KULT Underground

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La fine delle trasmissioni

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Non si sentiva particolarmente bene. La testa gli girava leggermente e gli sembrava di avere lo stomaco un po’ sotto sopra. Non aveva una gran voglia di alzarsi, e invece di farsi forza per andare subito a lavorare, appoggiò solamente il giornale di fianco a lui sul divano e guardò fuori dalla finestra.
Erano quasi le due, ed il sole di quel marzo stranamente caldo filtrava tra le fessure delle veneziane. Sentiva il traffico procedere a tentoni sotto casa sua, a causa del semaforo rotto, e le voci dei ragazzi nel bar vicino alla scuola, che riempivano l’aria di un gusto strano ma piacevole.
Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi un’instante. Sentiva che qualcosa non andava, e sperava che non si fosse preso una di quelle fastidiose influenze stagionali. Si stese, e stirò le braccia, sbadigliando. Poi si allungò di lato, e si girò. Ma più cercava di trovare una posizione comoda, più si accorgeva di sentire maggiormente i rumori fuori da casa sua.
“…e allora io l’ho presa per mano…”
“…e lei che cosa ha fatto…”
Si immobilizzò. Strano, si disse. Mi sembra di sentire le voci come se provenissero dalla cucina. Mi sembra addirittura di riconoscerle una ad una.
Poi, come in un crescendo sentì un colpo di tosse. Una risata sommessa il tintinnio di un bicchiere (di una bottiglia di Coca Cola, si scoprì a precisare) il campanello di un registratore di cassa il frusciare di una gonna corta un piede contro il bancone il deglutire del gestore e il suono della sua lingua passata sopra ai denti.
Si aggrappò al divano. Gli sembrava che i rumori fossero diventati una cosa solida, gommosa, e che stessero cercando di sfondargli le orecchie per entrargli in testa ed uscirgli dagli occhi. Non riusciva neppure a respirare.
Con uno sforzo immenso si tappò le orecchie con le mani, ma senza risultato.
Poi, all’improvviso, di nuovo, il silenzio.
Respirò a pieni polmoni per un attimo, e sentì un conato attanagliargli lo stomaco. Corse in bagno e vomitò.
Cosa era successo? Cosa diavolo era successo?
Il suo volto, riflesso dallo specchio semicoperto dalla schiuma da barba e dallo shampoo, era pallido, ma non stravolto. I suoi occhi però erano rossi e rigati da piccole venature. Si lavò più volte il viso con l’acqua fredda e cercò con tutte le sue forze di convincersi che non era successo nulla. Un malore, al massimo. Sì, un colpo di freddo. Si guardò di nuovo allo specchio. Sì, sì. Solo un malore momentaneo. Adesso è tutto a posto. Adesso è tutto perfettamente normale, ripeté alla sua immagine, con tutta la serietà di cui era capace.

Si svegliò alle cinque del mattino con uno strano presentimento. Dopo mangiato era andato a lavorare, poi alle sette era uscito a cena con Simona. Si era divertito. Avevano chiacchierato e scherzato. E aveva anche riso con lei di quella “allucinazione sonora” che gli era capitata. Poi era andato a letto, un po’ ubriaco, un po’ eccitato dalla sua scollatura, convinto di essersi tolto così gli ultimi brividi dalla schiena. Ma ora sentiva di nuovo lo stomaco andare un po’ per conto suo, e la testa vibrare come se… no, disse, no. Chiuse gli occhi, girò la testa sul cuscino, e ad alta voce disse “sto dormendo”.
Ma poi sentì la sveglia del salotto ticchettare come se l’avesse di fianco al viso. Sentì la sua vicina baciare il marito, e sentì lui accarezzarle il seno, e gli sembrava quasi di potere vedere la scena, tanto i rumori erano netti e definiti.
Sentì la radio invadere l’abitacolo di una 131 dal motore stanco ed imperfetto, e il suo guidatore fare un lungo tiro da una sigaretta, udì un bambino piangere in una piccola stanza, ascoltò delle persone parlare, altre cantare, altre ancora spostare degli oggetti.
Gli sembrava di stare precipitando in un baratro senza fondo, solo che non erano immagini quelle che gli scivolavano intorno, ma suoni. Lo stomaco si ribaltò sulle coperte senza che nemmeno se ne accorgesse. Non riusciva a fare nulla. Si sentiva schiacciato, stuprato, quasi, da tutte le voci che lasciavano il loro ricordo dentro la sua testa, prima di rimanere indietro, in un viaggio in una direzione precisa, che ancora non riusciva a riconoscere. Iniziò a sentire voci in un’altra lingua, e poi in un’altra ancora.
Poi, lentamente, la sua lunga corsa sonora, sembrò avere fine.
Vomitò ancora. E svenne.

“Capisci?” chiese al suo dottore di sempre.
Non sapeva perché ma si sentiva stupido. Oh, beh, in realtà sapeva il perché: la sua storia non aveva nessun senso. Eppure non aveva sognato. Eppure era accaduto. Due volte. E la seconda era stata molto peggio della prima.
Era sicuro che sarebbe accaduto ancora, e poi ancora, se non avesse fatto qualcosa per impedirlo. E non voleva assolutamente che questo capitasse.
L’anziano medico lo guardava calmo e distaccato, con quella sua faccia da mastino, e il suo viso mal rasato, e mentre lui raccontava, scriveva cose strane su un foglio di carta intestata, con una stilografica d’oro più vecchia di lui.
“Ti sei messo a fare uso di sostanze strane?” chiese dopo un lungo momento di pausa.
E prima che potesse protestare, alzò le mani, come per dire, ehi, non l’ho detto io che sento strane voci.
“Sai, quelle cose che magari si trovano ai party… fanno male, sai? Anche se ne prendi solo ogni tanto, quella roba ti disfa il cervello.” e qui si tocco le tempie con un dito, per dare più rilievo alla cosa, per fargli capire bene dove fosse questa particolare parte del corpo umano, nel caso le sue condizioni fossero tali da rendergli difficile il ricordo.
Lui non riusciva quasi a crederci. Diventò rosso in viso e sbottò.
“Ehi, non ho preso nulla. Mai. Mai provato neppure una canna in vita mia. Non mangio neppure tutte quelle cose strane surgelate. Mi conosci. Che domande sono queste?”
Il dottore lo guardò con condiscendenza, ma poi sembrò accettare la cosa. Appoggiò la penna sul tavolo, come un generale depone la spada prima di arrendersi al suo avversario, e poi si pulì gli occhiali con un lembo del camice.
“Ok, allora. Togliti la camicia e sdraiati. Diamo un’occhiata a quel tuo corpo così integerrimo.”

“Appoggia quello strumento lì sul tavolo. Ehi, piano, costa più di te!”
“Si signore, scusi, signore.”
Vide gli assistenti intorno a lui trasformare la sua camera da letto in una specie di laboratorio. Indicatori, led, aghi. Non sapeva cosa fossero tutti quei congegni, e sinceramente non voleva curarsene. Da due settimane si sentiva così male, da non riuscire più neppure a preoccuparsi. Le cose reali accadevano attorno a lui, e lui le guardava appena con un freddo distacco.
L’unica cosa che riusciva a fare, l’unica che veramente faceva, era aspettare. Aspettare che una nuova crisi lo assalisse, e lo calpestasse, facendolo precipitare senza muoversi. Facendolo correre come il vento lontano. Facendolo scivolare nel mondo, scavalcando muri e finestre.
“Qui è quasi pronto” disse un ragazzotto biondo con dei grossi occhiali.
“Anche qui.” fece eco una ragazza dai capelli neri, lunghi, che aveva appena collegato dei cavi ad una specie di televisore messo sopra al comodino.
“Bene.” disse il professore, con un tono che non chiariva affatto il suo stato d’animo.
“Bene”, ripeté. E poi si girò verso di lui, lo fissò con due occhi azzurri ed impenetrabili, e avvicinandosi gli domandò, lento “Come ti senti?”
Lui lo guardò in faccia senza interesse. Non sapeva se rispondere “male” come in effetti si sentiva, o “bene” per non metterlo in difficoltà. Era sicuro però che la sua espressione non lasciasse dubbi.
Si limitò a mugolare un “mmh” senza tono, e volse lo sguardo verso la finestra. Erano quasi le sei di sera, e il sole aveva già deciso di andarsene da qualche parte.
Da qualche parte.
Buffo. Tra un po’ anche lui se ne sarebbe andato “da qualche parte”.
“L’ultima volta ci siamo andati vicino.” iniziò il professore. “Siamo riusciti a cogliere una buona parte di quello che sentivi tu, e lo abbiamo analizzato. Anche se era tutto molto basso e disturbato, e un sacco di suoni erano sovrapposti contemporaneamente qualcosa siamo riusciti a separare.” Fece una pausa, e allargò le mani come per sottolineare questa parte.
Lui non lo degnò di uno sguardo, e continuò a fissare il cielo che andava inscurendosi fuori dalla finestra.
Una lacrima fredda gli scese su una guancia. Cercò di ignorarla ma non ci riuscì. Stava per accadere di nuovo.
“Sai, sei “riuscito” ad arrivare in Australia. Non ne siamo sicuri al cento per cento, ma abbiamo un buon margine di fiducia. Siamo sicuri che ci fosse il verso di parecchi canguri e di qualche dingo.”
“E c’era quasi sicuramente un pezzo di un concerto tenutosi a Sidney” aggiunse, visibilmente eccitato, un giovanotto dietro al professore. Il professore lo zittì con la mano, annuendo.
“Sì. Senti. Non sappiamo cosa tu abbia, né perché ti è capitato. Ma siamo sicuri che ci sia qualcosa di molto importante dietro tutto questo, non credi?”
Lui sospirò. Non gli sembrava di avere sentito la parola “cura”. Non gli sembrava di capire più molto bene tutto quello che era accaduto. Il suo dottore aveva assistito ad una delle sue crisi la seconda volta che si era recato da lui, quando cioè era tornato con un pacco immenso di inutili risultati di esami. E proprio mentre il vecchio medico scuoteva la testa dicendo “vedi, non hai assolutamente niente” lui era partito di nuovo. Vomitando quel nulla che aveva dentro allo stomaco, sulla poltrona di pelle. Cercando di urlare senza riuscirci. E il medico aveva visto come era stato male. E aveva sentito.
Avvicinandosi a lui, toccandolo, aveva sentito anche lui una parte dei suoni, delle voci. Aveva assistito per cinque minuti alla sua crisi, senza riuscire a farlo riavere, a fermare il fiume in piena sopra di lui. Gli aveva fatto anche un’iniezione con un potente calmante, ma senza effetto. Il rumore era semplicemente troppo forte perché i suoi sensi potessero ignorarlo.
E quando alla fine era finito tutto, il dottore gli aveva detto che avrebbe chiamato dei professionisti che lo avrebbero aiutato. Gente dei laboratori governativi. Gente con attrezzature in grado di studiarlo.
Strano, neanche quella volta gli sembrava di avere udito chiaramente la parola “cura”.

“Cosa ne pensi?” chiese il professore al suo assistente più anziano. Il corpo del loro uomo era steso esanime sulla poltrona. La crisi era finita da un quarto d’ora e lui non si era ancora ripreso. Ogni volta peggio. Non credevano che avrebbe resistito ancora molto. Speravano di capire ciò che c’era da capire prima che fosse troppo tardi. Ed intanto i nastri che avevano registrato e le riprese valevano oro.
“Sembra che la direzione sia sempre la stessa. Solo che ogni volta va più veloce. Più lontano. Le crisi durano più o meno sempre lo stesso tempo, ma la “distanza” percorsa sta incredibilmente aumentando.”
Il professore si accese una sigaretta e guardò il volto dell’uomo svenuto.
“Secondo te che cosa prova, esattamente?”
“Non lo voglio neppure immaginare. Ti dico solo questo. I suoni ci sono tutti. Non abbiamo abbastanza definizione per risentirli uno ad uno, ma abbassando la velocità di riproduzione riusciamo a sentire voci, rumori perfettamente distinguibili di cose capitate migliaia di chilometri da qui. Se il suo cervello li sente tutti, li distingue tutti, deve rischiare di impazzire. Come se ti facessero vedere tutta la cinematografia mondiale a velocità cento volte superiore, e tu riuscissi ugualmente a cogliere tutto. Solo che non riusciresti a memorizzarlo. Non ci sarebbe spazio, o forse semplicemente a quella velocità la tua mente non saprebbe come gestire tutte quelle informazioni…”
Un’altra boccata. Un’altra nuvola di fumo. Lo sguardo del professore vagava senza meta nella stanza, spostandosi da un macchinario all’altro, e osservando i suoi ragazzi che freneticamente ascoltavano, rielaboravano, studiavano i suoni registrati.
Avevano applicato all’uomo un microfono capace di cogliere le vibrazioni, perché, in realtà i “dati” non si sentivano. Si percepivano avvicinandosi, toccandolo. Si sentivano le cose, come un sordo può “sentire” la musica sedendosi sopra ad una cassa, o toccando uno strumento che riproduce suoni. Come se fossero trasmessi direttamente alla sua scatola cranica.
E il cavo era ancora fissato poco sopra l’orecchio destro, pronto a rubare qualunque cosa lui fosse costretto a sentire, ma senza interferire assolutamente.
“Dove sta andando, secondo te?” chiese il professore.
E poi, colto da una specie di illuminazione si alzò in piedi e guardò fuori dalla finestra. “Sta seguendo la curvatura terreste? O si sta dirigendo nello spazio?”
“Dai dati, sembra che stia girando intorno alla terra. Ma se iniziasse a curvare e a dirigersi verso le stelle, non potremmo più capire la direzione.”
“Spazio…” il professore si allontanò dalla finestra per avvicinarsi al loro uomo, e lo toccò con una mano. Il suo volto era terreo, freddo, ma i suoi occhi si muovevano ancora come se fossero in uno stato di REM.
“State ancora registrando, vero?” disse un po’ agitato il professore.
“Sì. Scusi, mi sono dimenticato di spegnere. Lo faccio subito.” rispose il giovanotto con gli occhiali.
L’uomo ansimava leggermente in quello stato di trance in cui era caduto dopo la crisi.
“No. Non spegnere. Anzi, amplifica al massimo la capacità di ricezione.”
Poi voltandosi verso l’assistente più anziano chiese “Da quant’è che pensiamo abbia smesso di ricevere?”
L’altro corse a guardare gli strumenti, forse iniziando a capire quello che pensava il loro capo.
“Ventitré minuti. Ventiquattro in questo istante.” Girò un paio di manopole. Nella stanza si udirono dei suoni bassissimi, ma forse modulati.
“Velocità. Dimmi a che velocità si stava spostando fino a quando siete riusciti a tracciarlo. Eravate riusciti a trovare alcuni punti di riferimento se non sbaglio. L’ultimo in Australia, no?”
“Difficile stimarla. Non era lineare. Aumentava in maniera strana. Quasi esponenziale, ma non costante nel suo incremento.”
“Secondo te, se stesse ancora viaggiando, solo che nello spazio non ci sono rumori, e quindi non sentiremmo nulla noi, e lui sarebbe riuscito a svenire, quanto lontano sarebbe ora?”
Il suono divenne più forte. Più distinto. L’uomo si contorse leggermente sulla poltrona, e la faccia iniziò a fare smorfie di panico.
“Non so. Anni luce di distanza. Forse anche centinaia. Non è possibile fare nessuna stima precisa.”
Il professore lo guardò dritto negli occhi e nel suo sguardo si poteva distinguere come una forza strana.
“Una cosa però sarebbe certa, non trovi? Saremmo LONTANO. Molto LONTANO. Più lontano di quanto mai nessuno è stato.”
Il rumore divenne di nuovo simile a quello che erano stati abituati a sentire. Suoni, forse addirittura qualcosa anche simile alla musica.
Adesso il loro uomo era di nuovo sveglio e stava annaspando come al solito, cercando di respirare. Le mani artigliavano i braccioli del divano in un modo atroce, e grosse gocce di sudore gli rigavano il volto.
Un rumore più forte degli altri tagliò la stanza. Come una scarica elettrica. Poi il suono sembrò diventare più pulito. Più nitido. Una specie di vociare di folla.
“Sembra che stia rallentando.” disse piano l’assistente.
Voci indistinte. Poi una su tutte più forte che diceva qualcosa, con un tono strano, solenne.
La ragazza dai capelli neri fece un passo avanti, avvicinando l’orecchio agli amplificatori.
“Scusate. Sembrerebbe… sembrerebbe arabo!”
Il professore si avvicinò, come per sentire meglio. “Arabo?”
Lei si raddrizzò e rispose “Sì, arabo… mi sembra di riuscire a cogliere qualche parola. Saluti più che altro. Frasi da prima elementare.”
“…dire… importante…”
Tutti rimasero impietriti. Una voce femminile, in qualche modo familiare, aveva preso il posto di quella di prima. Non si sentivano quasi più rumori di fondo.
“…io…” Non potevano stare sbagliando tutti: stavano sentendo tutti una voce femminile parlare nella loro lingua.
“…importan…”
Il tono era dolce, sereno, distaccato. La voce dava calore.
L’uomo, al limite delle sue forze, aveva la bocca aperta, e gli occhi fissi. Ma nonostante questo, sembrava stare meglio. Sembrava quasi, in qualche modo, sorridere.
“…sappi che io son…”
Un tremendo scoppiettio, e la stanza ripiombò nel silenzio. Il professore e gli assistenti si guardarono in faccia allibiti, e il giovanotto biondo iniziò freneticamente a controllare tutto, a premere pulsanti, pregando ed imprecando ai macchinari di tornare a funzionare.
Poi l’assistente capì. “Ha staccato il ricevitore!”
L’uomo, con il volto rigato di lacrime, sembrava più calmo e felice, ma aveva sul viso, nello stesso tempo, un pallore che lasciava pochi dubbi sulle sue condizioni. E in mano, teneva stretto il cavo spezzato.
Iniziò a singhiozzare lentamente, e quel suono era strano, dolce. Sembrava un bambino.
Il professore si gettò su di lui, tentando di rimettere insieme i due pezzi. Avvicinandoli nella stanza si udì di nuovo qualcosa ma era troppo confuso per essere compreso. Allora si stese su di lui, con la testa contro la sua. Ma riusciva a malapena a cogliere qualche lettera.
Percepì però chiaramente il nulla. La fine delle trasmissioni. Il silenzio di nuovo, rotto solo dalle ultime lacrime del loro uomo. Gli occhi erano sereni, e il viso si stava piano piano ricomponendo, cercando nella morte, dignità e sollievo.
Il professore lo tirò su di peso, e lo colpì, per cercare di svegliarlo.
“Cosa ha detto?” urlò con tutta la sua rabbia.
“Che cosa diavolo ha detto? Rispondi brutto bastardo! Rispondi!”
L’altro non opponeva neppure resistenza e si lasciava scuotere e picchiare. Gli assistenti fermarono il professore a forza. E rimasero tutti e cinque a fissare il morente, che sorrideva loro senza rancore.
L’uomo sussurrò qualcosa e dalla bocca uscì un po’ di sangue.
“addio” disse. Addio. E morì. Il professore urlò più forte di prima e si mise a distruggere oggetti ed apparecchiature, per poi buttarsi a terra, piangendo. Gli assistenti lo lasciarono solo per un po’, poi iniziarono a togliere tutto.

“Un radioamatore” aveva detto il suo assistente più anziano. Forse un radioamatore era entrato nelle loro apparecchiature, amplificate oltre misura, e quindi più portate a tirar dentro di tutto. C’era una moschea a meno di dieci chilometri da lì. Magari stavano trasmettendo gli auguri di compleanno a qualcuno. Magari pregavano per radio. E magari c’era anche una donna, da qualche parte, con un CB, che stava parlando con qualche suo amico. Non potevano saperlo. L’uomo era morto. Tutto era finito. Avrebbero scritto un libro su quella storia, tralasciando il finale, e sarebbero tutti e cinque stati famosi ed ammirati. Avevano dei nastri e delle videocassette. Tutto il resto era documentato. Un caso medico interessantissimo. Ma era meglio lasciare stare le favole dello spazio e di voci femminili che mandavano messaggi nella loro lingua. O ancora peggio, in arabo.
Il professore aveva guardato il suo assistente con aria annoiata. Si sentiva vuoto. Fate come credete, aveva detto. Scrivete quello che credete e fatemelo leggere.
Poi da solo era uscito a camminare, ed era arrivato fino al grande parco, in fondo al viale. Era sera. C’era un po’ freddo, ma con una giacca non era male stare lì in mezzo agli alberi.
Guardò il cielo stellato. Lassù, da qualche parte c’era qualcosa. Qualcuno con una voce dolce e buona. Qualcuno che aveva mandato un messaggio. Un messaggio importante, dolce, splendido.
E lui non l’aveva sentito.

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