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Uscire dall’Euro: si può?

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«Pacta sunt servanda»
(brocardo latino)
 
La moneta unica
L’Euro, la moneta unica europea introdotta da Maastricht[1], è normato all’art. 3, comma 4, del Trattato sull’Unione Europea nella sua nuova versione post-Lisbona[2] con una formula semplice e precisa: «L'Unione istituisce un'unione economica e monetaria la cui moneta è l'euro».
Per dare compimento ed attuazione a simile previsione, l’art. 119 del Trattato sul funzionamento dell’UE prevede specificatamente che: «1. Ai fini enunciati all'articolo 3 del trattato sull'Unione europea, l'azione degli Stati membri e dell'Unione comprende, alle condizioni previste dai trattati, l'adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
2. Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione comprende una moneta unica, l'euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l'obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell'Unione conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
3. Queste azioni degli Stati membri e dell'Unione implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile».
Richiamando quindi il noto principio di diritto romano «Pacta sunt servanda»[3], passato da norma di diritto internazionale consuetudinario a norma pattizia del diritto dei trattati dopo il suo inserimento nell’art. 26 della Convenzione sul diritto dei trattati[4], parrebbe lecito concludere che i Paesi membri dell’Unione Europea, che hanno dunque ratificato i trattati istitutivi accettandone in toto le obbligazioni previste, siano vincolati a quanto in essi previsto e debbano sottostarvi.
Ma il quadro non è così lineare.
 
L’uscita dall’Euro
Difatti, un altro brocardo latino ricorda che le clausole di un accordo vincolano le parti «rebus sic stantibus»[5], mentre la crisi che in questi anni sta ipnotizzando la comunità internazionale, e l’Unione Europea, ha stravolto completamente le condizioni che i sistemi locali e regionali avevano instaurato nel passato, obbligando tutti gli attori a ridefinire le concrete modalità per operarvi.
A questo punto, dunque, alla luce delle continue rincorse ad elaborare nuovi strumenti di ingegneria finanziaria che siano in grado di governare i colpi della crisi o di patetici quanto poco credibili ordini volti a regolare le economie, tanto a livello nazionale quanto sovranazionale, viene da prendere in esame quanto disposto sempre dal Trattato sull’Unione Europea al suo art. 50.
Al primo comma, si afferma: «Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione», e di conseguenza sottrarsi agli ulteriori obblighi previsti dai trattati, ivi compresa l’adozione dell’Euro quale moneta comune.
Risulta facile immaginare anche ai non esperti come non sarebbe proprio indolore il procedimento che si aprirebbe nel caso in cui uno dei 27 Stati membri dovesse notificare la propria intenzione di recedere e, in forza di ciò, lo stesso art. 50 prevede il coinvolgimento del Consiglio e del Parlamento per la negoziazione e conclusione di un accordo ad hoc «volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione».
Bisogna inoltre aggiungere che, se con l’articolo di cui sopra si salvaguarda la volontà di ciascuna parte a svincolarsi dall’UE, all’interno dei trattati non si trova alcun cenno alla possibilità di “espellere” uno Stato membro dal consorzio europeo[6].
In conclusione, dunque, ciascun partner può decidere in completa autonomia e responsabilità di recedere dall’Unione mentre l’Unione, attraverso le proprie istituzioni, non può escludere, per nessuna ragione, uno Stato parte.
 
Le conseguenze
Se questo è il quadro normativo vigente, è chiaro quanto siano frutto più di motivi strumentali che operativi i discorsi che ultimamente si intessono tra politici ed economisti europei in merito alla rinuncia di qualche Paese dell’Eurozona alla moneta unica per convenienza piuttosto che all’espulsione di altri considerati “pesi morti”.
Ciascuno potrebbe adottare la decisione che meglio crede, mentre l’UE, allo stato attuale, non avrebbe gli strumenti per imporre l’opting out.
Altro e più complesso discorso è quello che si aprirebbe circa le conseguenze a livello macro e microeconomico per l’eventuale fuoriuscita dal sistema Euro di uno o più Stati membri: per l’economia nazionale, per quella dell’Eurozona e dell’UE nel suo complesso, per i mercati internazionali, per le singole persone tanto nel Paese “fuoriuscito” quanto negli altri che vi permangono.
Di sicuro, l’uscita anche di uno solo degli attuali Paesi dall’Euro decreterebbe la fine della moneta unica giacché dimostrerebbe l’incapacità della costruzione europea, così come si è venuta a consolidare in più di 50 anni di storia, a gestire questo fantastico progetto.
Al contempo, però, richiamerebbe tutti noi cittadini europei alla fondamentale opzione di una più forte ed autentica unità politica per la quale impegnarci: unità che è stata auspicata dai padri fondatori, sognata da molti, ritenuta quasi raggiunta con la nascita dell’Unione e ancor di più con l’Euro, oggi, purtroppo, a rischio a causa di una crisi sistemica che travolge tutto.
La realizzazione dell’Europa unita merita di più! Da tutti noi! Soprattutto ora!
 
«Rebus sic stantibus»
(brocardo latino)
 

[1] Cfr. Monari A., Maastricht, in KultUnderground, n.30, 1997.

[2] Cfr. dello stesso A., In vigore il Trattato di Lisbona: finalmente l’Unione Europea del XXI secolo!, in KultUnderground, n.173, 2009.

[3] Vale a dire “Gli accordi sono da rispettare”.

[4] Vienna, 23 maggio 1969; l’art. 26 è rubricato “pacta sunt servanda” e dispone che: «Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede».

[5] Vale a dire “a parità di condizioni” o “stando così le cose”.

[6] L’art. 7 TUE prevede, però, la possibilità di «sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati» in seguito alla procedura che constati «l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2» dello stesso TUE (dove vengono elencati i valori fondanti dell’UE).

 

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