"Vajont" ormai è un nome conosciuto a tutti come sinonimo di tragedia, tanto grande quanto evitabile. "Vajont" è la diga che all’epoca sarebbe diventata la più alta del mondo, creando un lago artificiale col monte Tok ("marcio", in dialetto bellunese) per sfruttare la forza dell’acqua e produrre energia elettrica, il sogno dell’Ente nazionale che nasce proprio in quegli anni, a cavallo tra i ’50 e i ’60. "Vajont" è la prima di una lunga serie di opere pubbliche pensate col portafoglio senza tenere conto dell’impatto sociale ed ambientale, coscienze facilmente calpestabili negli anni del dopoguerra, del boom improvviso e trainante.
Il film di Renzo Martinelli, già regista del deludente "Porzus" sullo scontro fra le due fazioni di partigiani cattoliche e comuniste, prova e ci riesce quasi a competere con le produzioni d’oltreoceano, dove anche raccontando fatti di cronaca si tende una mano allo spettatore allietandolo con le emozioni più facili o scontate della storia d’amore o della celebrazione retorica.
Nel 1959 parte la costruzione della diga del Vajont, "la più alta del mondo", come recitano orgogliosamente i progettisti della Sade, la società veneziana promotrice del progetto già destinato in partenza ad essere venduto allo Stato e alla sua società ENEL. Il progetto è ambizioso, i problemi crescono di giorno in giorno ma la sensazione di lavorare a qualcosa di importante fa dimenticare i rischi del lavoro (un operaio precipita nel vuoto e il primo commento del rappresentante SADE è "non è stata responsabilità nostra"), anche grazie al miraggio di una ricchezza promessa a tutta la valle. Mano a mano che il muro cresce aumenta la paura. L’impressione del manufatto incastrato tra i monti è terribile e una spaccatura nel terreno comincia ad incrinare anche il muro di ostentata sicurezza dell’impresa costruttrice. Il film procede poi raccontando parallelamente le trame politiche necessarie per coprire i punti oscuri del progetto e le speranze perplesse della gente di Longarone che legge con preoccupazione gli articoli che l’indomita Tina Merlin (Laura Morante) scrive su "l’Unità". Le voci contrarie alla diga vengono sopite dall’alto, solamente la Merlin e la gente di Longarone ottengono una piccola vittoria controbattendo vittoriosamente ad una denuncia per calunnia che pesa su di un articolo, ma anche dal giornale arrivano segnali di prudenza. Troppo tardi, il 9 Ottobre del 1963, si tenta di abbassare la quota del lago che è di ben 15 metri sopra al limite ipotizzato di sicurezza. Il Tok frana lentamente e la terra trema, qualcuno comincia a scappare, le ore passano lentamente ma, alle 22:39, l’acqua è scesa sì ma liberando la sponda del monte che adesso crolla velocemente. La terra che si getta nell’invaso crea un’onda alta più di 200 metri che scavalca la diga e si frantuma sul paese sottostante, Longaore appunto, causando oltre 2000 molti e lasciando un angosciante panorama piatto e fangoso. Fine della storia.
Il film, ambizioso negli intenti e giustamente pensato per uscire dall’ambito puramente documentaristico dove avrebbe trascorso un breve periodo prima di finire nel dimenticatoio, è un bell’esempio di cinematografia impegnata ma raggiungibile dal pubblico. La narrazione è leggera, senza essere didascalica ma nemmeno leggendaria o inverosimile. Le storie che si annidano nella trama principale non sono originali ma spezzano piacevolmente la sceneggiatura di cronaca. Il geologo intrappolato sulla diga al momento della tragedia chiude il film piangendo sui resti della sua casa e sulla croce della tomba di sua moglie, conosciuta quando era orgoglioso di lavorare alla diga e poi sposata quando già i dubbi erano insopportabili. I vecchi attaccati al paese e la cieca irresponsabilità dei responsabili in abiti di gala tra gli stucchi veneziani sono ritratti forse banali ma efficaci, efficaci perché, secondo me, "Vajont" ha il pregio di non dimenticare una tragedia allargandone la visibilità. Naturalmente, da un punto di vista esclusivamente recensivo, il film di Martinelli ha pregi e difetti. La fotografia, il cast e gli effetti speciali sono di buon livello, il film è costato 18 miliardi di lire non senza una ragione. Daniel Auteil e Michel Serrault danno un tocco internazionale a "Vajont". Poi, certo, si può parlare di retorica alla "Schindler’s list" nella scena finale in cui il vero Montanaer prega sulla tomba di sua moglie, ma nel complesso il film è riuscito, questa volta.
In coda non vorrei dimenticare il messaggio purtroppo ancora attuale delle dighe in costruzione in tutto il mondo, specialmente in Turchia, India e Cina, dove si prevede che gli sfollati, e nel film sono dipinti pietosamente come pietoso è colui che vede affondare la sua casa in un lago artificiale, saranno centinaia di migliaia, dove saranno inondati siti archeologici e campi coltivati, dove ancora non si conoscono bene i veri benefici di queste ciclopiche imprese. Progresso o follia?
Vajont
Benatti Michele