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La mano del Tempo

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La mano del Tempo

Rieccomi qui a spulciare le recensioni di qualche tempo fa…
Questo mese comincio dagli Hardcore Superstar e dal loro Thank You (For Letting Us Be Ourselves), secondo album licenziato dalla punk’n’roll band svedese. Accusati da parte della critica di imborghesimento (per tacere di coloro i quali nel quartetto hanno visto fin da subito una degenerazione glam del movimento scandinavo), Jocke Berg e compagni fornivano in effetti con questo album la prova di un’evoluzione in senso più spiccatamente melodico: tempi moderatamente più lenti rispetto al predecessore, gusto più accentuato per la ballata e produzione più curata testimoniavano la presenza di qualcosa di nuovo sotto il sole. Nel complesso però, per quanto riuscito ed orecchiabile, Thank You non fu un lavoro memorabile: in quanto a potenza pura non regge il confronto con i mitici e seminali Turbonegro (il gruppo norvegese senza il quale tutta la scena street rock dell’estremo Nord si muoverebbe ancora tra i palchetti di oscuri locali di provincia), in quanto a melodia… ehi, qualcuno ha mai pensato seriamente di bussare a questa porta in cerca di ballate acustiche? Effimero, Thank You; però bellino e anche ben suonato, quindi non scartatelo con eccessiva supponenza senza priva avergli dato almeno una possibilità.
Anche gli immarcescibili Bad Religion salutavano l’arrivo del 2002 con un nuovo lavoro, dal titolo The Process of Belief. Recensire un loro album è sempre impresa difficile; per meglio dire, il difficile sta nel non ripetere quanto detto per tutti i precedenti. Esempio sovradocumentato di coerenza musicale ai limiti della fissità, i leader indiscussi dell’HC melodico rappresentano sempre una garanzia. Assorbito senza eccessivi scossoni il passaggio ad una major e l’abbandono di Brett Gurewitz negli anni ’90, i Bad Religion ripresentavano qui in line-up lo storico chitarrista nonché co-autore di buona parte del repertorio. Come riportato in recensione, l’ingresso di una terza chitarra non è andato a modificare sensibilmente l’impatto del sound, quadrato come al solito; parimenti, il contributo di Mr.Brett in sede di scrittura non determina sconvolgimenti tellurici di alcun genere. Pur nel suo estremo tradizionalismo, The Process of Belief risulta a mio parere uno dei titoli più godibili della carriera recente dei Bad Religion. Se piace il genere, può risultare un buon investimento anche sul lungo periodo.
Mi si permetta poi una breve parentesi di auto-incensazione… due anni fa, in occasione dell’allora recente notizia dello scioglimento degli Smashing Pumpkins, scrivevo "se possiamo magari credere a James Iha che ha già dichiarato di voler lasciare il mondo della musica, ci sia consentito di dubitare che [Billy, ndr] Corgan riesca a mantenere fede ad un simile proposito". Ebbene? Sbaglio o il pelato da Chicago è ritornato sul palco con gli Zwan, del cui album trovate la recensione su questo medesimo numero? Intendiamoci, quella messa nero su bianco non mi sembrò allora una predizione particolarmente arrischiata. Ipotizzare che proprio Corgan, forse il più prolifico autore di canzoni di tutto lo scorso decennio, potesse semplicemente spegnere l’interruttore e prepararsi ad invecchiare stravaccato in poltrona sarebbe stato ben più coraggioso; anche se, come i fatti hanno provato, poco lungimirante. Accogliamo quindi il figliol prodigo, che venuto probabilmente a patti con le miserie dello show business ha deciso in ultima analisi di tornare a farne parte…

Fabrizio Claudio Marcon

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