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Diana

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Diana
Ottavo Classificato

Si dice che dalle passioni nascono le ossessioni, e devo ammettere che dalla mia esperienza ho raccolto una particolarissima conferma di questa teoria.
La mia professione è motore e conseguenza delle mie passioni: nella mia cittadina svolgo l’attività di restauratore e antiquario, e mi pregio dell’apprezzamento di molti miei concittadini che considerano la mia attività e abilità degna di rispetto e lode. La pulsione che mi spinse verso questa attività, anni or sono, è la passione per le antichità, ed è grazie al fascino che le opere d’ingegno degli uomini del passato esercitano su di me che ho dato vita ad una collezione privata, mio vanto personale, ammirata da amici e conoscenti; questa mia galleria comprende principalmente piccoli busti marmorei di età ellenica o romanica, di cui ho curato personalmente il restauro.
Una delle mie ultime acquisizioni si pone alla base della mia riflessione iniziale: si tratta di un busto ritraente la dea Diana, opera di uno sconosciuto artista della Magna Grecia, un pezzo notevole principalmente a causa all’espressione della dea. La superba cacciatrice osserva, infatti, chi le si para innanzi con un sorriso beffardo, tipico del predatore che osservi la sua preda, splendidamente riprodotto dall’artigiano che le diede forma dal freddo marmo. Fu proprio l’espressione, alquanto atipica, della dea che mi spinse ad acquisire l’opera ed a destinarla alla mia collezione personale, dirottandola dai canali della vendita cui, altrimenti, l’avrei destinata.
Quando per la prima volta lo portai nel mio studio per esaminarlo, allo scopo di valutare la necessità e l’entità di un restauro, dovetti notare che lo stato di conservazione del manufatto era decisamente buono, tanto che mi stupii di come quasi venti secoli di storia avessero richiesto un tributo tanto modesto, e notai che, in particolare, il lato sinistro del volto era quello su cui si concentrava la totalità degli interventi che avrei dovuto operare. Quella sera stessa, come mia consuetudine, stilai un dettagliato elenco delle operazioni che avrei condotto e dei materiali di cui avrei avuto bisogno; fu in quella notte che ebbe inizio il tormento ossessivo che avrebbe turbato i miei sonni nelle notti seguenti.
Durante le ore di riposo che mi concessi, il mio sonno fu agitato da sogni che ora posso solamente immaginare, tanto fu labile il segno che lasciarono nei miei ricordi: presumibilmente, come poi accadde nelle notti che vennero, il mio sonno, solitamente profondo e privo di sogni, fu turbato da visioni in cui il volto della dea Diana mutava, da benevolo e protettivo, a maligno e carico di odio.
La mattina seguente, la luminosa mattina di una domenica di una tiepida primavera ormai inoltrata, ancora in parte turbato da una consapevolezza che non aveva varcato appieno la soglia della coscienza, provai un certo disagio nel porre mano alla mia opera di restauro, ciò nondimeno, avviai i lavori che avrebbero riportato all’originaria bellezza il profilo sinistro della divinità.
Come ogni artigiano preso da un’attività che coinvolga la sistemazione di minuti dettagli e fini ritocchi, la mia attenzione fu costantemente concentrata sulle minimali imperfezioni cui stavo cercando di porre rimedio, tanto che a stento ricordai di fermarmi per rifocillarmi all’ora di pranzo. Nel pomeriggio, poi, la visita inaspettata di un amico, mi distolse dalla mia attività, che accantonai ripromettendomi di proseguire la sera del giorno seguente, quando avrei avuto un po’ di tempo libero al termine di una giornata passata a curare gli affari della mia attività commerciale.
Per la seconda volta, questa volta appena più vividamente di quanto non fosse accaduto la notte prima, la divinità fece visita, con il suo alternarsi di espressioni serene e terribili, al mio sonno agitandolo appena. Al risveglio, il ricordo di quanto avevo sognato, ancora una volta, non si era fatto strada nei miei pensieri coscienti, ma già cominciava ad attecchire nel mio subconscio, forzandomi a ripensare frequentemente alla mia opera, lasciata a metà, che non vedevo l’ora di portare a compimento; come sempre accade in questi casi però, il destino, sotto forma di un importante restauro di diverse opere che ancora oggi decorano le sale conciliari della nostra cittadina, prese ad osteggiarmi, consentendomi di dedicare solo pochi minuti ogni giorno a quel mio tributo alla dea, facendosi beffe di quell’impulso che, ad ogni nuovo risveglio dopo sogni sempre più agitati, mi avrebbe voluto preso anima e corpo dal mio privato impegno nei confronti dell’abitatrice dell’Olimpo.
Man mano che i giorni, ed in particolare le notti, trascorrevano, i sogni si mutavano in incubi, agitate visioni in cui una dea carica d’odio ed indignazione per la mancanza di fedeltà che le dimostravo, mi rimproverava e malediceva il mio nome, ammonendomi e ricordandomi che, in epoche passate, grandi eroi avevano pagato a caro prezzo offese assai minori.
Presi ad avanzare sempre più a rilento nella mia opera di restauro presso gli uffici comunali, poichè sempre più di frequente trascorrevo le lunghe ed oscure ore notturne al lavoro, cercando di porre rimedio alle offese che il tempo aveva inferto al busto della vendicativa divinità, finchè il sonno non aveva il sopravvento, sprofondandomi in sogni orrorifici da cui non traevo alcun ristoro.
Tale era la suggestione che quel volto cominciava ad esercitare su di me, che un lungo fremito, di ansia mista a paura, mi percorreva ogni qualvolta il mio sguardo, alzandosi al cielo, si posava sul pallore argenteo della luna, astro sacro alla cacciatrice celeste. Ormai percepivo, quasi tangibile e reale, la malignità insita nella figura divina cui era dedicata l’opera cui stavo consacrando il mio tempo, tanto che oscuri riferimenti a blasfemi culti, devoti a maligne trasfigurazioni della divinità greca, mi riaffioravano alla mente in quei giorni, turbando quindi la mia veglia al pari del mio sonno. Cominciavo a chiedermi se, in epoche buie in cui la luce della ragione ancora non era stata tanto potente da dissipare le ombre della superstizione cancellando il ricordo di arcani rituali, su quel manufatto di fredda pietra non fosse stato lanciato un oscuro incantesimo, atto ad imprimere indelebilmente l’immagine della dea nella mente dei mortali, per garantirle eternamente devoti e tremanti fedeli, pronti ad accogliere ogni suo capriccio con atterrita prontezza e lealtà. Tale era il mio delirio che fantasticherie e realtà si fondevano, impedendomi di distinguere chiaramente tra le febbricitanti produzioni della mai fantasia e la realtà tangibile cui, con un ultimo disperato barlume di logica, cercavo di aggrapparmi fino all’ultimo.
Fu in una notte illuminata a stento da un diafano e malato chiarore lunare che conclusi il mio lavoro, e conclusi con esso il mio tormento: fu infatti in quella bizzarra notte che, dopo aver terminato la mia opera di restauro al colmo di una delirante devozione, il mio sguardo percorse l’immagine completa del profilo sinistro della divinità, quel profilo che con tanta fatica avevo sanato dalle piaghe del tempo, quel profilo che, lo notavo per la prima volta solo ora, appariva segnato da un’espressione di puro odio e oscura malignità.
Solo allora notai quella che poi considerai l’origine di quella mia ossessione: i due profili della dea apparivano radicalmente differenti, segnati da due espressioni opposte, una di odio e malizia, l’altra di amorevole e aggraziata gentilezza, due espressioni che, miscelate nella pienezza del volto, attribuivano a quel busto la sua peculiare espressione. Compresi allora che i miei sogni erano stati tormentati da null’altro che un’immagine che la mia mente aveva raccolto ed elaborato a livello inconscio, un’immagine in cui l’espressione malevola del lato sinistro, il lato di cui tanto a lungo avevo osservato solo i dettagli, si era ingigantita cercando di farsi strada oltre le barriere della coscienza, cercando di raggiungere la piena consapevolezza del mio pensiero: tutto quello che mi aveva ossessionato come un volto nel buio, altro non era che un ricordo che cercando di farsi strada, era stato deformato dalla mia mente stanca.


Angelo Strazzella

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