Màrika e’ alta, anche per gli standard sloveni.
Da lontano pastori e boscaioli ne riconoscono l’agile figura avvolta, estate e inverno, in cotonina leggera, indifferente al freddo e al vento che le scompiglia i capelli biondi. Una natura schiva e la macchia violacea che abbraccia parte del viso, hanno reso solitaria la sua vita e lei taciturna. Ogni giorno accudisce alla casa, ai cinque fratelli e al padre, aiutata da una sorella che più diversa non potrebbe essere.
Ciarliera e vivace quanto lei e’ riservata, mora quanto lei e’ chiara, attratta dai maschi quanto lei ne e’ allontanata, trovandoli sciocchi e superficiali. Cosi’ passano gli anni , tra i lavori domestici e quelli nei campi. La scuola, la vita con i compagni, e dolorosi, immancabili
accenni alla "cosa" che ha sulla faccia, le attenzioni di qualche ragazzo, più che altro rivolte a un corpo precocemente sviluppato in forme che non passano inosservate. Iniziano, gradualmente, le difficoltà nei rapporti con gli altri. Non le importano ma li considera necessari, alla stregua del mangiare o del dormire, mentre si accentua l’ interesse per la
natura, la cui forza e armonia percepisce ogni giorno di più. Fin da bambina si e’ sentita chiamare dal bosco e dalla vita segreta che intuisce sotto quel verde. La trattengono le raccomandazioni della madre e un vago timore dell’ ignoto. Coi fratelli si occupa dei campi e si ritrova a fissare il nero delle abetaie, il volo degli storni, la precisione delle anatre in rigida formazione militare, l’ eleganza essenziale dei falchi. Si chiede che sensazioni possa dare scivolare nell’ aria, conquistare le vette o i più estremi rami dei larici. Si sorprende a mimare l’ondeggiare delle poiane, immaginando le braccia coperte di soffici piume. Ridono, i suoi. La chiamano "uccellino" e Malko, il più giovane dei fratelli, la provoca con piccoli pizzicotti.
Per riportarla alla realtà, dice. Nel tempo, a cerchi sempre più ampi, si impadronisce di quelle montagne. Le considera la sua vera famiglia e con esse le creature che le abitano. Le ore trascorse in casa sono per lei un fastidioso intermezzo, e a volte si vergogna del proprio scarso attaccamento. E’ li’ che si rifugia ogni volta che sente il bisogno di
conforto. Li’ che corre quando la madre in pochi giorni muore di polmonite.
Per essere già lontana dal paese al sorgere del sole e avere la giornata tutta per se’, chiede aiuto alla sorella. In cambio si occuperà da sola della casa nei due giorni successivi.
Non piove da settimane e il terreno e’ solido. Sale sicura, superando dossi e cengie, piccole e grandi radure destinate al pascolo. Il bosco e’ disseminato di piante abbattute dal vento e da piogge che rendono il terreno morbido e fragile. A mano a mano che s’ addentra nei valloni interni e le case in basso rimpiccioliscono, sente l’amorevole abbraccio della "sua" montagna. Si disseta dell’ acqua ghiaccia dei rivi che solcano il crinale. La fa scorrere tra le mani e gode del gelido contatto che le arrossa la pelle.
Non più prati, ma il buio del bosco. In alto, tra i rami, il sole combatte una battaglia persa, contro la mole di quei giganti verdi.
E’ il regno del muschio, delle felci e di creature che ai pascoli assolati preferiscono la frescura del sottobosco. Spessi nuvoloni gonfi di pioggia e ammassi bianchi come latte sfilano su differenti livelli e giocano a nascondino con il sole, alla merce’ di correnti che variano direzione e intensità. Ogni volta Màrika vive con profonda emozione il manifestarsi delle forze della natura. Passerebbe giornate intere sotto la pioggia, con l’acqua che le scivola addosso e si assorbe nella pelle. E’ una sensazione rigenerante, come il tocco di una persona amata che non si cura della sua deturpazione. Ama il vento sul viso e nei capelli,
l’ aria sottile e pura, le narici colme di odori che riconosce uno ad uno. Procede rapida sul crinale. Sotto le scarpe la soffice materia in disfacimento, negli occhi l’ assoluta armonia del creato. Un fruscio, la fuga concitata di qualche piccolo animale, non suscitano in lei alcun
timore. QUELLA e non altre e’ la sua casa ed e’ li’ che vorrebbe vivere. Gli abiti che indossa la impacciano, inutili orpelli che vorrebbe strappare via, ultimo ostacolo alla completa simbiosi con il resto del suo corpo, la grande Creatura che l’ accoglie.
Sono giorni e giorni che pensa alla quercia. Non ne conosceva l’esistenza. L’ aveva scorta da lontano durante l’ ultima scorribanda. La vista dell’enorme massa, striata come un animale preistorico, l’ aveva attratta e turbata. In paese qualcuno racconta che da tempo immemorabile sia ricovero a una comunità di pericolose api selvatiche. Molti anni prima, un toro al pascolo aveva deciso di grattarsi contro quel tronco. La reazione era stata immediata e il povero animale mori’ a breve distanza. Ancora poco. Nella vastità di quei luoghi non si e’ mai persa, – rammenta – sapendo ogni volta come orientarsi. Ancora poco.
Soltanto larici attorno a lei. Alti, diritti e grossi come colonne di un tempio, privi di rami e foglie laddove il buio ne impedisce la crescita. Le ombre cominciano a schiarire. Oltre una gobba del terreno già scorge il verde dell’ erba. "Ci siamo, sono arrivata". Non la
stupisce di aver parlato a voce alta e non semplicemente pensato. Il mondo che la circonda può "sentire" i suoi pensieri, ma cosi’ ha più forte il senso d’ appartenenza a loro, parte di un tutto armonico e perfetto e bello. Non il fruscio di una lucertola, non lo stormire dolce
delle betulle. Calma assoluta, piatta. Anche il vento sembra rispettare la mole possente della quercia, quasi a voler rimediare le violenza del passato. Cardi selvatici, sormontati di violetto acceso, mimano a centinaia piccoli fuochi bloccati da una magia nel verde intenso del prato che nei pressi della quercia e’ trapunto di ghiande e foglie color ruggine.
S’ avvicina. Il tronco sorge dalla terra, saldo come roccia.
La corteccia e’ festonata da licheni, solcata da antiche ferite. Alla base, ampia come un ricovero per le pecore, nicchie e avvallamenti accolgono mille altre specie vegetali. Quanta armonia, pensa: un grande Essere che si spegne portando in se’ nuove creature, cosi’ che la
morte non sia in realtà perdita ma cambio di stato, rinnovamento di vita. Tocca quel corpo. Sente in lui tensione, un vibrare strano. Scavalca alte radici, le mani su di lui per non perdere il contatto. Gira attorno, vinta da tanta immensità.
Si chiede se l’ antico alveare sia mai esistito o non sia piuttosto frutto della fantasia.
L’ apertura e’ sul retro, larga come un carro e molto più alta.
Aromi dolciastri, di resine e miele ma non soltanto.
La tensione che prima avvertiva al tocco delle dita, pervade la materia, il suo corpo, l’ aria, il terreno. Aumenta ad ogni passo. Non e’ inquieta. Sente forze ignote dispiegarsi, spavalde, padrone ma non ostili. E’ fresco, scuro come l’ accesso a una caverna: una caverna che vive. Il ronzio cresce ad ogni istante, con progressione inarrestabile che esprime una immane potenza. Resta immobile nell’ inchiostro che la avvolge. "E’ come la mia camera – sussurra – quando mi sveglio in piena notte al verso di un gufo o per lo scricchiolare di un trave".
E’ calma. Di più, sta bene, nonostante il toro ucciso. A lei non lo faranno. Lo sente. Lo sa. Lentamente, gli occhi si adattano al buio. Un tenue chiarore rivela i contorni di un mondo fatato. Le pareti salgono alte, come gli archi della cappella di San Kasimiro, ingombre
di masse scure che appena s’ indovinano. L’ una addossata all’ altra, ombre mutevoli ad ogni passo, sembrano ora giganteschi grappoli d’ uva ora damigiane e botti, ora festoni di un addobbo dimenticato. Altri cumuli levitano sopra di lei che si guarda intorno, bambina in
soggezione tra adulti sconosciuti.
Un movimento agita l’ orlo della veste e non e’ colpa del vento: un denso strato di api ricopre come una pelliccia la parte più bassa e un braccio. Sono centinaia. Accosta il braccio al viso e le osserva nella penombra. Infinite ali vibrano, forse per dare stabilita’. Un’ape gira su se stessa senza posa ma le altre la ignorano e Màrika ha la sensazione che stiano tutte fissando lei. In alto, il ronzio e’ aumentato. Al soffitto, lo sciame ruota compatto in brune spire, simile a un gorgo di torrente sospeso su di lei. Non sa che fare. Il nervosismo suggerirebbe la fuga ma anche senza contare quelle che ha addosso, le altre, milioni, impiegherebbero un battito di ciglia a raggiungerla. S’inginocchia, siede a terra, su frammenti di cera e polvere.
C’e’ fermento tra le api del vestito. Alcune si alzano in volo, altre le seguono. L’ ultima ruota sul braccio facendole il solletico. Aumentano il calore nell’ ambiente e il senso di vertigine. Chiude gli occhi: le pare di vivere una favola. "So bene che q-questa e’ casa
vostra…" Non ricorda quando abbia iniziato a parlare ma confusamente pensa che non c’e’ alternativa: se muore li’, nessuno la troverà mai, incapsulata in un sudario di cera, propolis e miele. " …questa e’ casa vostra e io sono venuta per vederla e conoscervi. Per sapere se davvero esisteva un alveare cosi’ grande. Non voglio altro che restare qui, tra voi." Racconta, Màrika. Di tante cose, della sua vita, della famiglia, dell’ amore per la montagna. Parlando, sente il malessere che l’opprimeva scivolare via. Ha la sensazione che il gorgo sul soffitto rallenti. Una nuova serenità s’ impadronisce di lei. Ascolta la propria voce farsi più sicura. Poi il sonno la coglie. Non sa quanto abbia dormito, ma al risveglio il sole e’ calato dietro le cime, a ovest, oltre un mare mai visto. Tutto e’ quiete, nel ventre dell’ albero. Non un ronzio, sparito il gorgo. Niente api. Non UNA.
Da quel giorno, la donna sale all’ alveare tutte le volte che gli impegni glielo consentono. Quando e’ li’ non si sente più sola neppure nel proprio cervello. Come se altri guardassero dentro, amichevolmente, per darle compagnia e affetto. Nei pressi della radura avverte la fatica sciogliersi come sale nell’ acqua calda. Sa che e’ merito loro. Non comprende come ma intuisce che e’ cosi’ e non se ne stupisce più. Poi un fatto nuovo. Un giorno si e’ trattenuta sul posto più del solito, e nella penombra del tramonto inoltrato fatica a distinguere il percorso. L’ aria vibra. Una scia di insetti si materializza, alta sul suo capo e vi resta come una scorta d’ onore fino alle porte del villaggio. Da allora, ogni volta e’ cosi’.
Un altro inverno e’ trascorso e la neve si ritira sotto gli attacchi di un sole sempre più caldo. Màrika vorrebbe salire, perché il maltempo gliel’ha troppo a lungo impedito. Nell’ attesa, vola lassù con il pensiero. Da qualche settimana una strana debolezza si e’ impadronita di
lei. Stenta a ritrovare l’ energia di sempre e lo specchio le rimanda l’immagine di un viso pallido e affilato. Non esistono bilance, in casa, ma sente i vestiti più larghi e non trova nel suo corpo la stessa elasticità. Ha scarso appetito, bruciori mai stati, vertigini, brividi di
freddo. La visita e’ lunga e accurata. L’ anziano medico l’ ha vista nascere, ma questa volta sembra a disagio, più silenzioso del solito, quando grugniti e sospiri scandiscono il tocco professionale di mani sottili e bianche. Si rattrappisce sulla poltroncina. Il mento, appoggiato al magro petto, forma buffe pieghe alla base del collo che gli conferiscono un’aria da tacchino spelacchiato. Pero’ lo sguardo e’ pensoso e serio, addolorato forse, e, prima di parlare, vaga su pareti di libri e incartamenti gonfi come cuscini. "Mmm… non va tanto bene,
figliola cara. No, non tanto bene. Perdona la schiettezza, ma io sono uso parlare chiaro. A taluni puo’ sembrare mancanza di tatto e forse lo e’, tuttavia mi hanno insegnato che specialmente in certi casi la sincerità e’ d’ obbligo." Ascolta quelle parole a volte difficili e il
cervello le si affolla di ogni possibile pensiero. Immagini della sua infanzia si sovrappongono al ricordo delle ore trascorse nella quercia e un dolce sentimento di affetto le scende nel cuore, a mitigare l’inquietudine di un futuro incerto. "… vrai fare esami specifici, – la voce del medico riaffiora lenta dalle profondità dei suoi pensieri –
… per appurare, al di fuori d’ ogni possibile dubbio, la tua situazione.
Non ti nascondo che i sintomi sono preoccupanti. Un certo gonfiore che ho riscontrato, la perdita ponderale, voglio dire l’improvviso dimagrimento, lo scarso appetito oltre ai disturbi di cui mi parli…si’, m’ impensieriscono. Insomma, cara Màrika, occorre andare più a fondo, ma senza perdere tempo. Ecco, ora ti scrivo tutto e penserò io a telefonare all’ospedale."
Il periodo che segue e’ denso di avvenimenti nuovi e per nulla piacevoli, ma lei si e’ imposta di accettare tutto senza scomporsi. Ci riesce, nonostante la difficoltà di certi esami.
Sentirsi studiata, osservata e freddamente commentata come se lei non fosse li’, le da’ un disagio che a volte supera il timore di ciò che potrebbero trovare.
Una mattina, la fanno entrare in un cubicolo di vetro smerigliato. Una signora anziana la guarda con occhi materni e stanchi poi la informa dei risultati in un linguaggio finalmente comprensibile. Non una colite ulcerosa come si era sperato ma un tumore al colon e anche molto sviluppato. E’ come se una corrente fredda e nera l’ avvolgesse, sbattendo dietro di lei la porta della vita. Poche pacate parole che le echeggiano in testa senza posa mentre s’ accuccia nella corriera che risale la montagna. La mente vaga senza posa ed e’ incapace di metterle un freno.
Sono immagini dell’ infanzia, della famiglia, dei campi. Poi la scuola e i compagni di allora. Pezzetti di vita passano veloci e senza un apparente filo logico, mentre con dita distratte segue sul sedile i solchi di similpelle marrone. L’ altra mano resta sull’ addome, come a sorvegliare
la nuova presenza. Cosa dirà ai suoi? Tutto? Non ha ancora deciso. Se sapranno, sarà sconcerto e pena e in un batter d’ occhio anche il paese saprà. Per strada la fermeranno e ognuno vorrà esprimere parole di partecipazione. Ad ogni passo, ad ogni sillaba sarà peggio. No, non dirà nulla. Neppure al medico. Certo, lui la cercherà ma per un po’ avrà
pace, poi si vedrà. Il pensiero sale, calamitato da una forza irresistibile, verso la montagna. Non vede l’ ora di essere lassù.
Li trova riuniti per la cena, attorno al tavolone del nonno.
Non e’ abituata alle bugie, piuttosto preferisce non dire, ma c’e’ aspettativa. più nello sguardo dei suoi che sulle labbra, poco avvezze ai sentimenti e a discorsi complicati. Sente imbarazzo. La domanda e’ nell’aria, sul viso della sorella che la fissa muta, nei movimenti impacciati
dei fratelli. "No, non si sa ancora nulla. Povero tornare per altri esami". Poche sillabe, ma la stanza ne risuona. E’ un riflesso del camino acceso o gli occhi del padre sono velati e rossi? Lo vede fare un cenno col capo. Le nocche sbiancano sul manico del cucchiaio e non dice nulla. Vorrebbe, ma proprio non riesce a parlare del cancro. Una tazza di latte, poi a letto. Immobile, per sembrare addormentata.
Apre gli occhi all’ improvviso. E’ buio.
Nel triangolo di cielo nero che scorge dal letto, brillano due stelle. Cos’e’ stato a svegliarla non lo sa. Non un rumore, ne e’ certa.
Percepisce il debole respiro di Sonija accanto a lei, ma tutto il resto e’ silenzio. No, e’ stato qualcos’altro, ma cosa?
Non c’e’ luce, quindi non occorre chiudere gli occhi, per concentrarsi.
Pensa alle sue api, pensa alla quercia… e… pian piano, impercettibile come il lento schiarire della notte quando segna il profilo del paesaggio, "sente" un ronzio cadenzato, familiare come una voce. Ora sa cosa deve fare. Attenta a non provocare cigolii, si veste e scivola fuori di casa. Dormono ancora tutti, cosi’ nessuno la vede uscire. Sulla strada passa un furgoncino grigio e lascia una scia di gasolio e musica pop. Il villaggio lentamente si sveglia. Un motore che s’ avvia, lo sbattere metallico dei secchi da latte, gente che si chiama, scalpiccìo sul legno delle scale. S’ affretta su per la collina. I piedi vanno da soli, senza bisogno di indicazioni, la mente libera di seguire un pensiero fisso, un’idea che pian piano si fa strada, assume contorni più netti, come se qualcuno la proiettasse nel suo cervello. Ha la sensazione che qualcosa di definitivo, di unico, stia per accadere. Una realtà finora ignota ma che le appartiene da sempre, ancor prima di certi avvenimenti. Prima di lei, prima di tutto. Si sente come musica raccolta nel solco di un disco, pronta a scaturire al passaggio della puntina. Rio che sta facendo era già nel solco, quando ancora altre spire si svolgevano. Stranamente l’idea che in qualche modo il suo destino sia già scritto non l’inquieta, non la rattrista perché chi l’ha vergato, sapeva bene cosa scrivere e come. Il disco sta forse per finire, ma altri attendono, lo sa. Sull’ onda di questi pensieri, cammina sicura, satura di un’ energia ritrovata. A una curva del sentiero l’ attende il fianco scabro di un roccione. E’ li’ che di solito si ferma e guarda il fondovalle, verso i tetti di pietra delle case. Non Ora. Questa volta procede veloce.
Eccola. Grande, immensa, immutabile.
La radura e’ punteggiata dei colori del risveglio. Infiniti gialli e sfumature di verde e piccoli fiori azzurri. Innumerevoli farfalle volano a balzi da una corolla all’ altra. Non un’ ape, pero’, non una. E’ strano. Forse e’ presto e troppo fresco per loro. Al contatto sul tronco, la mano
non avverte le solite tensioni. Anche questo e’ strano. Entra. Odori familiari, ma non un volo, nessun ronzio. Nella carne un crampo improvviso, la dolorosa sensazione che sia tutto finito, che le api e l’anima della grande quercia se ne siano andate, lasciandosi dietro gusci di fredda materia. Vacilla e un freddo pungente s’ impadronisce di lei. Ma…e’ un ronzio? E’ un ronzio quello che sente? Forse il vento tra le foglie …no, eccolo di nuovo, più forte di prima. Un crescendo costante, inarrestabile e non e’ come le altre volte. E’ di più, gioioso, festante. Esprime calore e felicita’. Non serve alzare gli occhi pieni di lacrime per sapere che sono la’. A migliaia, milioni, saturano il culmine della caverna. Non ne ha mai viste tante. Non credeva ce ne fossero cosi’ tante… Scendono su di lei, vicine al punto da muoverle i capelli.
"SDRAIATI!".
Non e’ una voce. Nasce nella sua testa ed e’ un coro e un’ eco.
Si libera dei vestiti e resta nuda, al centro dell’ ambiente che ora palpita di una luce strana, evanescente. Le ricorda una statuetta della madonna di Lourdes che porto’ la nonna da un pellegrinaggio, piccola, con il piedistallo blu e le mani congiunte al petto. Stava sul cassettone, nella camera dei genitori, accanto a poche foto ingiallite.
Quando erano bambine, spesso lei e sua sorella andavano a salutare la madonnina prima di dormire. La debole luminescenza pareva chiamarle, dal centrino di pizzo bianco e ringraziarle per la visita.
Avverte contro la schiena il pungere di un sasso. Non se ne cura, rapita dal ruotare lento della spirale di api. A un tratto, come al segnale di un maestro d’ orchestra, il movimento rallenta, il brusio s’ addensa al tono sordo di un organo di chiesa e il gorgo cala su Màrika, corposo come miele. All’ ultimo istante prima del contatto, chiude gli occhi e stringe i pugni. Non sa se bearsi della loro presenza o esserne terrorizzata. E’ come se dita microscopiche vellicassero ogni piu’ remoto angolo di lei.
Sono sul viso, sulle labbra e nei capelli ma non prova repulsione ne’ fastidio. Solo pace. Il corpo e’ un lungo cuscino brulicante. Altri insetti si posano, strato su strato, e il cavo della quercia ne risuona al punto che gli uccelli s’ alzano in volo dall’ alto dei rami, spaventati da un tremore che via via aumenta di frequenza. Ci si vede ora, nella grotta vegetale, ma non per merito del sole. Non del tutto, almeno. Dall’ enorme massa di insetti trapela una luce azzurrina, sempre più intensa e vivida. Un velo di vapore sale verso il soffitto. La pianta si scuote e vibra. Una famigliola di scoiattoli scappa terrorizzata, un’ aquila lancia nel cielo il verso che echeggia per la valle e l’ acqua dei ruscelli sembra rallentare. Uomini curvi sul lavoro dei campi alzano gli occhi e scrutano la montagna. Una donna anziana guarda e non capisce. Il fumo s’attarda al culmine dei comignoli, senza disperdersi. Sembra che il mondo trattenga il respiro. Il bagliore tinge di blu e bianco il limitare del prato. Vapore trasuda da ogni crepa del tronco, cosi’ che l’ albero pare un gigantesco covone incanutito. Un refolo di vento scende a spazzare la radura. Nella quercia e’ tornato il silenzio di sempre. Il pavimento e’ vuoto e il corpo di Màrika sparito. Al limitar del bosco un nuovo sciame scivola allegro di fiore in fiore e il sole gioca fra le ali coi mille riflessi di una chioma d’ oro…
Tanto più estendo l’isola della mia conoscenza quanto più scopro aumentare la linea costiera della mia ignoranza.
Marika, signora delle api
Alberto Angelici