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Non ti domandare

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Non ti domandare

Maria mi telefonò per ben tre volte prima di riuscire a trovarmi. In quel periodo ero spesso fuori per lavoro, e non avevo mai capito bene perché dovessi comprare una segreteria telefonica. Se qualcuno aveva bisogno di me, allora era quel qualcuno che doveva darsi da fare. Non certo io.
Comunque sia fui lieto di sentirla. Non ci parlavamo spesso, e quando ci incontravano era sempre per cose serie. Per problemi da risolvere. E quella volta non era diversa dalle altre.


Sentire

Maria avrebbe compiuto cinquantasei anni il dieci di aprile, ma nonostante i venticinque anni di differenza non riuscivo a non trovarla affascinante. Era seduta di fronte a me con il suo solito sguardo perso, i capelli raccolti e come sempre indossava tutto l’oro che era riuscita a trovare. Sembrava, a modo suo, una zingara.
– E’ tutta colpa mia – diceva, con una voce limpida e ferma. – Avrei dovuto aspettarmelo –
Io la guardai senza dire nulla. Mi sembrava di stare per assistere ad una rappresentazione ben studiata, e non volevo certo interromperla. Carlo, in piedi di fianco a lei, le teneva una mano sulla spalla. Aveva uno sguardo triste e preoccupato, e si sentiva chiaramente come si era sentito dal secondo giorno del suo matrimonio in avanti: incapace di comprendere la situazione. Non era male, intendiamoci. Un fisico asciutto, due braccia forti e un viso da attore, quasi sempre sorridente. Ma il destino a volte, fa strani scherzi.
– Tieni. – disse lei, passandomi una lettera.
Il testo era più lungo di quanto avessi voglia di leggere, e perciò mi limitai a seguire una riga qua e una là, attendendo che fosse lei a spiegarmi tutto.
– Massimo non è mai stato un ragazzo del tutto a posto – iniziò lei solenne facendo sobbalzare Carlo.
– Quello che mia moglie vuol dire è che nostro figlio, cioè… – intervenne. Io e Mario lo guardammo con commiserazione e lui si fermò.
– Massimo, come ben sai, ha interrotto gli studi l’anno scorso. Era, come dire, confuso. E forse non siamo riusciti a seguirlo a modo… anche tu non lo frequentavi da un po’, no?… e, beh, dopo mille discussioni si è trasferito in Inghilterra… –
Ad Arundel, pensai io.
– …ad Arundel – concluse Carlo.
La guardai pensieroso. Sì, avevo ricevuto una strana cartolina da Max… forse l’avevo letta, forse no. E sì, a ripensarci l’immagine stampata sopra poteva anche essere stata quella del castello…
– Fin qui, niente male. O meglio, avrei preferito che stesse con noi, ma ok, i giovani fanno sempre di testa loro, e questo una mamma deve metterlo in conto. Ma come puoi leggere dalla lettera… beh… sembra che sia un po’, come dire, partito con la testa. –

Seguire

Mercoledì avevo fatto trentadue telefonate. Avevo chiamato il circolo, la "gang" di Giulio, la palestra, la piscina, il poligono di tiro, la biblioteca, e tutte le altre persone che avrei dovuto sentire o incontrare da lì a una settimana. E a tutti avevo detto "Ehi, non ci sono per un po’. Sì è uno dei soliti giri. Eh? Ah, in Inghilterra. Massimo, te lo ricordi? No, beh, fa lo stesso, ciao, ti chiamo quando torno."
Oh, s’intende, qualcuno Max lo conosceva. Ma senza specificare il cognome nessuno aveva associato quel nome al figlio di Maria. Forse non l’avrei fatto neanch’io, al loro posto.
Comunque sia, dopo tutte quelle telefonate, sono andato da "John" e ho fatto gli acquisti del caso. Poi in agenzia, e via, in aereo da Bologna.
Era un po’ che non andavo in Inghilterra. Il posto mi piaceva molto, ma lì, per uno come me, c’è troppa "concorrenza". E io sono uno di quelli che riconosce subito i propri limiti. E forse, lo ammetto, non mi piace neanche impegnarmi troppo. Il viaggio è stato tranquillo. Il solito cielo splendido che ricordavo, le nubi come cotone, e il passaggio sulla manica, durante il quale, se guardi giù, riesci a distinguere le imbarcazioni e vedi il tratto di mare segnato dalla scia bianca dei motoscafi.
Ho avuto tempo anche di leggere poi per intero la lettera di Max ai genitori. "Cari Mamma e Papà bla bla qui ho finalmente capito cos’era quell’ansia e quell’incertezza che mi tormentava a Modena bla bla ho fatto molte ricerche bla bla gli esperimenti hanno dato risultati inaspettati bla bla ci sono cose che non immaginereste mai bla bla sappiate che fino a che non avrò compreso tutto non ho intenzione di tornare a casa punto."
Lo stile non mi piaceva molto. Il solito gusto di Max per le frasi lunghe e ad effetto. Ma lì c’era tutto. E capivo la preoccupazione di Maria. E il motivo per cui aveva chiamato me.
Arrivato all’aeroporto ho preso la metro per il centro, e ho fatto un giro con tappa obbligata al Burger King in Piccadilly Circus. Poi di nuovo la metro fino alla stazione del treno. Biglietto di sola andata, grazie. Destinazione Arundel.
In un’altra occasione mi sarei fermato anche in un altro paio di posticini lungo la linea che conduceva a quel piccolo centro. Un paio di posticini con un arredamento in legno, un buon pollo con patate, e un boccale di Murphy’s da mezzo litro. Ad Arundel, lo ammetto, i pub mi erano sempre piaciuti meno che altrove. Forse quell’aria fortemente misticheggiante e artistica che si respirava dappertutto rendeva l’atmosfera un po’ troppo, se mi concedete il termine, "francese". Ma avevo fretta di trovare Max, e vedere di persona com’era messo. Se era, per così dire, recuperabile. In fondo, eravamo stati amici fino a qualche anno prima. Avevo conosciuto prima sua madre di lui, è vero, ma ugualmente avevamo fatto molte cose insieme, e mi era un po’ dispiaciuto quando avevamo smesso di frequentarci. Un po’ per il mio lavoro che mi faceva viaggiare spesso, un po’ a causa sua, giacchè (come secondo me era prevedibile) aveva cominciato a sentire quell’aria speciale di famiglia e a diventare strano ed irrequieto.

Trovare

Sapevo dove andare. Max non aveva messo l’indirizzo sulla busta ma aveva citato il nome del paese in una frase verso la fine. E se era qui, e se faceva gli esperimenti che diceva di fare, c’era un posto solo dove sicuramente si recava spesso: il piccolo negozietto vicino al ristorante indiano.
Presi prima una stanza nel solito Bed&Breakfast vicino al ponte. Avevano anche libera la mia stanza preferita, la numero dieci. Ve la consiglio se passate da quelle parti. Abbastanza grande, con una finestra sulla strada, un buon bagno e, soprattutto una parete con il pavimento inclinato verso l’alto. Molto suggestiva. Se mettete una sedia nell’angolo e fate un passo indietro vi sembrerà di stare guardando un quadro surrealista. Maria mi aveva spiegato quell’anomalia. Per me non faceva tutto quell’effetto, ma lo stesso mi aveva affascinato fin dal primo momento. Ehi, dico, c’è sempre qualcosa che rotola.
Dopo una doccia, necessaria in una giornata assolata come quella, e un viaggio in treno di quasi due ore, mi sono cambiato e sono uscito. Avevo la mia giacca da lavoro indosso, e un paio di occhiali a specchio. Non volevo passare totalmente inosservato, ma così comunque mi "mimetizzavo" abbastanza bene tra la piccola popolazione e la ventina di turisti che giravano tra le viuzze alla ricerca di quadri o sculture da portare agli amici.
La commessa del negozietto non mi conosceva, ma ha capito subito quando le ho spiegato la situazione.
– Sì certo che conosco il signor Massimo – mi disse, scandendo le parole con quel suo accento inglese del sud.
– Viene a comprare qualche ingrediente o qualche libro un paio di volte a settimana. –
La commessa era carina, e aveva un modo tutto suo di ammiccare che mi fece sorridere.
– Non sapevo che sua madre fosse… – iniziò poi titubante.
Io continuai a sorriderle e le feci un cenno con la mano. – Beh, non importa. –
Mi disse che Max abitava vicino all’entrata del parco, oltre alla scuola e al cimitero. Una casa affittata per sei mesi, le sembrava di ricordare. Appena un po’ fuori. Isolata, se così vogliamo dire, ma non in una zona isolata.
La ringraziai e prima di uscire comprai una boccetta di essenza di sandalo. Dicevano che fosse afrodisiaco ma a me ha sempre solo fatto venire mal di testa. Ma, lo ammetto, volevo comprare qualcosa per ricambiare il favore, e quella era la meno costosa del negozio.
Fare la salita fino al parco non mi ha mai fatto impazzire, ma ormai era sera e il caldo della giornata cominciava, come del resto il sole, a calare. Trovai la casa dopo un po’. Sì, era abbastanza distante dalle altre, e forse passargli davanti era un po’ sospetto, ma ero troppo curioso. Mi fermai un paio di minuti per osservarla a modo, e per sentire l’atmosfera di quel luogo. C’era una certa elettricità nell’aria. Si sentiva che c’era qualcosa di grosso che stava accadendo all’interno. Chiusi gli occhi per un po’, cercando di concentrarmi il più possibile. Poi, forse un po’ preoccupato, tornai al B&B.

Interrogare

Conoscevo Max. Alle otto in punto mangiava. E odiava cucinare. E lì ad Arundel c’era un solo ristorante che potesse interessargli. Entrai nel Chinese Tree verso le sette e quaranta, mi misi nel primo tavolo libero vicino all’entrata, ordinai ed aspettai. E come Phileas Fogg non sgarrò di un minuto.
– Ehi – urlai io, "sorpreso" quando mi fu a due passi.
Max si girò sconvolto. Aveva i capelli scuri più lunghi e unti del solito, e gli occhiali ingrandivano ancora di più i suoi occhi preoccupati e stupiti insieme. Una cosa è certa, in tutto quel tempo in cui non c’eravamo visti due cose in lui non erano sicuramente successe: non era ingrassato, e non aveva migliorato il suo gusto per i vestiti.
Lo invitai al tavolo, e lui, dopo essersi guardato intorno mille volte, e aver biascicato tutti gli spezzoni di parole che riusciva a trovare nella sua memoria, spostò la sedia, e si mise di fianco a me.
– Come? Cosa? Chi? – disse, come una mitragliatrice inceppata che sta scarrellando a vuoto per cercare di riprendere la propria efficacia.
Avevo una scusa ridicola pronta. Ma Max aveva bisogno di crederci, e non riusciva a capire come fossimo riusciti a trovarlo, perciò si calmò, e smise di blaterare.
– Sono qui per lavoro. Devo incontrare tra un paio di giorni uno scrittore che sta cercando informazioni su dei vasi fatti a mano del milleottocento. Ma tu piuttosto? Cosa ci fai qui? –
Me lo lavorai per tutta la cena (che alla fine gli offrii io), e lui, dopo un po’, iniziò a rilassarsi e a raccontarmi tutto dal principio. Nell’ultimo periodo dell’università aveva spesso "visioni", o meglio pensieri strani che gli riempivano la mente in certi momenti della giornata, e che lui non riusciva a scacciare. Gli sembrava anche di avere acquisito un buon sesto senso, e spesso gli capitavano episodi di deja vu. E aveva cominciato prima a leggere, poi a documentarsi con attenzione su molti degli aspetti del paranormale.
Cioè, diceva "paranormale" e parlava di PSI ed altro, ma erano molte le volte che si lasciava scappare qualche sillaba che assomigliava più a "magia". Il mio sguardo forse era un po’ troppo eloquente e spesso arrossì mentre parlava. Guarda, diceva, anch’io ero scettico. Ma ci sono cose che…
– Perché? – gli chiesi alla fine.
Lui mi guardò senza capire.
– Come perché? –
– Sì, Max, perché? Tu hai a casa una famiglia che ti vuole bene, degli amici, e ottime prospettive per un futuro da ingegnere. Perché ti sei messo a giocare con queste cose? –
Mi guardò come se avesse avuto di fronte a sé un marziano. Stropicciò il tovagliolo con le mani e sembrò che dovesse dire chi sa che cosa. Poi si calmò di nuovo, e assunse un aria un po’ stanca, un po’, forse, rassegnata.
– Temo che tu non abbia capito. O forse non credi alle mie parole.
Prima che io iniziassi a protestare mi zittì con un gesto.
– Guarda, lascia stare. Hai impegni per il dopocena? –
E, ovviamente, io non ne avevo.

Risolvere

La sua casa sembrava normale da fuori, ma dentro era una cosa allucinante. C’erano provette e alambicchi dappertutto. Coltelli, candele, libri. Pergamene sul pavimento e calendari astrologici appoggiati alle pareti.
– Scusa per il disordine – disse, spostando di peso un gatto nero dalla soglia del suo studio.
Il gatto fece finta di non accorgersi di nulla, e si lasciò sollevare senza neppure aprire gli occhi.
Anche un gatto nero, pensai io.
Max si girò verso di me come se avesse sentito il mio commento, e mi sorrise.
– Sì, disse, anche Black, un gatto nero. Mi tiene, diciamo così, compagnia. –
Diedi un piccolo calcio al gatto che mi guardò appena, prima di nascondersi sotto ad un tavolo.
– Vieni – mi disse Massimo.
Io entrai. Beh, lì il caos era ancora peggiore che nel resto della casa, ma c’era un tavolone di legno spesso al centro quasi sgombro. Il piano era pieno di tagli, e sembrava macchiato di rosso. C’era un odore forte di ammoniaca che mi diede leggermente alla testa, e la piccola lampada di fianco al letto, unica luce che Max aveva acceso quando eravamo entrati nella stanza, gettava ombre piuttosto strane su tutto quanto.
Il suo viso, normalmente pallido, in quel momento sembrava diventato esangue e uno strano sorriso iniziò ad apparire sul suo viso.
– Ti vedo un po’ teso – disse, leggermente beffardo.
Io non risposi e continuai a guardarmi intorno.
– Beh… – dissi. E poi, dopo un colpetto di tosse che mi aiutò a schiarire la voce, continuai:
-…che cosa volevi farmi vedere? –
Max girò intorno al tavolo in modo che fosse dall’altro lato rispetto a me, e mi chiese – Leggi Borges? –
Annuii brevemente intuendo già dove voleva ad andare a parare.
Godiamoci lo spettacolo, pensai. E vediamo. In fondo c’è anche la possibilità che sia soltanto un pazzo illusionista.
Max sorrise ancora, come se avesse letto nella mia mente ciò che stavo pensando.
Accese un braciere, e tirò fuori una rosa rossa da non so dove. Quando le fiamme furono alte le smorzò e gettò il fiore sui carboni e questa iniziò prima a fumare e ad avvizzire, poi si incendiò e in pochi secondi sparì del tutto.
Max allora prese in mano un piccolo oggetto di metallo e tenendolo a mezzo metro dal braciere iniziò a pronunciare parole a bassa voce.
Io guardai il suo viso riprendere colore, e quando poggiai di nuovo gli occhi sul braciere, vidi, come temevo, una rosa. Una rosa, che adesso, galleggiava nell’aria ad un paio di centimetri dal fondo ardente e che veniva come sospinta dal fumo che saliva.
Max disse poi un’altra sola parola e la rosa prese fuoco di nuovo con una vampata enorme, che mi fece indietreggiare.
– Ehi – dissi io turbato.
Max mosse le mani e disse un’altra frase e tutte le boccettine che stavano sul tavolo alla mia destra iniziarono a volteggiare intorno a me, formando nell’aria strani disegni.
Mi misi le mani di fronte al viso, e iniziai a gridare di piantarla.
Max rise forte, e poi tutto tornò come prima.
– Allora? – chiese.
Io ansimavo ancora. Quelle manifestazioni mi davano sempre fastidio. Era più forte di me.
– Allora? Guarda, te lo chiedo una volta sola: se è un trucco, se ti stai allenando per diventare illusionista o che altro, dimmelo subito…
Ma rise di nuovo, scuotendo la testa in segno di dissenso. Il suo viso sembrava stare cambiare leggermente colore di nuovo.
– Vuoi un altra dimostrazione? – chiese, con una voce roca, mentre intorno a me si iniziava a sentire una brezza fredda.
Io mi guardai intorno di nuovo, come avevo fatto appena entrato nella stanza. No, niente fili. Nessun trucco.
Conoscevo Max da quando avevo vent’anni.
Sì, effettivamente un po’ mi dispiaceva, ma le regole erano regole, e non c’erano più dubbi: stava adoperando la magia.
Tirai fuori la pistola, guardai le sue pupille contrarsi un attimo, mentre cercava di capire, e gli dissi: – Ti saluta anche tua madre. Dispiace anche a lei –
Sparai due volte. Un colpo al cuore, uno in mezzo agli occhi. Poi tirai fuori la solita polverina e ne cosparsi il cadavere prima di dare fuoco a lui e alla casa.

Mi dispiaceva veramente per Maria. Il segreto della Cospirazione aveva richiesto un’altra vittima. Quando mi rivide entrare, la commessa del negozio di astrologia capì subito quello che era successo e si dimostrò dispiaciuta anche lei.
Ma per noi collaboratori era, in fondo, più facile. Noi non avevamo alcun potere, e non rischiavamo che qualcuno dei nostri congiunti finisse così.
Comunque per fortuna, manca ancora poco prima che questo modo per mantenersi nell’ombra diventi, finalmente, superfluo.

Marco Giorgini

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