il premio non ci sta per come viene svolto, e per la troppa “facilità” con cui si è utilizzato questo genere che prevede un maggior rigore rispetto ad un’opera di fiction. Da tenere d’occhio, proveniente dal Concorso Ufficiale, è il film “Tom à la Ferme”, del ventiquattrenne canadese Xavier Dolan, ennesima rappresentazione sul grande schermo del difficile rapporto familiare con l’omosessualità. Xavier Dolan, nuovo enfant prodige del cinema mondiale, è già stato premiato a Cannes nel 2009 con il suo primo film “J'ai tué ma mère”, e con questo “Tom à la Ferme” siamo già alla sua quarta pellicola. Fra le delusioni del concorso citerei due mostri sacri della cinematografia mondiale. Terry Gilliam con “The Zero Theorem” è alle prese ancora una volta con una pellicola futurista, però in linea con i livelli medio bassi dei suoi ultimi lavori. Difficile pensare che, in questo momento della sua carriera, possa tornare ai fasti delle sue prime pellicole, anche se da Gilliam, autore atipico, ci si può aspettare di tutto. L’altro è il maestro Hayao Miyazaki, che (annuncio avvenuto proprio dopo la proiezione veneziana) chiude qui la sua carriera, con un film ispirato alla vita di Jiro Horikoshi, figura storica e famoso progettista giapponese degli aerei che utilizzarono i kamikaze nella seconda guerra mondiale. Il soggetto, nonostante le critiche negative per le tematiche militariste, rappresenta in realtà un omaggio al sogno del volo, passione che il regista ha sempre evidenziato nei suoi film. La delusione non riguarda in particolare i suoi ultimi film, forse un po’ inferiori ai suoi primi indiscussi capolavori, ma piuttosto allo Studio Ghibli in generale, che non ha prodotto, anche in lavori recenti di altri autori (fra i quali il figlio), pellicole di particolare spessore. Bisogna prendere atto che lo Studio Ghibli, in passato uno dei più grandi studi dell’animazione mondiale, non è più l’unico punto di riferimento. Negli ultimi anni in Giappone c’è stata una grande evoluzione a livello di studi e autori (Mamoru Oshii, Hideaki Anno, Katsuhiro Ōtomo, il compianto Satoshi Kon, ecc..) che hanno superato per certi aspetti lo Studio Ghibli, più legato ad una sua tradizione di tipo classico. Per certi versi è quello che è successo negli Stato Uniti con le discutibili produzione Disney degli anni 90’, coincise con l’arrivo di studi più innovativi come la Pixar e la DreamWorks. I film più interessanti si sono visti, come è ormai consuetudine degli ultimi anni, nelle altre sezioni festivaliere,  “Orizzonti”, “Settimana della Critica” e “Giornate degli Autori”. Alcuni titoli su tutti: “Gerontophilia” del regista canadese Bruce Labruce, autore di culto underground che mischia cinema d'essai e pornografia gay, in una pellicola a carattere omosessuale, storia di un ragazzo ossessionato sessualmente dagli uomini anziani; “Razredni Sovražnik (Class Enemy)” del regista sloveno Rok Biček, bel film di “genere scolastico”, che analizza in modo lucido e drammatico le dinamiche educative all’interno di un moderno istituto superiore sloveno, film assolutamente di respiro europeo, in cui ci si interroga ancora una volta sul rapporto con le giovani generazioni, premiato come miglior film nella sezione Settimana della Critica; le giovani e divertenti ragazze punk di Lukas Moodysson nel film “Vi Är Bäst! (We Are The Best!)”, autore svedese ormai conosciuto in ambito europeo e per cui nutro una particolare simpatia, che conferma anche in questa pellicola l’ottima capacità di lavorare con i giovani e di proporci storie fresche ed interessanti; “Still Life”, tenero film, assolutamente “english”, sulla morte, dell’atipico regista italiano Uberto Pasolini, vincitore del Premio Orizzonti per la migliore regia, già segnalatosi qui a Venezia nel 2008 con “Machan – La vera storia di una falsa squadra”. Ma in generale un’ottima selezione anche per le altre pellicole. Piacevole sorpresa è stata la presenza italiana. Alcune pellicole si sono fatte apprezzare, o portando una ventata di simpatia, come il film di Matteo Oleotto, “Zoran, il mio Nipote Scemo” con il sempre grande Giuseppe Battiston, in un Festival che di solito è caratterizzato da una discreta serie di racconti drammatici, oppure con storie più calate nel sociale come i film di Daniele Gaglianone, “La Mia Classe” , e Andrea Segre, “La Prima Neve”. Anche il film di Emma Dante in concorso, “Via Castellana Bandiera”, pur soffrendo, soprattutto nel finale, ha dimostrato solidità in diverse parti della storia e soprattutto nelle protagoniste. Deludente invece Gianni Amelio, che con questo “L’intrepido”, non riesce a prescindere da alcuni aspetti di banalità che caratterizzano alcuni suoi ultimi lavori, rendendoli in alcune parti ingenui e poco credibili. Uno dei film più interessanti visti quest’anno è stato un film fuori concorso, “Locke”, del regista inglese Steven Knight. La storia, girata in tempo reale, vede sullo schermo un unico protagonista, l’attore inglese Tom Hardy, alla guida della propria auto nella notte: il telefono, unico contatto con il mondo esterno, registra conversazioni che gli cambieranno la vita.

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