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Lezione #2: metodo

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Lezione #2: metodo


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    “Le doti vengono presupposte, esse debbono trasformarsi in capacità. E’ questo lo scopo di ogni educazione”. (Johann Wolfgang Goethe: ‘Le affinità elettive’, Garzanti, Milano, ’82 – pag. 42).

    Molte arti presuppongono spazi e materiali idonei; la scrittura è un’arte povera, nel senso che necessita solo di una penna, un foglio e un cervello, naturalmente. Qualcuno, non ricordo chi, ha detto che  gli scultori – per esempio- devono leccare i piedi agli assessori comunali, altrimenti non ricevono incarichi, ma lo scrivere è più facile perché non si ha bisogno di niente: osservi e poi fai quello che vuoi. Basta una matita o una penna a sfera. Ce ne sono da cinquecento lire.

    E’ preferibile riporre, fin dal principio, attenzione alla forma. Una scrittura ordinata, con capoversi rientranti, paragrafi di circa 10 righe, capitoli di circa dieci pagine, per un totale di circa venti  capitoli, per un totale di 150-300 cartelle a spaziatura normale (con 2100 battute circa per cartella), potrà essere di supporto all’ordine interiore.

    C’è anche chi, naturalmente, ritiene che si possano fissare regole più precise al riguardo, che sono:

    – l’opera deve essere dattiloscritta su cartelle formato cm 21 x 29 (extra strong);

    – ogni cartella deve contenere un massimo di 30 righe di 70 battute ognuna, calcolando come battuta anche le virgole, i punti, le parentesi, gli spazi fra due parole, ecc;

    – tutte le cartelle devono essere numerate progressivamente;

    – gli eventuali titoli dei capitoli vanno scritti (in maiuscolo e centrati) su di una nuova cartella, lasciando il resto della pagina precedente in bianco. Eventuali titoli di paragrafi vanno scritti in maiuscoli e allineati a sinistra;

    – i capoversi vanno evidenziati lasciando le prime 4 battute del rigo in bianco; ecc.

   

    Naturalmente, va detto che queste cose sono puramente indicative e che ogni genio si comporta a modo suo. Così come per quanto riguarda le  ore da dedicare alla scrittura, anche se,  tanto, si imparerà presto come essa possa assorbire tutti i nostri pensieri e i nostri giorni e notti. Spesso in solitudine e nell’incomprensione generale. E allora faremo bene a ricordare quanto diceva Nietzsche: “L’intelligenza di una persona si misura dalla quantità di solitudine che riesce a sopportare”. E a ripeterci che la scrittura deve servire innanzitutto a se stessi, per riflettere e trovare la coscienza di sé, come la meditazione nelle filosofie orientali.

    A proposito del fatto che la scrittura dev’essere per prima cosa un piacere in sé, vorrei ricordare cosa mi hanno detto Natalia Aspesi: “Penso che scrivere sia   un grande piacere personale che ripaga di ogni delusione”; e Gianni Riotta: “E’ vero che tutto sembra a tratti duro e inutile. Ma scrivere o leggere è un piacere in sé. Bisogna già godere  di questo fatto: dice un motto zen ‘Il battito di ali di una farfalla arriva al confine dell’universo, il clangore di eserciti armati muore subito’ “.

    Questo in teoria, perché poi, nella realtà, a uno scrittore verrà richiesto non solo di riflettere su quanto sta facendo, ma anche di frequentare salotti, premi letterari, presentazioni dei libri (e qualche volta venderseli da solo); insomma farsi vedere in giro perchè una cosa è scrivere, avere dentro la religiosità, e un’altra far parte della gerarchia letteraria, dove a decidere chi vale e non vale ( e  talvolta per puro opportunismo) sono i vescovi e i cardinali, i critici e gli editori.

                                         

    Altri suggerimenti:

    – “Chi apre un periodo lo chiuda” diceva Flaiano. E’ senz’altro la prima regola;

    – scrivere soprattutto la mattina, e portare sempre con sé un blocchetto per gli appunti, per annotare le idee, che possono giungere a concretizzarsi nei momenti meno opportuni, ma che è bene fissare subito, per evitare scherzi della memoria;

    – controllare sul dizionario i termini di cui non si è sicuri;

    – evitare di seguire mode e  tendenze, ma attingere dal proprio animo;

    – rimuovere il complesso d’inferiorità nei riguardi dei ‘nomi’ più ricorrenti. Seguire l’istinto e non essere intimoriti da ciò che fanno o dicono gli altri, compreso i critici;

    – scrivere su temi congeniali, poiché la passione, per esempio, non la si può apprendere: o c’è o non c’è; 

    – ricordarsi sempre che uno scrittore scrive anche se non ci sono lettori;

    – associare a ogni personaggio un volto noto, verificandone le rispondenze per evitare di descrivere fisionomie perfette ma  irreali;

    – cominciare col copiare il romanzo preferito: se ne assorbirà il ritmo, si imparerà a scrivere le parole correttamente, si adeguerà la punteggiatura (soprattutto la punteggiatura all’interno e all’esterno dele virgolette). Senza vergognarsi:  tutti, dico tutti, hanno copiato da chi li ha preceduti. Molti traduttori, inoltre, sono giunti alla scrittura avendo assimilati i principi degli autori tradotti.  Busi e Tabucchi hanno cominciato da traduttori. Copiare finché non si comincia a pensare di poter far meglio, in quel settore. Ho conosciuto un poeta, Antonio Porta, e mi diceva proprio questo, riguardo a un altro poeta, con umiltà: “Qui, lui ha fatto meglio di me”.

    – ricordare che il lettore si aspetta da uno scrittore una certa trasfigurazione della realtà, di modo che egli possa cogliere, tramite gli occhi del narratore, aspetti che gli erano sfuggiti;

    – prima di passare a una stesura completa dell’opera, esercitarsi a fare descrizioni di personaggi e ambienti, osservando la realtà, la qual cosa è il vero compito dello scrittore.  Scrivere dei brevi ritratti, come fanno i pittori, che, prima di passare alla tela, fanno dei bozzetti su carta, col carboncino. Si tratta di veri e propri ‘studi’;

    – quando si sarà scritto l’ultimo capitolo, bisognerà tornare daccapo per dare uniformità ed evitare le ripetizioni;

    – bilanciare le parti descrittive con i dialoghi, l’immissione di idee con l’umorismo, le cadute di tono con i colpi di scena; il ritmo di un’opera è importante: gli scrittori americani sono  maestri in questo campo perché sono abituati a pensare e scrivere per scene. Essi preferiscono anche le frasi brevi, con una sintassi contratta. Questa maniera di fare, che spesso salta i collegamenti e quindi le sfumature psicologiche, non piace tanto ai critici nostrani, che sono cervellotici, ma sono anche, però, i primi a godersi i film americani;

     – l’aggettivazione è importante; come l’uso degli avverbi;  

     – evitare ripetizioni terminologiche: tutti gli scrittori hanno utilizzato, almeno agli inizi, un dizionario dei sinonimi e dei contrari. Uno scrittore, per esempio, può essere anche un romanziere, narratore, saggista,  critico letterario, cronista, etc., e può scrivere un best seller, un capolavoro, un’ allegoria, una pubblicazione, testo, volume, libro, etc., e un’opera può essere prima, minore, postuma,  d’evasione, dialettale, divulgativa, religiosa, scientifica, scolastica, propagandistica, moraleggiante, inedita (quasi sempre), allegorica, drammatica, burlesca, grottesca, lirica, realistica, seria, satirica, epica, barocca, crepuscolare, decadente, immaginifica, manieristica,  minimalista,  naturalista, postmoderna, romantica. Il ritmo può essere incalzante, monotono oppure lento.

    – la lunghezza del testo non è importante. ‘Il sottotenente Gustl’, di Arthur Schitzler, che è di appena trenta pagine, è un capolavoro, mentre il romanzo più lungo mai scritto, cioè  ‘Gli uomini di buona volontà’ di Jules Romains, composto da 27 volumi, è una semplice curiosità.

    – mentre in un racconto i personaggi sono tre o quattro, in un romanzo bisogna dare fisionomia ad almeno 20 o 30 personaggi;

    – un buon titolo è importante. A proposito di quest’ultimo punto, molte sono state le discussioni in merito.. Ecco le varie posizioni.

 

    Giuseppe Pontiggia: “Trovare il titolo all’inizio del viaggio può essere una bussola, ma rischia di condurre esattamente dove ci si riprometteva di arrivare. E spesso non è una buona navigazione. Il limite di alcune opere è di corrispondere, con fedeltà eccessiva, al loro progetto… Anche rimandare il problema alla fine del viaggio non manca di insidie. Un titolo ideale dovrebbe, secondo me, orientare prima e dopo la lettura: all’inizio delimitando il campo e alla fine ampliandolo, grazie alle acquisizioni del libro stesso”.

 

    Antonio Debenedetti: “Nasce prima il romanzo o prima il suo titolo? Prima l’uovo o la gallina? Non c’è una sola risposta, tale che si possa concludere: “La cosa sta così”. La scelta di un buon titolo, sono tuttavia d’accordo gli autori, è fondamentale: ancor più oggi, fra tanto proliferare di novità, di proposte editoriali. Se non la determina, un buon titolo può sensibilmente aiutare infatti la fortuna editoriale d’un libro. Ma, rimanendo alle domande-curiosità, chi dà il titolo a un’opera? Dio stesso, come si dice accada per il primo verso di una poesia? L’ispirazione di chi scrive? L’esperienza di chi pubblica?”.

 

    Raffaele La Capria: “Il titolo viene fuori via via che il libro si fa. In linea generale, poi, il titolo non dovrebbe costituire una spiegazione di   quanto s’è scritto. Con un salto di fantasia sarebbe giusto individuasse qualcosa di più segreto, che ha dettato un’opera”.

 

    Mario Soldati: “I miei titoli nascono qualche volta prima che mi metta a scrivere e qualche volta dopo, anzi all’ultimo momento quando il libro è già in stampa e non c’è più tempo di pensare”.

 

    Dacia Maraini: “Ho un rapporto molto problematico con i titoli, non riesco mai a trovare quello giusto”.

 

    Mario Luzi: “Per me il titolo di un libro si forma con il crescere del libro, oppure si lascia scoprire in una piega del testo come frase prima inosservata che a un tratto acquista luce e forza di significazione”.

 

    Alberto Bevilacqua: “Il titolo di un romanzo, o di un racconto, nasce attraverso un processo che potrebbe definirsi una sorta  di epifanìa. E’ una manifestazione, appunto,  una rivelazione che lo scrittore intimamente riceve, restandone suggestionato: significa che quella piccola divinità che è sempre una storia, è nata, ha una sua luce, chiede un sigillo. Se lo scrittore procede troppo ‘di testa’, in genere ne esce un brutto titolo”.

 

    Vediamo adesso  cosa   pensano gli  scrittori del metodo di lavoro e dei mezzi più opportuni da adoperare. Serena Vitale pensa che scrivere non sia un mestiere che si possa esercitare ovunque e in ogni momento. E’ un atto del corpo possibile solo quando questo ha metabolizzato anni di lettura, di studio. E continua: “Non riuscirei a scrivere in nessun altro posto che a casa. Perché lì ci sono i miei gatti… Sono passata al computer con delle tragedie inenarrabili, mi tradiva, non sottostava ai miei voleri. Allora ne ho comprato uno deficiente, insomma, uno di quelli che mi dicono quando sbaglio. Così riesco a fare la prima stesura, poi stampo, infine correggo tutto a mano”.

 

    “La velocità con cui il computer cancella mi mette a disagio. A me piace che quello che scrivo rimanga sul foglio, così ci posso sempre tornare sopra… Avevo diciassette anni ed ero cotto per Hemingway: volevo scrivere come lui. Provavo a riscrivere i ‘Quarantanove racconti’, soprattutto ‘Colline come elefanti bianchi’. Amavo i personaggi di quel racconto. Li copiavo, cercavo di riscriverli. A ventitrè anni me ne sono andato a vivere a Londra, ho lasciato da parte le imitazioni e ho cominciato a scrivere cose mie, con personaggi che mi venivano in testa”. (Giuseppe Culicchia).

 

    “In giro non sento molta consapevolezza del fatto che quella scritta è la lingua di ognuno di noi, non falsificabile, capace di filtrare la vita, di dare una gerarchia ai fatti: come la tv non fa. La prosa  di tanti narratori di oggi è poco rifinita. Per giunta, il suo spessore psicologico è poco: un sentimento vale l’altro. Il peggio, poi, è la mancanza di una forte personalità in chi scrive”. (Libero Bigiaretti).

 

    “I miei libri hanno tutti un alto grado di ‘suspense’. La considero una tecnica narrativa che esprime l’angoscia del mondo moderno molto più dei libri che del mondo moderno raccontano l’aneddoto o la storia… I miei modelli letterari sono Conrad, Melville, Lowry, Fielding, Defoe, Nabokov… La scrittura dev’essere come una bellissima donna che tu guardi e  risponde al tuo sguardo. Il libro è un atto di seduzione. Se non trovo fascino – strutturale o linguistico – io non riesco a mandare avanti un libro. Cerco sempre di caricare di fascino le pagine che scrivo, di catturare, di sedurre; sedurre me, che poi diventa sedurre il lettore”. (Alberto Ongaro).

 

    “Ho dei temi nella mente… ma trovo innanzitutto un’atmosfera. Poi i personaggi. Questi personaggi saranno tratti in parte dala gente che ho conosciuto e in parte dalla pura immaginazione.. E’ un misto dei due… Prendo l’elenco del telefono per i nomi e la pianta della città, per vedere esattamente dove avvengono le cose. E, due o tre giorni dopo, comincio a scrivere… Quando scrivo un romanzo, non vedo nessuno, non parlo, non rispondo al telefono… Per tutta la giornata, sono uno dei miei personaggi”. (Georges Simenon).

 

    “Scrivo la mattina, quando è ancora buio. Mi sveglio prima degli altri perché di solito vado a dormire presto la sera. Se si tratta di romanzi o di racconti, a volte scrivo e riscrivo la prima pagina, ma poi vado avanti in fretta e senza molti rifacimenti… Da piccola scrivevo romanzi che però non andavano mai oltre le prime pagine. Nell’adolescenza ho scritto poesie. Il mio primo racconto vero l’ho scritto a diciassette anni… A volte sto lungo tempo senza scrivere niente, e quando riprendo a scrivere mi sembra di non ritrovare la strada. Però non è lo stile che mi è venuto a mancare. Quello che, di volta in volta, mi sembra d’aver perduto è il modo di mettere insieme e articolare una storia. Intanto non so mai se vorrò usare la prima persona o la terza persona… Riguardo alla semplicità, è qualcosa a cui penso sempre perché desidero essere capita subito. Penso anche alla necessità di dire tutto con il minor numero possibile di parole. Mi sembra che la gente abbia poco tempo di leggere, e che per questo è meglio scrivere secco e senza divagazioni”. (Natalia Ginzburg).

 

    “Io sostengo che si scrive un romanzo per catturare un sapore, un profumo, una particolare luce, una piccola verità che ti è balenata dentro. Questa illusione di cogliere ‘quel’ brandello di realtà è, in fondo, ciò che ti fa scrivere una storia. Poi, quando il libro è finito, ti accorgi che ci hai messo di tutto, ma non sei riuscito a metterci proprio ‘quella’ cosa. Hai la sensazione che sia rimasta fuori dalle tue pagine proprio la cosa che ti aveva spinto a scrivere. O che, comunque, tu non l’abbia fermata nel modo giusto… E’ per questo, credo, che si ricomincia a scrivere”. (Carlo Castellaneta).

 

    “Scrivo sempre al mattino per tre ore e mezzo, a mano, su fogli gialli. Di solito riscrivo ogni libro, facendone anche cinque stesure… Leggo quattro o cinque ore il pomeriggio, soprattutto libri di storia, per documentarmi… I miei libri di pura invenzione sono scritti con più abbandono, più piacere. I miei libri di riflessione storica e religiosa esigono molto studio e preparazione, ma specie per quelli ambientati nell’antichità c’è ampio spazio per l’immaginazione. Ma non c’è una differenza sostanziale per me tra gli uni e gli altri, perché si tratta sempre di un atto creativo”. (Gore Vidal).

 

    “Il ‘mestiere’ di scrittrice è in parte, sì, uguale alle altre professioni, perché è segnato dalle stesse leggi: scelta, applicazione, sacrificio, guadagno, possibile successo, possibile fallimento. Ma in parte no, perché non è legato a un ente, a un’istituzione, ma è, come ogni altra arte, legata soprattutto alla personalità, all’io, e al suo desiderio di esprimersi attraverso uno stile. E’ in definitiva una professione più ardua,  più isolata e più infida. Non offre sicurezza, tantomeno garanzie. Anzi, rappresenta un rischio, un salto nel buio. Allora, perché sceglierla? Per questa semplice ragione: chi decide di diventare scrittrice non può farne a meno. In altre parole ha, o dovrebbe avere, la cosiddetta ‘vocazione’. Vocazione come amore alla parola scritta, che viene messa al di sopra di tutto… Scrivere vuol dire applicarsi con continuità e con assidua pazienza. La frase non è lì, sulla punta della lingua, pronta ad essere scritta. Dev’essere cercata, scartata, corretta, sostituita, cancellata, ritrovata, in una serie di tappe successive, fino ad arrivare alla frase necessaria e appropriata.  Questo lavoro lento viene chiamato ‘stesura’ Non esistono tuttavia regole per la stesura: essa è una questione squisitamente privata fra chi scrive e la pagina. Quando la mente, il cuore, l’orecchio (sì, anche l’orecchio, perché la pagina ha una sua intonazione musicale) si ritrae soddisfatto dalla lettura, anzi alla rilettura di sé, ecco che scatta il momento felice: il lavoro è concluso. La stesura può essere considerata definitiva. Va ricopiata”. (Grazia Livi).

 

    “La scrittura, in realtà, matura lenta, ignara, e in tempi lunghissimi… E mentre la scrittura matura, si deve continuare a crederci, crederci, pur sapendo che forse non riuscirà mai ad essere grande. Solo passabile? Carina? Almeno pubblicabile? Chi scrive non deve porsi domande. La sua forza, come per ogni altra forma d’arte, sta nella capacità di correre questo rischio mortale”. (Lalla Romano).

 

    “Quando ho rivisto la mia casa, il mio giardino, ho capito che il punto da cui dovevo ricominciare era questo… A volte mi alzo all’alba e lavoro dalle cinque alle nove; delle mattine, invece, anzicché mettermi davanti al computer, faccio la salsa di pomodoro.  Però, quando sono posseduta dal raptus, lavoro anche 24 ore su 24 perché o scrivo o penso quello che sto scrivendo oppure, quando dormo, me lo sogno. (Francesca Duranti).

 

    “Mi piaceva molto fare scuola…Avevo un mio piccolo metodo per l’italiano. I ragazzi potevano tenere un quaderno in cui scrivevano quel che volevano… volevo che imparassero un principio valido anche in letteratura: che cioè la fantasia, quella che adesso chiamano ‘creatività’, non consiste nell’immaginazione, nell’inventare trame, storie, personaggi: quella ci può essere, ma non è quella la facoltà artistica; la facoltà artistica e la vera fantasia consistono nel dar vita a persone immaginarie e a persone reali. Mi infastidivano quelli che cominciavano a raccontare un viaggio sulla Luna, quelli che credevano di avere fantasia perché narravano cose strambe. La fantasia sta tutta nel modo di raccontare.  La fantasia è dare senso alla bellezza della vita”.  (Lalla Romano).

 

    “Prima, quando fumavo, lavoravo la mattina. Accendevo i miei sigari, prendevo il mio caffè e questo cerimoniale mi favoriva la scrittura. Poi mi hanno indotto a smettere di fumare e allora, da un giorno all’altro, il corpo non ha tollerato più neanche il caffè. Così ora scrivo la notte, quando riacquisto lucidità. Ma penso che riprenderò a fumare, perché l’astinenza dal fumo mi ha molto scombussolato… Scrivo a penna, con una scrittura minutissima, perchè così in mezza pagina  mi trovo tre cartelle già fatte. Raccontare per me è come attraversare l’oceano o fare il Tour dr France… Scrivendo entro in uno stato di tensione, come un regno dominato dalla magia della parola. La scrittura è per me evocazione, raccoglimento, come una fede che trascina l’immaginazione… Penso che scrivere sia una specie di mania, un modo di sfogare una natura ossessa o depressa: forse molti delinquenti se avessero saputo scrivere non avrebbero commesso delitti”. (Alberto Bevilacqua).

 

    “Salgari era un grosso narratore, conosceva come pochi la tecnica della narrazione. Il vero segreto della tecnica della narrazione non è, contrariamente a ciò che si crede, quello di saper preparare un colpo di scena che, a un certo punto, fa sbalordire tutti. No, il colpo di scena non deve mai arrivare imprevisto, deve essere sempre preannunciato, giungere a poco a poco, in modo che, quando arriva, certamente c’è l’effetto ma, al di là dell’effetto sorpresa, il lettore deve avere la gioia di pensare:          “Ecco, è proprio come l’avevo immaginato io!”. Questo è uno dei segreti più grossi del narratore. Salgari lo aveva capito e ne faceva tesoro”. (Giampaolo Rugarli).

 

    “Nei miei racconti compongo conversazioni. Metto nei racconti l’arredamento e le cose concrete che circondano la gente quando ha bisogno di quelle cose. Forse è per questo che a volte è stato detto che i miei racconti sono disadorni, spogli, o, anche, minimalisti”. (Raymond Carver).

 

    A proposito di minimalismo, si può dire che c’è anche quello attinente le parole e le frasi.

    “La grande libertà di scelta che abbiamo con le parole abbiamo anche con le frasi… Dalle frasi ‘monoreme’, fatte di una sola parola (‘Grazie’, ‘No’, ‘Via!’), si passa alle frasi fatte di più parole, ma senza verbo (‘Per di qui’, ‘Via libera’, ‘Scarpe grosse cervello fino’). E da queste si passa a frasi più complesse, fatte di più parole raccolte intorno a un verbo, cioè fatte di una ‘proposizione’. Diversi procedimenti consentono di mettere insieme più proposizioni in una stessa frase. Il procedimento più semplice è la ‘giustapposizione’, cioè l’allineamneto di proposizioni l’una accanto all’altra, senza congiunzioni (‘Prendo, parto, vado via, voglio vivere come dico io’). Le ‘congiunzioni coordinanti’ o ‘avversative’ (‘e’, ‘ma’) marcano il rapporto di proposizioni nella stessa frase. Frasi con proposizioni collegate solo da congiunzioni coordinanti si dicono ‘paratattiche’ (dal greco ‘parà’, ‘accanto’, e ‘taktikòs’, ‘ordinato’). Il procedimento più complesso è la ‘subordinazione’: una proposizione viene scelta come ‘principale’ e le altre vengono collegate a essa attraverso ‘congiunzioni subordinanti’, tipo ‘quando’, ‘perché’, o attraverso i pronomi relativi (‘che’, ‘in cui’, ‘da cui’, ecc.). Le frasi con subordinate si dicono ‘ipotattiche’ (dal greco ‘hypò’, ‘sotto, dipendente da’, e ‘taktikòs’).

    Una lunga tradizione scolastica raccomanda le frasi ipotattiche, come più logiche o gradevoli. In realtà, dall’antichità classica ai nostri giorni grandissimi scrittori hanno preferito frasi solo debolmente ipotattiche. Dal punto di vista del gusto non è facile decidere. Scrittori che usano frasi brevi e debolmente ipotattiche raggiungono risultati artistici non meno famosi di scrittori che preferiscono frasi ampie e ipotattiche. E se è vero che frasi troppo lunghe possono stancare i lettori, è vero pure che il susseguirsi di frasi brevi può alla lunga riuscire noioso, monotono e, alla fine, altrettanto stancante”. (Tullio De Mauro: ‘Guida all’uso delle parole’, Editori Riuniti, Roma, ’89 – pag. 142).

 

    In conclusione.

    “Sul terreno particolare del come costruire le frasi, ancora una volta si è potuto vedere che quello del parlare e dello scrivere è il regno della libertà. Non facciamoci mai spaventare da chi pretende di imporre vincoli dall’esterno al nostro esprimerci, da chi stende liste di parole e modi di dire accusati di questa o quella colpa: origine straniera, eccessiva popolarità, dialettalità, colloquialità. La sola regola nel mondo della comunicazione con parole è data dagli altri coi quali comunichiamo. La sola regola vera è verificare la capacità che una parola o una frase ha di trasmettere a interlocutori e riceventi determinati il senso che con essa volevamo trasmettere”. (Tullio De Mauro: ‘Guida all’uso delle parole’, Editori Riuniti, Roma, ’89 – pag. 145).

Giuseppe Cerone

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