Napoli, Roma, Firenze, Venezia, Bologna, Genova? O forse è Torino la città più cantata d’Italia? Ed è proprio questo il punto di vista che adotterò principalmente: guardare Torino in musica da molte città, regioni e nazioni diverse, ma anche dall’interno, dai torinesi o dai piemontesi stessi. Poco per volta, dacché c’è proprio tanto da dire. Da un paio di anni ho iniziato le mie ricerche e ho già raccolto centinaia di canzoni e di brani musicali dedicati o variamente titolati e ambientati a Torino, in numero cospicuo anche dall’estero, perfino da luoghi remoti come il Mozambico, l’Australia, il Brasile e molto altro.
Questo è l’ottavo articolo.
Dovrei continuare coi Savoia e lo farò, c’è ancora tanto da dire, ma non ora. Sento che ripartendo dall’inno d’Italia, dove eravamo rimasti, prenderò altre direzioni. Eravamo dunque giunti all’inno di Mameli, la cui musica fu da Novaro composta a Torino. Torino ha qualcosa di speciale che ispira i compositori?
Nino Rota, su un pianoforte nella casa in via Silvio Pellico di Gustavo Adolfo Rol (come riferisce Giuditta Dembech), inventò il tema del film “Il padrino” (Parla più piano). Un brano che ha fatto il giro del mondo. O forse questo fu più merito dell’aria di casa Rol, il grande sensitivo torinese che tutti i più grandi e importanti personaggi del Novecento vollero incontrare? John Kennedy, nel suo soggiorno da presidente in Italia del 1963, venne appositamente a Torino per incontrare Gustavo Rol. Chissà? O più semplicemente fu merito del genio di un compositore come Nino Rota e ça suffit!
Čajkovskij nel suo viaggio in Italia a Torino vi capitò nel 1879, anche se quasi per caso, come tappa di un viaggio in treno. La città colpì a fondo Pëtr I. Čajkovskij. Vi sostò e rimase stupefatto dalla qualità dell’accoglienza e dalla struttura viaria uniforme e regolare della (ex) capitale, che egli giudicò “bella e originalissima”, dove “l’originalità consiste in questo, che tutte le vie si aprono come raggi, a mo’ di linee rette dal centro, cioè dalla piazza dove sorgono il palazzo, la cattedrale e i migliori alberghi”.
È la purissima geometria dei 18 chilometri di portici, di cui 13 continui e connessi (ma è Bologna la città più porticata del mondo, con 42 e mezzo chilometri di portici in tutto), ed è la simmetria della “città quadrata dei re vittoriosi, delle grandi torri e delle piazze soleggiate”, a stimolare Giorgio De Chirico, a Torino nel 1912 perché arruolato in fanteria, pronto però a disertare dopo dodici giorni per ritornare a Parigi: “È stata Torino a ispirarmi la serie di quadri che ho dipinto dal 1912 al 1915. Confesso, in verità, che devo molto anche a Federico Nietzsche, di cui ero allora un appassionato lettore. Il suo Ecce Homo, scritto a Torino prima di precipitare nella follia, mi ha aiutato molto a capire la bellezza così particolare di questa città.” (1935, Quelques perspectives sur mon art).
Giorgio De Chirico indica in Torino, e nella lettura dell'Ecce Homo di Nietzsche, una delle fonti originarie della sua pittura metafisica. Città tranquilla e ordinata, adorna di dolci colline, di parchi romantici, di castelli e di palazzi solenni, dove passeggiando «tutto è apparizione». Non è difficile ritrovare gli elementi che ricorrono nei suoi dipinti come i portici, le piazze deserte, le statue, gli edifici, la scenografia delle colline, l’affiorare delle periferie industriali, i lunghi muri in mattoni di caserme e fabbriche, la sfumatura del cielo d'autunno (la vera stagione per Torino, quella grazie a cui appare meglio il suo fascino metafisico)… Quei portici, che «donano alla città l'aria di essere stata costruita per le dissertazioni filosofiche, per il raccoglimento e la meditazione».
Come ricorda Marco Vacchetti in un suo articolo, a cui vi rimando, per esempio: “…le Porte Palatine sono forse all'origine della Torre rossa (1913), davanti a cui fa capolino l'immancabile Caval 'd Brons”.
«Città molto curiosa» scrive ancora De Chirico «che l'estetismo internazionale non ha ancora catalogata tra le meraviglie di the beautiful Italy» e che rimane «la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante non solo d'Italia, ma di tutto il mondo».
Consiglio la puntata di PASSEPARTOUT di Philippe Daverio:
I Dioscuri: De Chirico e Savinio
Articolo di MARCO VACCHETTI – LA REPUBBLICA al seguente link
Per gli appassionati di esoterismo, anche la Mole – che è stato a lungo l’edificio in muratura più alto del mondo – ha i suoi lati oscuri: la sua base piramidale e la guglia altissima sono viste come una sorta di antenna che capta l’energia dalla terra per irradiarla e diffonderla beneficamente sulla città. Nietzsche vide nella Mole l’immagine di Zarathustra: in una sua lettera da Torino dice di averla battezzata Ecce homo. Secondo il biografo Anacleto Verrecchia, il filosofo amava pranzare nei dintorni della Mole per goderne i benefici influssi…
Friedrich Wilhelm Nietzsche è stato, si sa, uno dei più grandi filosofi di ogni tempo, un pensatore che ha influenzato enormemente il Novecento, un antesignano dell'esistenzialismo. Ma vi raccomando, anche a causa di molti concetti sviati, non usate più almeno il termine di “superuomo”: Übermensch era, doveva essere ed è l’Oltreuomo. Nietzsche, dal 5 aprile al 5 giugno 1888 e di nuovo a Torino dal 21 settembre 1888 ai primi del 1889, abitò in via Carlo Alberto 6, in un appartamento ammobiliato al quarto piano di proprietà di Davide e Candida Fino, gestori di una rivendita di giornali. Fu in quella casa che il filosofo scrisse il libro della sua vita, Ecce homo. Nietzsche, a quanto si apprende dai suoi scritti, era letteralmente innamorato dell'atmosfera torinese: "Ma che dignitosa, severa città!", ebbe a dire lo scrittore "Meravigliosa limpidezza, colori d'autunno, uno squisito senso di benessere diffuso su tutte le cose". In una lettera all’amico Peter Gast scrisse: "Torino, amico mio, è una scoperta capitale… sono di buon umore e lavoro dal mattino alla sera… Mangio come un dio, riesco a dormire nonostante il rumore delle carrozze che passano di notte. E l'aria: secca, energizzante, allegra…: il primo luogo in cui sono possibile!". Amò l’eleganza dei portici, gli specchi, gli antichi caffè rococò, la pavimentazione anch’essa squadrata e marmorea delle gallerie e delle strade. Come ricorda la lapide di via Carlo Alberto “In questa casa Nietzsche conobbe la pienezza dello spirito che tenta l'ignoto, la volontà di dominio che suscita l'eroe". Una pienezza che però culminò nel famoso crollo mentale. Già da qualche tempo si avvertiva la crisi mentale di Nietzsche attraverso le lettere ad amici e conoscenti che sono solitamente classificate sotto il nome di biglietti della follia (Lettere da Torino, Adelphi). Il 3 gennaio del 1889, in piazza Carignano Nietzsche vide un cocchiere fustigare e prendere a calci il suo cavallo. "Tu, disumano massacratore di questo destriero!", inveì il filosofo furibondo abbracciando e baciando sconvolto il cavallo, piangendo, cadendo poi a terra in preda a spasmi o, secondo altri, perdendo i sensi. Tornò a casa accompagnato, gridando di essere "Dioniso o Gesù Crocefisso" e "il signore e il tiranno di Torino". Per molti è un episodio leggendario e Nietzsche si sarebbe limitato a fare schiamazzi per cui venne fermato e ammonito dalla polizia municipale. Qualche giorno dopo fu portato via dalla città da un amico per essere curato presso la clinica universitaria di Jena dal professor Binswanger. Si dice che lasciò Torino cantando per Porta Nuova canzoni napoletane, convinto di essere il re d'Italia. Passò gli ultimi 14 mesi in stato catatonico negli ospedali psichiatrici. Qui i medici nulla poterono per influire sul decorso della malattia. Morì a Weimar il 25 agosto del 1900. Qualcuno sostiene che il filosofo era affetto fin dalla gioventù dal disturbo bipolare, frequente nella sua famiglia, il quale sarebbe poi degenerato in schizofrenia. Secondo altri la causa che lo spinse al crollo fu l'enorme sforzo creativo cui si sottopose negli anni precedenti (Così parlo Zarathustra, Al di là del bene e del male), oppure la sifilide. La più accreditata è invece la teoria di Leonard Sax secondo cui Nietzsche aveva un meningioma posizionato sul nervo ottico, che gli aveva provocato le emicranie, lo spostamento del bulbo oculare e la cecità dall'occhio destro, le paralisi e i disturbi mentali.
A Torino Nietsche scrisse Ecce Homo e vi concluse Il crepuscolo degli idoli, tra le sue opere più importanti.
Diversi film raccontano di Nietzsche e, inevitabilmente, di quanto gli accadde a Torino, come “Al di là del bene e del male” (1977, di Liliana Cavani) e “When Nietzsche wept” (2007, di Pinchas Perry, dal romanzo di Irvin Yalom). Alcuni altri si focalizzano solo sul periodo torinese come “I giorni di Nietzsche a Torino” (Dias de Nietzsche em Turin, 2001, del brasiliano Julio Bressane) e un capolavoro del cinema (così a me pare) “Il cavallo di Nietzsche” (2011, dell’ungherese Bela Tarr).
The Turin Horse, di Bela Tarr, con la pregevole musica di Mihály Víg (compositore ungherese e cantante autore già nei gruppi Trabant e Balaton), è liberamente ispirato nel prologo all’episodio di follia di Nietzsche e poi racconta, in un malinconico bianco nero e senza quasi altro sonoro che musica e suoni d’ambiente e natura, la storia del cocchiere, di sua figlia e del cavallo, in un'atmosfera di grande povertà, reclusi nella loro fattoria in una landa desolata. Il regista afferma: “Il film segue questa domanda: cosa accadde al cavallo? Il cocchiere Ohlsdorfer e sua figlia vivono in campagna. Sopravvivono grazie a un duro lavoro. Il loro unico mezzo di sussistenza è il cavallo con il carro. Il padre va a lavorare, la figlia si occupa delle faccende domestiche. È una vita misera e infinitamente monotona. I loro abituali movimenti e i cambi di stagione e di momento del giorno dettano il ritmo e la routine che viene loro crudelmente inflitta. Il film ritrae la mortalità, con quel dolore profondo che noi tutti che siamo condannati a morte, proviamo”.
Salvo Lazzara, già chitarrista dei Germinale, ora Pensiero Nomade, con Davide Guidoni ha dedicato un brano strumentale di grande suggestione dedicato ai giorni di Nietzsche a Torino e intitolato “Lettere da Torino”.
Dandy Warhols
Nietzsche
I want a God who stays dead, not plays dead
I, even I, can play dead
I want a God who stays dead, not plays dead
I, even I, can play dead
I want a God who stays dead, not plays dead
I, even I, can play dead
Articolo: Per le vie di Torino seguendo Zarathustra, Claudio Magris (Il Corriere della Sera)
Quanto Torino sia affascinante, ma in un modo del tutto discreto, è testimoniato anche dall’unico film girato parzialmente a Torino (non è facile accorgersene, ma non per un torinese) da Liliana Cavani sulla vita di uno dei principali maestri religiosi del Buddhismo tibetano, Milarepa.
Liliana Cavani, in una intervista, rispose al riguardo: “Ho scelto Torino per puro caso. Volevo che non fosse una piccola cittadina, né una città monumentale troppo tipicizzata come Roma, Firenze e Venezia, ma avesse l’aspetto di una grande città europea. Torino aveva la dimensione giusta, con un’architettura borghese ed operaia molto particolari”.
A Torino soggiornarono anche Leopold e Wolfgang Amadeus Mozart. In Italia padre e figlio Mozart ebbero plausi e onorificenze quali lo Speron d’Oro conferitogli da Papa Clemente XIV. La permanenza a Torino dei Mozart pare sia stata a lungo ignorata a causa della mancata pubblicazione dell’evento sulla Gazzetta locale, ma è stata possibile ricostruirla da alcune lettere di Leopold custodite nell’Archivio di Stato di Torino. In una lettera, trovata solo nel 1996, Leopold chiese al conte Lascaris di Castellar di intercedere presso Carlo Emanuele III di Savoia al fine di commissionare al giovane figlio un’opera per il Teatro Regio, teatro di corte considerato tra i più importanti d’Europa. I Mozart giunsero a Torino il 14 gennaio 1771, provenienti da Milano dove avevano ottenuto un vero e proprio trionfo al Teatro Ducale con l’opera di Wolfgang “Mitridate re di Ponto” (K87), su libretto del torinese Vittorio Amedeo Cigna Santi. Alloggiarono alla Dogana Nuova in via del Senato, un’antica locanda di inizio Settecento, l’albergo più antico a Torino ancora esistente (Hotel Dogana Vecchia, oggi via Corte D’Appello 4). Non manca una targa a imperituro ricordo posta nel 250esimo anno dalla nascita del più geniale dei compositori. In questo albergo soggiornarono anche Napoleone Bonaparte e Giuseppe Verdi nel suo viaggio a Torino, quando fu chiamato da Cavour affinché si presentasse alle elezioni del 1861 per il primo Parlamento del nuovo Regno d’Italia. Un’altra storia si narra e riguarda una donna francese povera e in fin di vita che nel 1827, respinta dagli ospedali locali, venne assistita da Giuseppe Benedetto Cottolengo, canonico della vicina chiesa del Corpus Domini. L’episodio di assistenza caritatevole data in questa occasione diede al Cottolengo l’ispirazione di fondare la Piccola Casa della Divina Provvidenza…
Ma torniamo ai Mozart. Il 16 gennaio 1771 il quattordicenne Wolfgang assistette col padre alla prima rappresentazione della “sontuosa opera” “Annibale in Torino” di Giovanni Paisiello (su libretto di Jacopo Durandi) già personalmente conosciuto a Napoli l’anno prima.
Torino, Teatro Regio, stagione di carnevale 1770-71: andò in scena Annibale in Torino, un'opera con cui la città, da quarant'anni capitale reale, intendeva celebrare i propri fasti, cominciando dall'episodio con cui essa – o meglio, la sua celtica progenitrice Taurasia – esordì sul palcoscenico della Storia, opponendo resistenza all'assalto di Annibale Barca. Per comporne la musica fu chiamato a Torino il napoletano Giovanni Paisiello; delle scenografie fu incaricato il luganese Innocente Colomba. Il lavoro fu portato sulle scene da una compagnia vocale di prim'ordine, capace di assicurargli un esito lusinghiero, testimoniato dall'entusiasmo che seppe suscitare nei Mozart. Ne parla dettagliatamente il libro con CD-ROM “Annibale in Torino – Una storia spettacolare” di Alberto Rizzuti, EDT 2007). Il libro racconta questa storia, fornendo la trascrizione integrale del libretto e, in allegato, l'edizione moderna della partitura. In chiusura l'autore esplora i rapporti fra la rappresentazione torinese e un concorso di pittura bandito nello stesso anno dall'Accademia di Belle Arti di Parma, avente per tema "Annibale osserva dalle Alpi l'Italia", vinto da un artista oggi dimenticato ma capace di sconfiggere un giovane collega aragonese allora in Italia: Francisco Goya.
L’opera, a lungo dimenticata, è stata rieseguita in concerto a Torino nel 2007 e registrata grazie a Ottavio Dantone e all’Accademia Bizantina (cantanti Makoto Sakurada, Emanuela Galli, Roberta Invernizzi, Sonia Prina, Maria Grazia Schiavo, Romina Basso). Bellissima è tra l’altro l’ouverture, che non ha nulla da invidiare alle musiche del futuro Mozart.
Come scrive Fabio Zeggio, grazie alla presenza del Paisiello a Torino, i Mozart incontrano nei salotti e a teatro alcuni esponenti della nobiltà e della cultura torinese: i conti Lascaris di Castellar, il conte Caron e la consorte principessa di Voghera, forse la marchesa di Barolo e la marchesa di Saluzzo, le famiglie Raiberti e Tomati, monsignor Quirino Gasparini, violoncellista, maestro di cappella del Duomo e compositore (nel 1767 compose egli stesso l’opera “Mitridate re di Ponto”, ma oggi si ricorda soltanto quella composta da Mozart), e ancora Francesco Saverio Giaj, maestro di cappella di corte, Gaetano Pugnani, membro della Cappella Regia e primo violino del Teatro Regio, altri musicisti e alcuni cantanti. Durante la sua permanenza torinese, il giovane compositore copiò per proprio uso l’”Adoramus te Christe” del Gasparini, che fu ritenuto per lungo tempo un lavoro mozartiano a causa dell’inganno della grafia e dell’autografo di Wolfgang. Il 27 gennaio 1771 Wolfgang compie il suo quindicesimo compleanno a Torino, probabilmente festeggiando alla locanda dove alloggiava. Il 31 gennaio 1771 i Mozart lasciano la capitale sabauda, definita “bella” da Leopold nella citata lettera alla moglie, per ritornare a Milano presso il conte Carlo Giuseppe Firmian, plenipotenziario di Maria Teresa d’Austria per la Lombardia e valido protettore dei Mozart durante le loro permanenze in Italia.
Fabio Zeggio, nell’hotel Dogana Vecchia, ha reso possibile l’allestimento della Camera Mozart, della Sala Amadeus con dipinti e testimonianze di questa celeberrime presenze, e di una Mostra permanente che illustra i punti salienti del periodo torinese dei Mozart. Zeggio è anche l’autore, insieme all’illustratore Maurizio Galla, del racconto a fumetti "Mozart a Torino".
A proposito di musica classica a Torino… Sapevate che ancora oggi c’è chi scrive pagine di musica classica (se ha senso chiamarla ancora così) dedicandola a Torino? Una l’avevo già accennata, per chitarra classica, è di Kazuhito Yamashita (Ricordo di Torino, op. 102). Si tratta di un grande chitarrista giapponese, che ha tra l’altro trascritto per chitarra solista pagine come I “Quadri di un’esposizione”, “La Sinfonia del Nuovo Mondo” e “L’uccello di fuoco”.
Stephen Carona, statunitense, ha studiato chitarra classica a Milano, attualmente vive in California e ha scritto una suite per chitarra classica dedicata ad Annibale (Suite for Hannibal the conqueror, 2006). Uno dei brani si intitola “Seige of Torino”. Brani strumentali per sola chitarra acustica intitolati a Torino ve ne sono diversi e di vario genere: c’è “Turin” di Sandro Sabião da São Paulo, Brasile, per esempio; c’è il fingerpicking virtuoso su dodici corde dell’olandese folk guitarist Gert De Meijer (Terneuzen 1953 – Vlissingen, 2006) nel brano “Torino”. Già accennato altrove, per chitarra, c’è il brano del brasiliano “Espresso Torino” di Chiquinho Timoteo.
Torino vanta anche grandi chitarristi internazionali. Maurizio Colonna (Torino, 1959) è stato elogiato come uno dei più grandi chitarristi classici al mondo e del nostro tempo. Per la chitarra di Angelo Gilardino centinaia sono state le nuove composizioni dedicate da autori di tutto il mondo, da lui presentate in prima esecuzione. Dal 1981 si è ritirato dai concerti per dedicarsi alla composizione, all'insegnamento e alla ricerca musicologica. Ha per altro ritrovato il manoscritto originale delle incompiute Variazioni per chitarra di Ottorino Respighi e ha recuperato un vasto corpus di composizioni scritte e mai eseguite per Andrés Segovia da vari autori europei negli anni venti e trenta, che si riteneva fossero andate perdute per sempre. Sì, lo so, Gilardino è di Vercelli, ma non si può non spaziare da Torino al Piemonte. Uno dei più grandi chitarristi di flatpicking è invece il torinese Marcello Capra.
Di Torino è anche un marchio storico produttore di chitarre come Ferrarotti.
Eccone la sintetica storia dal sito http://www.ferrarottichitarre.it Luigi Ferrarotti, nato a Robella di Trino (VC) nel 1878, contadino, faceva parte della banda municipale del paese. All’inizio del ’900 si trasferisce a Torino con la moglie e i tre figli trovando lavoro come falegname presso la Società Tranviaria Belga, non dimenticando la passione per la musica che nel frattempo insegnava. Iniziò a costruire chitarre e mandolini e nel 1911 partecipò all’Esposizione Internazionale di Torino e fu premiato per i suoi strumenti. Decise allora di dedicarsi a tempo pieno alla costruzione di strumenti musicali a corda quali mandolini, mandole e chitarre classiche, con un laboratorio prima in corso Casale e poi in corso Vercelli, dove rimase fino al 1954 con la collaborazione del figlio Dionigi.
L’attività si trasferì poi nei più ampi locali di via Thures sull’onda della grande diffusione ottenuta dalla chitarra in quegli anni. Qui inizia la collaborazione dell’attuale titolare Luigi Ferrarotti e tra gli anni 1965 e 1980 l’attività ha un buono sviluppo e parte anche la produzione di contrabbassi e chitarre semiacustiche elettrificate, conservando ed ampliando la fabbricazione di chitarre classiche da concerto e studio. Oggi la Ferrarotti è l’unica azienda rimasta in Italia a produrre chitarre classiche e ad eseguire riparazioni e restauri su qualsiasi tipo di strumento a corda, a causa della massiccia presenza di strumenti provenienti dall’Estremo Oriente. L’attività prosegue con la collaborazione del figlio Roberto negli ormai storici locali di via Thures 10 a Torino per servire un mercato esclusivamente nazionale.
Grande compositore torinese fu Alfredo Casella, ma di lui vorrei parlarne più a lungo in un altro capitolo, magari in occasione del futurismo. Per avviarmi a una conclusione di questa lunga kermesse di personaggi e compositori classici vorrei dirvi una cosa a proposito di Antonio Vivaldi. Voi non ci crederete, ma Vivaldi, ancora all’inizio del Novecento, prima del secondo dopoguerra, era un musicista poco conosciuto al grande pubblico. La cosiddetta Renaissance vivaldiana inizia da Torino e la si deve al fondo Foà-Giordano. La Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino conserva la più importante collezione di partiture autografe di Vivaldi. Tutto iniziò nel 1926, quando il direttore del Collegio Salesiano San Carlo di Borgo San Martino di Casale Monferrato, don Federico Emanuel, mise in vendita gli antichi manoscritti musicali che possedeva la biblioteca del Collegio, quattordici opere di Antonio Vivaldi e alcune opere di Alessandro Stradella. Gli spartiti furono sottoposti al musicologo e direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, Luigi Torri, che affidò il lavoro ad Alberto Gentili, professore di storia della musica dell'università. Non disponendo del bilancio necessario per acquistare i preziosi maoscritti, Gentili riuscì a conincere un ricco agente di cambio, Roberto Foà, ad acquisire la raccolta e di farne dono alla biblioteca in memoria del suo giovane figlio Mauro, morto prematuramente alcuni mesi prima e il cui fondo doveva perpetuarne il nome. Esaminando i manoscritti vivaldiani, Gentili scoprì che questi facevano parte di una raccolta più ampia che si mise a cercare. Le opere cedute dai salesiani erano un lascito del marchese Marcello Durazzo; nel 1930, grazie all'aiuto di alcuni genealogisti, Alberti trovò il proprietario degli altri volumi della collezione iniziale: si trattava di Flavio Ignazio Durazzo, che abitava a Genova. Anche in questo caso la Biblioteca di Torino non disponeva dei fondi per l'acquisto, cosicché Alberto Gentili trovò un altro mecenate, l'industriale Filippo Giordano che accettò di comprare la raccolta e di farne dono alla Biblioteca di Torino in ricordo del figlio Renzo, da poco morto anch’egli prematuramente all'età di 4 anni. La Raccolta Mauro Foà e la Raccolta Renzo Giordano consta di 27 volumi di manoscritti vivaldiani (quasi tutti autografi): 80 cantate, 42 opere sacre, 20 opere, 307 brani strumentali e l'oratorio Juditha triumphas. L’intera collezione era appartenuta al conte Giacomo Durazzo, ambasciatore d'Austria a Venezia dal 1764 al 1784, ed era stata trasmessa per successione nell'illustre famiglia genovese.
La scoperta di numerosi manoscritti di Vivaldi e la loro acquisizione da parte della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino portò a un rinnovato interesse per Vivaldi. La rinascita dei lavori non pubblicati di Vivaldi nel XX secolo si ebbe tra l’altro grazie all'impegno di Alfredo Casella, che nel 1939 organizzò la storica Settimana di Vivaldi.
Occorre dire due parole sullo sfortunato Alessandro Stradella (Nepi, Viterbo, 1639 – Genova 1682), cantante e compositore dell’epoca barocca, e di come capitò a Torino. Talento precoce, a Roma raggiunse a vent’anni fama di compositore di musica sacra e di cantate profane. La regina Cristina di Svezia fu tra i suoi committenti. Tuttavia iniziò fin da giovane a condurre una vita dissoluta, compiendo a volte imprese non proprio oneste, come il furto di denaro da una chiesa. Scoperto, fuggì da Roma e vi ritornò solo quando si credette al sicuro. Le sue numerose e scandalose relazioni amorose gli procurarono tuttavia molti nemici fra i potenti e dovette nuovamente lasciare la citta. Noto divenne l’episodio che lo condusse a tragica morte. Il medico Pierre Bourdelot, suo contemporaneo, l’ha infatti tramandata nelle memorie manoscritte che sono servite da base per la storia della musica scritta da suo nipote Jacques Bonnet-Bourdelot. Nel 1677 Stradella si recò a Venezia, dove un nobile lo ingaggiò come insegnante di musica per la sua amante. Stradella non tardò a infatuarsi della donna, la loro relazione fu scoperta e dovette fuggire per salvarsi dai sicari incaricati di ucciderlo.
Così racconta Bourdelot: Un uomo chiamato Stradella, famoso musicista, ch'era a Venezia ingaggiato dalla repubblica per comporre la musica delle opere, le quali sono considerevolmente importanti durante il carnevale, non affascinava per la sua voce, meno che per le sue composizioni. Un nobile veneziano, chiamato Pig*** aveva un'amante che cantava con molto gusto; volle che questo musicista le desse la perfezione nel canto e lo portò da lei, cosa assai contraria ai costumi gelosi dei veneziani. Dopo qualche mese di lezione, la scolara e il maestro provarono tanta simpatia l'uno per l'altra che decisero di andare insieme a Roma appena ne avessero avuto l'occasione, che non tardò ad arrivare per loro sventura. S'imbarcarono così una bella notte per Roma. Questa fuga gettò nella più nera disperazione il nobile veneziano che risolse, costasse quello che costasse, di vendicarsi con la morte di tutti e due. Mandò quindi a cercare due dei più celebri assassini che ci fossero allora a Venezia e convinse, con una somma di trecento pistole, i due ad andare alla loro ricerca per ucciderli, promettendo che avrebbe rimborsato tutte le spese del viaggio.
Questi, quindi, s'incamminarono per Napoli, dove, arrivati che furono, appresero che Stradella si trovava a Roma con la donna che faceva passare per sua moglie. Ne informarono il nobile veneziano, promettendogli che non avrebbero fallito nel compiere la missione di morte che era stata loro affidata. Giunti a Roma, sapendo che l'indomani Stradella avrebbe dovuto eseguire un'opera spirituale che gli italiani chiamano oratorio, nella chiesa di San Giovanni in Laterano, alle cinque della sera, vi si recarono, certi di non lasciarselo sfuggire, ma l'ovazione che tutto il popolo tributò al musicista, unita all'impressione che la bellezza della musica fece nel cuore degli assassini, cambiò come per miracolo il furore in pietà ed entrambi si convinsero che era male attentare alla vita di un uomo il cui genio per la musica attirava l'ammirazione di tutta Italia e risolsero di salvarlo, invece che ucciderlo. L'attesero all'uscita dalla chiesa e gli fecero, per strada, un complimento per l'oratorio, svelandogli il loro intento e di come, toccati dalla sua musica, avessero mutato parere, e gli consigliarono di partire l'indomani stesso per un luogo sicuro. Loro, intanto, avrebbero mandato dire al signor Pig*** che la loro vittima era partita da Roma la sera prima del loro arrivo, per non essere sospettati di negligenza.
Stradella non se lo fece dire due volte, partì per Torino con la donna, gli assassini tornarono a Venezia e convinsero il nobile che Stradella era partito prima del loro arrivo, dicendo loro di saperlo a Torino, città in cui non è facile commettere un omicidio, come in altre regioni d'Italia, per via della severità della giustizia, ma il nobile pensava ugualmente a come attuare la sua vendetta a Torino e per essere più sicuro ingaggiò il padre della donna che partì da Venezia con altri due assassini per andare a pugnalare sua figlia e Stradella a Torino. Un giorno, verso le sei, Stradella fu attaccato da questi tre che gli diedero un colpo di pugnale al petto ciascuno. Il fatto fu notato da molte persone e produsse una così grande agitazione che furono subito chiuse le porte della città, ma, fortunatamente, Stradella non morì per le ferite riportate.
Non sfuggì però alla vendetta del signor Pig*** che da quel giorno prese a farlo spiare. Un mese dopo la sua guarigione volle per curiosità andare a vedere Genova con la donna che si chiamava Ortensia e che aveva sposato durante la sua convalescenza. Ma il giorno dopo il loro arrivo, furono trucidati entrambi nella loro camera. Così periva il più grande musicista d’Italia”.
A Genova Stradella vi era andato per comporre un'opera e fu dopo uno spettacolo che venne assassinato, forse in piazza Bianchi. La vita movimentata e la tragica morte di Stradella ispirerà varie opere e composizioni: quella romantica in cinque atti di Louis Niedermeyer su libretto di by Emile Deschamps and Emilien Pacini (Stradella, 1837). Friedrich von Flotow fu l’autore dell'Alessandro Stradella (1844), rappresentato in molti teatri del mondo. E poi Alessandro Stradella, dramma lirico in 3 atti di Adolfo Schimon,1846, su libretto di Leopoldo Cemini. Alessandro Stradella, opera in 3 atti di Giuseppe Sinico, 1863, libretto di Andrea Codebò. "Stradella", opera comica in 3 atti (nella versione per canto e 2 pianoforti) di César Franck, rappresentata per la prima volta (postuma) nel 1983.
Almeno un compositore moderno però devo citarlo. Un famosissimo rappresentante del minimalismo musicale, per esempio, come l’inglese Michael Nyman? Per arrivare a lui e a una bellissima pagina dedicata da Nyman a Torino devo però fare, dal punto in cui sono arrivato, un giro un po’ lungo (potrei anche dire della sua marcia epico-funebre “Memorial” composta nel 1985 in memoria della tragedia dell’Heysel… Quella però me la riservo a quando dovrò, perché prima dovrò, affrontare lo sport e quindi il calcio). Allora, dimentichiamo Nyman per un momento.
A Torino oggi si riconosce il titolo di città piacevolmente vivibile e a misura d'uomo con la più ampia zona pedonale d'Europa, la più lunga via pedonale d'Europa (via Garibaldi, 1064 metri); che, prima in Europa, già nel 1730 aveva i marciapiedi rialzati poi livellati nel 1843; metropoli con il maggior numero di metri quadrati di verde per persona e il più grande parco urbano d'Italia, il parco della Pellerina. La città con il maggior numero di monumenti in Italia e il maggior numero di locali pubblici d'Europa. La città di grandi santi sociali (Giuseppe Allamano, Giulia Falletti di Barolo, San Giovanni Bosco, San Giuseppe Cafasso, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, Francesco Faà di Bruno, Piergiorgio Frassati, San Leonardo Murialdo…). Città dunque di santi e beati, altresì grandi educatori, dove da sempre ci si è occupati dei più svantaggiati, diversamente abili, poveri, emarginati, minoranze varie (e qui mi ritorna non a caso l’origine torinese di De Andrè); città da sempre all’avanguardia nel settore socio-assistenziale, socio-sanitario e socio-educativo. Città la prima ad avere un ospedale psichiatrico nel significato moderno (nel 1848 la direzione del Regio manicomio di Collegno chiese l'istituzione di una cattedra universitaria per l'insegnamento della psichiatria, la prima in Italia, che fu affidata nel 1850 al prof. Bonacossa) e tra le prime a smantellare gli ospedali psichiatrici a seguito della Legge Basaglia. Città dove l'8 gennaio 1800 vennero aperti i dispensari di minestre, prime mense d'Italia e tra le prime d'Europa, i primi bagni pubblici grazie a Giulio Bizzozzero, pioniere della medicina preventiva, e i lavatoi pubblici, stabilimenti, dotati di grandi vasche per lavare, di essiccatoi e di stenditoi, nati con lo scopo di allontanare le donne dal corso dei fiumi, ed evitarne la permanenza in ambienti umidi esposti alle intempene. Torino, la prima città in Italia che si occupò di controllare i bordelli: tutti sapevano che c'erano, ma fingevano di non sapere. In Francia, invece, ai tempi di Napoleone III le case funzionavano sotto il controllo di rigide legge statali. Quando l'imperatore francese decise di appoggiare i piemontesi contro gli austriaci, si preoccupò che la sua truppa avesse bordelli a disposizione ed ecco che Camillo Benso conte di Cavour nel 1859 emise un decreto che autorizzava l'apertura di "case" in Piemonte e in Lombardia, direttamente controllate dallo stato. Ancor prima dell'unificazione d'Italia, Camillo Benso trasformò il decreto in legge. Il 15 febbraio 1860 emana il "Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione", che segna la nascita delle "case di tolleranza" così come sono state fino alla loro chiusura. Case di tolleranza, perché tollerate dallo Stato. L'intento (apparantemente non poi così nobile) fu dunque di favorire i soldati francesi chiamati a liberare l’Italia dal giogo dell’Austria, perché non stuprassero strada facendo e tutto il resto, ma divenne anche quello di controllare igienicamente la prostituzione e toglier di mezzo i “lenoni”, i ruffiani. Eppoi, fino alla legge Merlin, la prostituzione e i “bordelli” sono certamente stati anche una forma di controllo sociale e in qualche misura un affare di stato… A Torino però si era pensato già da tempo al soccorso delle prostitute: esisteva un Sifilicomio e Correzionale delle prostitute (detto l’Ergastolo) “a un miglio ad austro di Torino presso la Regia strada di Nizza”, fatto costruire nel 1776. Nell’Ottocento, devianza per eccellenza a parte secondo l’antropologia criminale di Cesare Lombroso, la prostituzione era dunque in qualche modo regolamentata da ordinamenti che hanno preso i nomi dei loro legislatori (Cavour, poi Crispi e Nicotera).
Naturalmente non mancano le canzoni sulle prostitute a Torino, drammatiche, o spassose che siano, ma sempre un po’ amare. E poi, come vedremo, tanto è tranquilla l’immagine che Torino sa trasmettere (e ha saputo trasmettere a tutti i grandi di cui finora abbiamo detto e letto), quanto inaspettata e inquietante, nera e violenta può divenire nei suoi lati oscuri.
La quaia ‘d via Cernaia di Roberto Balocco, nota anche come A côla quaia, da Le canssôn dla piola, è la storia di una "passeggiatrice" di Via Cernaia che in una sera fredda e triste trova finalmente il suo "uomo", illudendosi così di creare un suo "focolare domestico". Innumerevoli canzoni, che hanno sullo sfondo varie parti di città, dalle più popolari come “Le done” di Mauro Mauri e Mario Piovano e “Le lucciole del Valentin’” di Mario Piovano su fino alle africane di “City of Turin” di Michael Nyman e David McAlmont o dell’europa dell’est di “Vesna” di Federico Sirianni e la Molotov Orchestra (Vesna / anima pallida di luce autostradale / gambe di madreperla sotto il trench e lo stivale / dopo la strada, la gabbia, il cubo / la techno in pista / Vesna aspetta mattina tormentando un’ametista… 15 dollars per confonderti all’aurora). E torna in mente la storia di “Vesna va veloce” di Carlo Mazzacurati. Oggi le prostitute straniere a Torino vengono soprattutto dall’Africa e dall’est, la maggior parte trattate come schiave, sfruttate miserabilmente, perfino assassinate. Anche Torino ha i suoi mostri. Il titolo di “Mostro di Torino” in verità lo condividono Maurizio Minghella e Giancarlo Giudice, entrambi efferati serial killer. Le loro vittime sono state le prostitute, uccise una dietro l'altra (su Giancarlo Giudice – il mostro di Torino consiglio la puntata dedicatagli dalla trasmissione La linea d’ombra di Francesco Cirafici e Massimo Picozzi“.
Un tempo italiane, oggi anche albanesi, moldave, nigeriane, liberiane, camerunensi… Prostitute, ma spesso soltanto schiave. A Torino la prostituzione è ormai variopinta e multietnica. Ed è spesso al centro di vicende di cronaca nera. Le prostitute, oltre a subire da sempre violenze anche dai cosiddetti protettori, che dovrebbero in teoria “proteggerle”, sono spesso vittime di violenza di balordi e psicopatici. È in questo contesto di degrado, violenza e prostituzione, che dobbiamo quindi giungere alla canzone “City of Turin”, musica di Michael Nyman, testo di David McAlmont, dall’album “The Glare” del 2009.
È la storia vera di Isoke Aikpitanyi, ragazza ventunenne nigeriana giunta nel 2000 a Torino con l'illusione di un lavoro da commessa in un supermercato, ma ingannata e resa schiava dalle mafie nigeriana e italiana, costretta a prostituirsi sui marciapiedi della città. Sono tante le ragazze africane, soprattutto nigeriane, scomparse o uccise, ma il flusso illegale di arrivi di migliaia di giovanissime, spesso minorenni, continua da oltre vent’anni nel nostro paese. A tutte viene imposto un debito altissimo, fino a 80 mila euro, cui debbono far fronte nel tempo sotto la stretta e violenta sorveglianza della rete delle maman. “La mia lotta contro l’obbligo di prostituirmi è passata attraverso sofferenze e violenze. Quando ne sono finalmente uscita, sono stata quasi uccisa”. Salvatasi da un coma di tre giorni, liberatasi dall’oppressione, Isoke si dedica oggi interamente alle ragazze nigeriane schiavizzate in Italia avviando il Progetto «Le ragazze di Benin City» divenuto un’associazione e una casa di accoglienza. Coautrice del libro La ragazza di Benin City, ha ricevuto numerosi premi per il suo impegno sociale. Oggi vive ad Aosta e ha scritto con Laura Maragnani il libro “500 storie vere sulla tratta delle ragazze africane in Italia” (Casa Editrice Ediesse).
La fonte ispiratrice di “City of Turin” pare sia stata per McAlmont la visione, qualche anno fa, di un servizio dell'emittente araba Al Jazeera, nel quale veniva intervistata proprio la protagonista di questa drammatica vicenda. Quanto a Nyman, che ne ha scritto la musica, a Torino è senz’altro venuto almeno in una occasione, quando gli fu commissionato un brano per la Reggia della Venaria. Gli archi e i fiati minimalisti di Nyman, la sua musica di elevata scrittura, la splendida e dotata voce di McAlmont, l’intensità evocativa immediata del testo, tutto concorre a fare di questo brano un gioiello musicale che tutta la stampa ha elogiato.
Michael Nyman & David McAlmont
City of Turin
I can't go home
I hate it here
The wind gets through
The flimsy things they make me wear
Nobody hear wants to hear
The truth of how it's been
For a girl on the street
In the city of Turin
After dark in Valentino Park
They took away my passport
And left a scar
And my friend died
Because she couldn't lie
Truth is a sin on the street
In the city of Turin
I have to rent the spot on which I stand
They make me pay for this clothing and
I feel abandoned in this foggy land
In this city called Turin
I wave at cars
and get inside
Just to keep warm
I let him treat me like a wife
If I remember just how I have survived
I can take it in, in a car, in a street, in the city of Turin
Days in the desert without water and
Crammed in a truck and dragged overland
We numbered more at the beginning than
Since we reached where the rivers meet
In the city called Turin
Traduzione.
Non posso andare a casa
Odio stare qui
Il vento penetra attraverso
Le minime cose mi fanno indossare
Nessuno vuole sentire
La verità di quanto è accaduto
A una ragazza in strada
Nella città di Torino
Dopo il tramonto nel Parco del Valentino
Mi hanno portato via il passaporto
Lasciandomi una cicatrice
E la mia amica è morta
Perché lei non poteva mentire
La verità è un peccato sulla strada
Nella città di Torino
Mi costringono a pagare
Per il posto in cui mi trovo
Mi fanno pagare per questo abbigliamento e
Mi sento abbandonata in questa terra nebbiosa
In questa città chiamata Torino
Ancheggio ed entro nelle auto
Almeno per starmene al caldo
Lascio che mi trattino come una moglie
Se non mi ricordo come sono sopravvissuta
Posso entraci, in auto, in una strada,
nella città di Torino
Giorni nel deserto senza acqua
Stipati in un camion e poi scaricati
Più numerosi all'inizio
Di quando abbiamo raggiunto
il punto dove i fiumi si incontrano *
Nella città chiamata Torino
*Nota: la Dora Baltea e il Po.
È uno dei tanti racconti di disperazione ambientato in una nebbiosa, inafferrabile e notturna Torino. Quella Torino bella, elegante, appartata e pacata che non crederesti anche così cupa e orrenda, gialla e nera, più o meno misteriosa, violenta, secondo il cuore di tenebra dell’uomo e del mondo, e che, Dario Argento docet, ha ispirato o è servita all’ambientazione di film neri, gialli e horror di varia qualità. Si va dalla Torino nera con Bud Spencer di Carlo Lizzani (1972, musiche di Nicola di Bari, Gianfranco e Gian Piero Reverberi) alla Torino violenta di Carlo Ausino (1977), con le musiche Stelvio Cipriani riprese di recente da DJ Fede (Torino violenta e Torino Violenta 2, feat. Cato). Da Torino centrale del vizio di Bruno Vani (1979) a un capolavoro come La donna della domenica di Luigi Comencini dal romanzo di Fruttero e Lucentini (nella colonna sonora di Ennio Morricone devo sottolineare tre titoli: Torino al mattino, Torino di giorno, Torino di notte). Dai ben sei thriller horror di Dario Argento (Quattro mosche di velluto grigio, Profondo Rosso, Non ho sonno, La Terza Madre, Il gatto a nove code, Ti piace Hitchcock?) a Imago Mortis di Stefano Bessoni, film in parte girato per altro presso l’ex IRV o “Poveri Vecchi” di corso Unione Sovietica… Nel 1600, prima dell'invenzione della fotografia, lo scienziato Girolamo Fumagalli, ossessionato dall'idea della riproduzione di immagini, scoprì che uccidendo una vittima e rimuovendone la retina (dove si diceva venisse impressa l'ultima immagine scorta dalle persone) era possibile imprimerla su stampa. Fumagalli diede a questa tecnica il nome di “Thanatografia”. E qualcuno ha creduto che il Fumagalli fosse esistito davvero! Il tanatoscopio invece esiste, ma è un termometro che serve a rilevare la temperatura corporea del cadavere per stabilire il tempo trascorso dalla morte.
Torino, tra l’altro, che sta scoprendo la sua vocazione turistica, organizza ormai tour di ogni genere. Ho trovato anche un Dario Argento Tour Locations.
Cinema a parte, le storie criminali e misteriose a Torino sono forse anche troppe (naturalmente la città si è anche già meritata una docu-fiction della serie “Città criminali” su LA7). Ne voglio ricordare solo un paio tra quelle più antiche. In via Alfieri, già via San Carlo, c’è palazzo Trucchi di Levaldigi, costruito da Amedeo di Castellamonte. Costruito nel 1673 per il ministro delle Finanze di Carlo Emanuele II, Giovanni Battista Trucchi, fu provvisto di un ricco portale che fece subito incuriosire e chiacchierare i torinesi: fu detto "Portone del Diavolo", considerando stregoneria il fatto che il portone, fatto costruire a Parigi, fosse stato collocato e issato sui cardini in una sola notte. In questo palazzo accaddero fatti misteriosi e inquietanti. Uno riguarda il maggiore francese Melchiorre Du Perril. Avendo ricevuto minacce di morte l’ufficiale girava in carrozza con la scorta. Una sera, tuttavia, il postiglione e la scorta aspettarono invano. Nel palazzo non si trovò più alcuna sua traccia. Una storia racconta che una ventina di anni dopo quella sparizione, alcuni muratori abbattendo un muro rinvennero in una intercapedine lo scheletro di un uomo alto e robusto sepolto in piedi. Il cranio mostrava una frattura provocata da un colpo violento. Da alcuni brandelli di stoffa di uniforme rimasti, si pensò che si trattasse dei resti dell'ufficiale.
In questo palazzo, durante una festa di carnevale del 1788 o del 1790, in una sala predisposta per rievocare l'inferno, fu pugnalata la ballerina Emma Cochet, in arte Vera Hertz. Il colpevole non venne identificato a causa di un nubifragio nel frattempo scatenatosi, sicché molti passanti trovarono riparo nel palazzo confondendo le indagini. Si racconta che gli stessi, mentre il temporale si fece più violento, videro sgomenti passeggiare un fantasma che evanescente li scrutò per poi scomparire attraverso i muri. Scrisse Alberto Fenoglio: “Quasi fosse un segno di riprovazione del cielo per il delitto, si scatenò sulla città, benché non ne fosse la stagione, una tempesta notturna impressionante in cui la pioggia scrosciava violenta, i lampi si susseguivano quasi ininterrottamente e il tuono accompagnava il temporale con un frastuono così forte che tremava tutto il palazzo. Altra esplose quando venne un lampo accecante seguito immediatamente da un rimbombo tremendo, fragori di vetri infranti, un soffio gelido, violento che spazzò il salone e spense tutte le luci, determinando il panico e una precipitosa fuga degli invitati”.
Questa storia di un carnevale passato a festeggiare “diabolicamente” (la stanza dell’inferno allestita a Palazzo Trucchi di Levaldigi ove fu assassinata Vera Hertz) mi rimanda a un altro maledetto carnevale. Fu una tragedia che vissi da vicino, abitando nei pressi e conoscendo alcune di quelle vittime. È un’altra di quelle storie che poi si ammantano di mistero, acquisendo interpretazioni che possono non piacere (come a me), ma di cui occorre prendere atto. È stata per altro rispettosamente sdoganata anche da Corrado Augias e presa con le debite cautele ha in sé qualcosa su cui serve anzichenò riflettere. Poi serve anche vedere “Sale per la capra”, il film sulla tragedia del cinema Statuto di tre giovani film-maker: Fabrizio Dividi, Marta Evangelisti e Vincenzo Greco.
Era il 1983 quando Torino decise di organizzare un carnevale a tema il cui protagonista era il diavolo. Per le vie della città sfilavano carri spettrali e il 13 febbraio divampò un tremendo incendio nel cinema Statuto in via Cibrario. Tutte le uscite di sicurezza erano state chiuse e avvenne una vera strage. Furono poi analizzati curiosi elementi riconducibili all’esoterismo. Le vittime furono 64 distribuite come segue:
31 uomini
31 donne
1 bambino
1 bambina
Qualcuno ha accostato le 64 vittime ai 64 tarocchi, e il 13 è la Morte. Il numero 31 è altresì un 13 se letto al contrario. Il film del regista Francis Veber che veniva proiettato s’intitolava “La capra”, che è uno dei sinonimi attribuiti al diavolo. Infine l’incendio divampò il giorno 13, numero considerato infausto.
Mah…
Sui resti del cinema Statuto in via Cibrario oggi è sorto un moderno palazzo. In una aiuola lì vicina c’è una targa che ricorda la tragedia del 13 febbraio 1983, considerata la più grande e grave a Torino dal dopoguerra.
Via Cibrario è una bella via che inizia dalla piazza Statuto, ha bellissimi palazzi storici, in uno dei quali, al 65, morì Guido Gozzano e una lapide lo ricorda.
Superiamo corso Tassoni. Alessandro Tassoni, poeta, scrittore modenese, accademico della Crusca, ammirò Carlo Emanuele I di Savoia e divenne suo segretario nel 1618 presso l'ambasciata di Roma ed entrò a far parte dell'Accademia degli Umoristi. Dopo aver soggiornato a Torino presso i Savoia tra il 1620 e 1621, si ritirò, amareggiato dalla politica, a vita privata.
Bene… Percorrendo via Cibrario e superando corso Tassoni entriamo in un borgo molto particolare. Un borgo che somiglia quelli di Dozza (Bologna), Orgosolo (Nuoro), Apricale (Imperia) o Maglione (Torino). Delimitato dai corsi Appio Claudio, Tassoni, Svizzera e via Nicola Fabrizi, nel Borgo Vecchio Campidoglio, un quartiere operaio di fine’800, esiste il MAU, Museo d’Arte Urbana, il primo progetto in Italia che ha dato vita a un insediamento artistico permanente all’aperto collocato all’interno di un grande centro metropolitano, con in più il valore aggiunto di essere iniziativa partita non dall’alto ma dalla base, complice il consenso ed il contributo fondamentale degli abitanti. http://www.museoarteurbana.it/ Si ha l’impressione di entrare davvero in un vecchio borgo a sé stante nel cuore della città moderna: vecchie case ancora a misura d’uomo, oggi ristrutturate, quasi tutte a due piani, strade rifatte con la pietra di fiume, molti vecchi laboratori artigianali ancora presenti (si dice che in uno vi abbia lavorato lo scultore Umberto Mastroianni, cugino per altro del Marcello… non sono ancora riuscito a verificarne la veridicità; merita però sapere l’esistenza a Cavoretto della casa-atelier Mastroianni disegnata da Enzo Venturelli). Sui muri delle case compaiono dunque decine e decine di opere pittoriche di giovani pittori e studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Torino, ma anche di pittori ormai famosi, tra i quali Antonio Carena con un suo “Tondo Toni”. In via Nicola Fabrizi c’è una esposizione permanente di quadri lungo la via tra una vetrina e l’altra dei negozi. Alla provincia di Torino appartiene anche il M.A.C.A.M. a Maglione, un piccolo borgo rurale del basso Canavese. Il Museo d’Arte Contemporanea all’Aperto è un museo ambientale nato nel 1985 da un'idea del critico Maurizio Corgnati. Sculture, istallazioni e ancora dipinti e murales che decorano le facciate dei palazzi e le diverse locations del paese. Il progetto è curato da una associazione culturale senza fine di lucro finalizzata allo scopo di diffondere e promuovere l'arte contemporanea. Ad agosto il paese ospita stage sulle tecniche dell'affresco destinati agli studenti delle Accademie italiane di Belle Arti. http://www.macam.org/
À suivre con le vie di Torino…