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Il Dottorando

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IL DOTTORANDO

Guardali. Guarda le loro facce. Guarda i loro deretani mollemente appoggiati su queste sediole. Fissali uno per uno e dimmi cosa vedi. Scruta le loro espressioni inebetite e dimmi a cosa stanno pensando. Lo sai? Quanta retorica in questo stupido rito. Quante situazioni scontate si dipanano lungo le brevi ore di questa stupida mattinata. Non è così?
Nell’aula è calato il silenzio. Tutti aspettano che il ragazzo inizi. La commissione annoiata scarabocchia disegnini sugli angoli delle pagine del verbale. I più intraprendenti si scaccolano il naso distrattamente, per poi osservarne il contenuto con schifata attenzione. I genitori fissano il ragazzo con la stessa faccia con cui tutti i genitori che hanno poggiato il culo su queste sedie hanno fissato i loro ragazzi. Distratto orgoglio, ammirata disattenzione, incredula felicità, preoccupata soddisfazione. Le madri preparano i fazzoletti per piangere, non sai mai se per l’esposizione o per la reale commozione. I padri inteleggibili portatori sani di orgoglio mostrano la preoccupazione per il tuo futuro ora che si è pronti definitivamente per la vita.
Ma il ragazzo resta in silenzio, che ora si fa preoccupantemente lungo. E’ immobile, nella sua giacca fumo di Londra acquistata ad hoc per l’occasione che ti fa tanto un uomo con quella cravatta che ti illumina il viso e gira di qua e gira di là e fatti vedere domani sarai il più bello di tutti mi raccomando ora che sei giunto alla fine ti devi trovare un bel posto di lavoro e quella benedetta ragazza sposala che ti vuole tanto bene vorrai farti una famiglia tua e non vorrai mica starmi in casa tutta la vita…le parole gli rimbombano in testa, non sente altro che la puzza di noia e sudore agitato che aleggia nella stanza.
Dalla commissione cominciano ad arrivare i primi timidi segnali di impazienza. Un colpo di tosse. Prima leggero, poi più insistente. Qualcuno sul fondo dell’aula si agita sulla sedia.
Dai comincia. Cantagli questa nenia che ti sei imparato a memoria. Tira dritto senza prendere fiato. Non guardali in faccia. Non cercare di cogliere nelle loro espressioni un che di umano. Sono statue di cera. Sono ammassi di carne, solo che respirano. Non pensi forse che sia così? Non vedi anche tu il marchio della stalla a cui appartengono? Non senti il puzzo di letame e biada che ti invade le narici?
Il silenzio diventa brusio di voci che cercano spiegazione all’improvviso mutismo del ragazzo. Teste che si muovono confusamente si interrogano sommessamente senza trovare risposta.
"E’ naturale che sia un po’ nervoso, vuole accomodarsi un attimo. Magari facciamo prima il prossimo candidato. Così prende un po’ d’aria e poi rientra."
La voce che interrompe il silenzio è quella del presidente di commissione. E’ confortante, gentile, ma tradisce l’impazienza di finire il più in fretta possibile questa noia mortale.
Il ragazzo rimane immobile. Impassibile. Sordo e cieco agli stimoli esterni. Si limita a fissarli. Tutti indistintamente. Vede sulla destra delle facce seminote, studenti curiosi e invidiosi, venuti a sentire il tuo ultimo atto accademico. Poi ci sono le facce dei compagni di corso, amici con cui hai condiviso la prigione e le catene per vari anni. A seguire come in una ipotetica formazione calcistica schierata per la foto ci sono gli amici di casa. Compagni di giochi e sbronze notturne, unici momenti di reale e indiscutibile contatto con la dura realtà della ceramica del tuo cesso. Più nascosti i tuoi genitori, che alla fine dopo tutti questi anni sono venuti ad invadere il tuo angolo di mondo. Al loro fianco la tua fidanzata. Lei è l’enigma di più difficile soluzione. E’ per questo che il ragazzo si sofferma lungamente sulla sua persona. Scruta con viva curiosità il suo viso. Cerca disperatamente di sintonizzarsi sui suoi pensieri per cercare di escludere i malsani discorsi che vagano nel suo cervello.
Intanto nel suo cervello la voce è diventata un grido.
Muoviti. Parla, fai qualcosa. Fai tacere le loro facce. Parla e chiudi qui questa triste commedia. Poi sarai libero. Poi potrai mandarli tutti a cagare, sarai libero di scappare lontano. Di fare tutto quello che ti passa per la testa. Non sarai più legato al cordone ombelicale del portafoglio di tuo padre. Parla e rinasci.
Il ragazzo scuote lentamente la testa. Rosso in viso, cerca la forza per la prima parola. La luce del proiettore seminasconde nell’oscurità gli astanti agitati. Apre la bocca, riempie d’aria la cassa toracica ed emette il suo primo vagito.
Il pubblico nella sala si calma. La preoccupazione dei genitori si dissolve. La commissione placa la sua impazienza. Tutto è tornato alla normalità più strisciante. Nessuna si accorge della piccola macchiolina di sangue che imbratta la camicia candida del ragazzo all’altezza dell’ombelico.


Gabriele Di Marco

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