Sono partito tre mesi fa, in piena estate, ed ora mi ritrovo l’autunno alle porte. Ed anche se è una metafora poetica che hanno usato tutti, sono caduto come le foglie degli alberi.
Quest’ultimo periodo è stato frenetico, per questo non mi sono mai fermato a pensare, a riflettere e tutto ciò mi manca moltissimo. Adesso ne ho tutto il tempo, per ricostruire la mia memoria, la storia della mia morte.
Questa faccenda è iniziata a marzo. Io e la mia famiglia stavamo traslocando e non c’era molto tempo per leggere i giornali o guardare la televisione. Avevo sentito parlare di minacce di bombardamenti e di attacchi militari ma pensavo fosse uno dei soliti bluff degli americani, per ottenere chissà quali privilegi.
Col passare dei giorni i toni minacciosi non si placavano e questo iniziava a stupirmi. Il giorno in cui ho cambiato casa sono iniziati gli attacchi. Memore della guerra del Golfo, quando "tifavo" per gli americani, ho subito pensato di assistere ad una guerra-lampo, ad alcune minacce. In quest’occasione devo ammettere di non aver dimostrato molta lungimiranza. Così iniziò la guerra con i serbi e la difesa dei kosovari, un popolo di cui non avevo mai sentito parlare.
Dopo oltre due settimane gli attacchi andavano avanti, i telegiornali iniziavano a trascurare le notizie sui bombardamenti e sui profughi, tutto si stava spostando verso le macchinazioni politiche. Da una parte sembrava che ogni nazione non fosse più in grado di dialogare e che "gli altri" fossero i cattivi, i "traditori". Così io sentivo dire che i Serbi fossero macellai e che bisognava distruggere i motori produttivi del paese, annientare ogni forma di sostentamento. Le popolazioni slave ci accusavano di aver violentato la loro terra, di aver bombardato il loro popolo senza alcuna motivazione. E, se gli attacchi non si fossero fermati, sarebbero stati costretti ad intervenire. In mezzo c’erano gli albanesi (sono un popolo veramente sfigato!) che da una parte venivano cacciati e dall’altra erano loro minate le strade di fuga. Da una parte c’era un governo che non li voleva, dall’altra un governo che, accidentalmente, li bombardava.
In quel periodo stavo ancora studiando, e nel mentre facevo altre mille cose. Uscivo puntualmente il venerdì e il sabato con i miei amici, i miei compagni di scuola, le tre-quattro persone con cui sono cresciuto. Eravamo tutti poco più che maggiorenni, ci piaceva andare in birreria e qualche volta ai concerti.
Una sera, dopo aver riso e scherzato un po’, scoprimmo di essere un po’ preoccupati. James aveva iniziato il civile, Enrico era stato riformato per insufficienza toracica, Stefano fra qualche mese sarebbe partito per il militare ed io avevo la domanda per l’obiezione già spedita. Fino che si è piccoli la guerra non ti tocca, quando si è un po’ più grandi scopri di poter rischiare di andarci. Così parliamo delle minacce di guerra europea, della necessità di finirla, a James fa paura la Cina. Tutto finisce in ridere, con noi che partiamo tutti insieme e nella nostra immaginazione la guerra smette di essere brutta ma assomiglia ad un viaggio fra amici. E mi commuove ancora quel sogno, era l’unico modo che avevamo per allontanare il conflitto da noi. Ricordo anche che mi ostinavo al silenzio, pensavo che le parole dovessero essere conservate per il momento giusto, anche se questo tardava ad arrivare. Il mio silenzio era come una riflessione, una provocazione, un modo per non unirmi a tutte le voci!
Gli aerei militari nel mentre ci passavano sopra, si sentivano soprattutto di notte, quando c’era molto silenzio. Ed il loro suono sembrava riportarci il conflitto ancora più vicino.
A Maggio inoltrato su alcuni giornali comparvero notizie, puntualmente smentite, di uno sbarco imminente in Serbia e un allargamento del conflitto ad altri paesi. Intanto in Italia l’entourage politico era riuscito a nascondere la realtà: eravamo in guerra, anche i nostri aerei partecipavano ai raid notturni. Alcuni amici coinvolti negli aiuti umanitari mi fecero sapere che l’Albania era sul piede di guerra e che anche i civili albanesi erano armati, e forse per questo i campi profughi sarebbero stati abbandonati a se stessi. Ricordo che queste notizie mi sorpresero, non riuscivo a capire cos’era una guerra e che sensazioni poteva smuovere. Ero moralmente impotente.
Alla metà del mese il porto di Ancona fu espropriato e dichiarato "luogo strategico per gli interventi diretti". Questo iniziò a creare un po’ di panico, i supermercati stavano iniziando a fare affari d’oro. Comunque, con le navi da guerra parcheggiate nei nostri porti iniziarono ad arrivare una serie di lettere dal Ministero della Difesa: tutti i giovani dai 19 ai 27 anni furono convocati nel Distretto Militare più vicino allo scopo di coordinare gli "aiuti logistici" in caso di necessità per profughi e "personale autorizzato". James fu il primo, io ed Enrico capitammo nello stesso turno e Stefano era ancora a data da destinarsi. Io fui convocato a fine mese, quando ormai era stato già tutto pianificato.
Il 17 l’Albania dichiarò guerra alla Serbia e il 18 la Nato sbarcò a Durazzo, con un esercito pronto a combattere. Le cose non sembravano volgere al meglio. Così James fu sbattuto a Brindisi, noi tre quando non andavamo in discoteca ci trovavamo davanti ad una birra, cercando di capire cosa avremmo potuto fare nell’estate.
Il 28 arrivai con Enrico in caserma. Dopo i soliti test demenzattitudinali, un paracadutista testosteronico ci parlò di "missione, fede e patria" mentre stavamo giocando a tris, ed Enrico ebbe la meglio. Tornati a casa tranquillizzammo le nostre famiglie, per il momento le "chiamate logistiche" erano per volontari o chi stava compiendo il servizio militare o civile.
Così ai primi di giugno, mentre la Russia minacciava la comunità internazionale, organizzammo le nostre vacanze estive. Dal 13 al 22 luglio James sarebbe tornato da Brindisi in permesso; potevamo finalmente tornare a Monaco! Ci raccontò che faceva il cuoco, solo i militari contavano qualcosa, ed oramai i pescherecci si erano spostati nei porti minori. Diceva che il mare era un pullulare di portaerei della Nato, non sembrava più di essere in Italia, c’erano molti stranieri.
Una sera in discoteca, mentre guardavamo gli altri ballare, pensai che sarebbe potuta essere l’ultima volta che mi immergevo nella spensieratezza. Poi il dj mise "what a wonderful world" di Louis Armstrong e ci mettemmo al centro della pista a fare il "giro-girotondo". In seguito alcuni miei amici partirono volontari per i campi profughi allestiti in Friuli, in Puglia ed Abruzzo.
La guerra stava iniziando ad essere ridicola. Fra conferme e smentite gli uffici stampa che gestivano il conflitto stavano giocando una lunga ed estenuante partita a scacchi. La gente iniziò ad accorgersene e le prime pagine tornarono alle riforme e all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Io ero indeciso, mi sarebbe piaciuto toccare la guerra con le mani ma avevo molta paura. Avrei voluto andare a vedere Belgrado ma anche i kosovari straziati dai soldati serbi. Avevo voglia di viaggiare, o forse di risolvere nel modo più semplice i dubbi della mia età.
A fine giugno la guerra era retrocessa in quinta pagina e i reporter si allontanavano da Belgrado. Ora l’attenzione era incentrata su Ancona e Brindisi: il contingente militare Nato fu triplicato. Il governo rivolse un appello per il sostegno nazionale "in questo periodo storico che vede lo scontro fra le barbarie nazionalistiche e le grandi democrazie". Le associazioni umanitarie non governative iniziarono a formare milizie di pace in aiuto al popolo serbo. Milosevic era quasi sparito di scena, ma i serbi continuavano a stare per strada a beccarsi le bombe.
Senza dire niente alle nostre famiglie decidemmo di aderire al programma aiuti di una organizzazione di Torino, una settimana al campo orfani di bambini kosovari e serbi, situato oltre il confine serbo e gestito dalla Croce Rossa internazionale. Così, al posto delle birre e del brezel, avremmo contaminato i nostri sensi con la guerra.
Siamo partiti il 14, non prima perché James voleva passare almeno un giorno con la sua ragazza. Il viaggio l’abbiamo fatto su un convoglio composto da tre carrozze e cinque vagoni carichi di aiuti umanitari. Anche il governo si era dato da fare per raccogliere medicinali e cibo.
Sul treno siamo costretti a cambiare scompartimento, dopo dieci minuti litighiamo subito con due tipi che parlano di superiorità bianca e di solidarietà contro "quegli albanesi di merda". Quando straripano nella lobby "nera ed ebrea" americana, mi verrebbe voglia di tornare indietro ma poi scopro che non ci sono solo stronzi, c’è anche un signore di sessant’anni che la pensa come noi, dice che alla fine questa guerra non sono gli eserciti a farla ma la gente comune.
Il campo è indescrivibile, è un’unione di vuoto e di fervore umano… I bambini sono strani, riescono a farci sentire la guerra come il peso del mondo ed un minuto dopo ce la fanno sentire lontanissima. Alla fine della settimana nessuno vorrebbe partire, James deve tornare a Brindisi ed Enrico al lavoro. Io e Stefano rimaniamo lì.
Io "insegno" ai bambini che vanno dai 13 ai 15 anni (più che altro disegni e giochi) e Stefano coordina l’animazione pomeridiana. Ci sono molte persone in questo campo, la croce rossa gestisce il campo e l’assistenza. I volontari devono organizzare le attività educative e artistiche per i bambini.
Non avrei mai pensato che i bambini potessero esaurirmi fino a coinvolgermi nei loro giochi. Passa così anche Agosto, la guerra sembra calmarsi, gli orfani diminuiscono e vengono accolti pian piano dalle famiglie di vari paesi. La televisione dice che i bombardamenti stanno diminuendo e mancano ancora pochi obiettivi strategici. E’ da quindici giorni che non sentiamo più echeggiare il boato notturno proveniente dal confine, dove sono presenti basi militari serbe ed industrie di materiale elettrico. Forse è la volta buona che le notizie son vere.
Il 28 agosto la televisione annuncia l’armistizio parziale degli interventi Nato. Sembra che Milosevic, Primakov, Solana e Clinton si incontreranno ad Oslo per discutere della pace.
Gli incontri durano più di una settimana e l’otto settembre la fumata nera, la guerra continua, Milosevic non ha accettato la resa incondizionata. Nel campo c’è un po’ di amarezza, è da due mesi che siamo qui e siamo esausti, ci manca casa, anche se abbiamo diritto ad una telefonata al giorno, ma i sapori, le sensazioni e le abitudini sono difficili da dimenticare. Così mi metto d’accordo con Stefano, lui parte il ventiquattro settembre e ritorna il dieci ottobre, io parto il nove ottobre e ritorno il ventisette dello stesso mese, poi resteremo al campo fino al dieci dicembre e torneremo a casa insieme, concludendo questa strana esperienza.
Mi stupisco, nonostante tutto riusciamo ad affrontare questo periodo con "leggerezza". Ci impressionano i volontari della croce rossa, sono molto scossi, d’altronde hanno visto cose inenarrabili nelle zone calde, hanno visto le fosse comuni kosovare ma anche lo strazio provocato dai bombardamenti di centri come Belgrado e Podgorica
I giorni che passo al campo orfani senza Stefano sono terribili, sento il peso della solitudine, e tutto questo mi fa pensare. Il 3 Ottobre arrivano 35 bambini montenegrini, 27 serbi e 7 (non si sa come mai) croati. Telefono a Stefano e mi dice che si sente vuoto, che tornare a casa non è come ce lo immaginavamo, è come se non ci fosse vita e nessuno capiva cosa stavamo passando, solo Enrico gli era vicino. Poi mi dice che James è stato trasferito in un campo aiuti, si trova meglio, ed anche lui è impegnatissimo, aveva deciso di protrarre il servizio civile per altri sei mesi.
Enrico sarebbe tornato per due settimane al campo orfani in novembre, e si sarebbe portato dietro due amici. Tutto ciò era bellissimo. Stefano mi ha detto anche che probabilmente la guerra sarebbe finita alla fine di novembre, era previsto un vertice con Annan dell’Onu in Sudafrica, coordinato da un equipe diplomatica internazionale.
I primi di novembre inizio a prepararmi, sono contento di essere venuto qui, ho fatto qualcosa senza dover assistere a scene di guerra, senza aver visto esplosioni o sofferenze. Molti orfani torneranno nelle proprie case, ritroveranno i propri cari a guerra finita.
Così arriva il nove novembre, salgo sul treno della Croce Rossa dopo aver raggiunto la stazione di Przen e da lì arriverò a Venezia dove mi aspetta la mia famiglia. Ho voglia di rivederli, gli voglio bene, hanno pianto quando sono partito ma hanno capito la mia scelta… non è cosa da poco. Con me viaggiano altri volontari sparsi nei Balcani, alcuni di loro mi raccontano cose agghiaccianti, sono felice di non essere stato in un campo medico, lì la guerra l’hanno vista.
Il nove novembre sono morto. E con me altri 78 volontari italiani, 13 francesi e 3 austriaci.
Alle 21.13, mentre viaggiamo verso il confine Serbo all’altezza della città di Soricizca, un aereo durante un bombardamento ha colpito il convoglio.
I telegiornali annunciano la notizia, si parla di errore tecnico, le agenzie stampa della Nato e del governo serbo fanno una guerra di comunicati a forza di accuse reciproche. E’ squallido ma anche la guerra, si sa, è una questione di marketing, i signori della guerra sono dei ragionieri, i conti devono tornare, gli uomini no.
Stefano ed Enrico non torneranno più nel campo orfani, raggiungeranno James al campo aiuti.
Del disastro del treno di Soricizca se ne sentirà parlare per un bel po’. Gruppi di Hacker informatici faranno circolare immagini criptate dai segnali militari che provano l’intenzionalità della strage, organizzata dagli altri gradi del comando centrale per allargare il conflitto.
Ed anche se devo ammettere che è affascinante raccontare la propria morte, e il modo in cui si muore determina la propria esistenza, sento di mantenere la medesima posizione. Non mi interessa sapere se ci ha ucciso una bomba intelligente della Nato o se si trattasse di un espediente serbo per far entrare la Russia in guerra… Alla fine noi abbiamo preso una posizione, abbiamo deciso di non essere né coi santi né coi carnefici. E l’unico conflitto è di guerra o di pace, e tutti quelli che combattono, buoni o cattivi, sono dalla stessa parte.
Via Martiri di Vercalle 4
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UNA STORIA POSSIBILE
Avevo 22 anni. Ora non mi servono più.
Gianluca Grassi.