Cammino lentamente scrutando il villaggio giù a valle. Grosse nubi scure lo ombreggiano e qualche goccia ha già cominciato a cadere.
Conosco ogni filo d’erba del sentiero, ogni sterpo, ogni rovo da evitare affinché non ci si impigli il mio vestito nero. I miei piedi affondando ad ogni passo a causa del fango, li sento umidi e freddi, un gelo che sale e mi irrigidisce. Mi stringo nel mantello per non disperdere quel poco di calore che mi rimane.
Sento in lontananza rumori di gente che lavora, ma non una voce riesce a giungere fin quassù, solo il suono del martello e dell’incudine o il nitrito di qualche cavallo che non vuole farsi ferrare. Non ho mai visto nessuno e non mi preoccupo di dare un volto a quei suoni.
Come ogni mattino mi fermo un istante a guardare il convento prima di rientrare. Un’immagine che non cambia mai, rassicurante per questo, con le sue grandi pietre grigie ora bagnate dalla pioggia e l’enorme portale di legno scuro.
E’ su questa collina da sempre, ma non ha storia.
Il tempo è passato senza fare rumore o non è passato affatto e si è fermato in chissà quale giorno di chissà quale anno. Non fa differenza per me. Anch’io non ho storia, anch’io sono qui da sempre.
Deposito a terra in un angolo della mia cella, il cesto con le erbe, le bacche e le piante che metterò a dimora. Mi piace il tepore che infondono questi muri ruvidi e irregolari, mi rasserena.
Trovo riposo sulla vecchia sedia impagliata in attesa di ricevere il mio pasto. Un tocco leggero alla porta e so che qualcuno ha lasciato un pane caldo sopra la ciotola di legno colma di latte.
Mondo i calzari e i piedi dal fango e dall’erba, per sentirmi degna di consumare ciò che ogni giorno mi sembra un dono grande quanto misterioso.
L’ultima consorella si è addormentata per sempre due anni fa e da allora sono rimasta sola a vagare fra queste mura e nessuno del villaggio è mai salito sulla collina.
Stringo il legno caldo del latte senza chiedermi più nulla, senza la paura che a volte mi assaliva, senza ansia, e guardo attraverso le sbarre della piccola finestra.
Il cortile ha al centro un pozzo da cui attingo l’acqua e dietro, sotto il porticato che lo circonda, vedo le porte di chi mi ha lasciato, chiuse per sempre.
Intorno al pozzo c’è quanto rimane di un piccolo giardino che un tempo forniva i fiori per l’altare della cappella e che ora mi accompagna per la continua crescita di erbe selvatiche.
Ritorno con lo sguardo al tavolo consumato dal tempo, levigato dei gomiti. Passo molte ore qui seduta a ricopiare in bella grafia, antichi libri e pergamene.
Un lavoro senza forse più importanza ma che insieme agli altri piccoli gesti quotidiani da un senso alla mia esistenza.
Osservo il giaciglio con l’impronta del mio corpo e penso alle notti trascorse con gli occhi al soffitto senza decidermi a spegnere la lampada ad olio, come per timore che le mie ombre sul muro potessero prendere vita e turbare il mio sonno.
Ho imparato a muovermi piano, con cautela, per non infrangere questa assoluta mancanza di rumore, per rispetto, per obbedienza.
Penso al mio malessere diffuso che a volte mi toglie le forze e che anche ora impone di appoggiarmi. Un dolore strano, difficile da spiegare, un dolore d’anima ma allo stesso tempo vivo, carnale.
In silenzio dissodo le zolle nell’orto, lo preparo all’inverno che sta per arrivare, raccolgo i frutti che la natura mi offre per parlarmi, per farmi capire qualcosa di più grande, di divino.
Questi piccoli gesti che il destino mi mostra ogni giorno mi rendono concreta. Un istinto di sopravvivenza che prevarica su un’anima stanca a cui nessun dio si fa più presente.
Mi fermo in questo ritaglio di povera terra, contro il vento, ad occhi chiusi a pensare, piccola donna sola, infinitesimo dell’universo sopra di me.
Il vento mi ridona la mia immagine, senza bisogno di toccarmi, il vestito si stampa contro il mio corpo. Lo sento vivo e lo immagino per intero, nudo.
Immagino il mio viso che non ho mai visto riflesso se non negli occhi delle mie consorelle.
Non riesco a trattenere i sentimenti dell’anima, a farli tacere e calde lacrime mi rigano il volto. Aspetto che il vento se le porti via insieme ai pensieri e rientro nella mia tana.
Il tempo scorre, a volte veloce, a volte lento, mi scivola addosso levigandomi come un sasso di un fiume. Non ho passato, sono sempre ferma al presente, sempre mi viene incontro il futuro.
Giorni di sole, pioggia, nebbia e neve si alternano a notti serene o burrascose, è un continuo ripetitivo succedersi degli eventi che cambiano rimanendo gli stessi.
Anch’io sto cambiando e sono ogni giorno più stanca, più cauta.
Aspetto con sempre più inquietudine il mio pasto caldo, una presenza di cui non potrei fare a meno.
Oggi il sole è spuntato timido dietro il villaggio. Sono andata a pregare.
Un raggio di luce penetra dalla finestra sopra la porta della cappella e illumina l’altare. Non mi sento più sola, è anche questo un segno della presenza divina.
Eppure nessuna preghiera riesce più a sollevarmi, nè ad alleviare il mio dolore sempre più intenso. Canto parole che riecheggiano fra le parei affrescate e la volta di travi, fra le panche vuote e tristi e questo mio petto affannoso.
Anche questo non mi dà conforto.
La religione era la mia vita stessa, una certezza, un baluardo, una risposta ad ogni dubbio. Non potevo immaginarmi senza questo scudo sicuro che mi proteggeva dal mondo.
Non potevo immaginarmi nel mondo oltre questo dolce pendio. Mi invade un senso di colpa perché niente riesce più a calmare la mia ansia.
Ho perso il senso delle dimensioni, tutto troppo piccolo, tutto troppo grande.
La mia mente vaga da un pensiero all’altro senza darsi pace. Mi affanno a rialzare la mia divisione dal mondo aggiungendo sassi e fango al recinto dell’orto. Mi sento sfinita, svuotata, diversa, anche se non so da chi o da cosa.
Ho notato stamattina che le montagne e i boschi intorno hanno cambiato colore.
L’inverno è già qui, sulle cime c’è la prima neve, fra la nebbia si scorgono i rami scheletrici degli alberi. Gli uccelli che non sono migrati al caldo volano alti in cerca di cibo che non c’è.
Ogni giorno conservo un pezzo del mio pane, lo lascio a terra qualche metro davanti al portone e aspetto. Un gatto selvatico viene a mangiarlo avidamente.
Fra i miei piccoli rituali quotidiani questo è quello che preferisco, mi identifico in esso.
Lo osservo a lungo, non si fa avvicinare.
Prima di andarsene mi guarda, io gli sorrido e sono di nuovo solo, senza identità.
Mi sento come questa nebbia che tutto avvolge e lascia il suo vapore su ogni cosa.
Sono anche quel vapore, microscopica particella d’acqua che si confonde, si dissolve, si trasforma. Non so individuarmi.
Sento il mio mondo restringersi di giorno in giorno. Sono divenuta essenziale.
Da qualche tempo non ho più bisogno di leggere, di scrivere, di pregare.
Mi guardo intorno e penso. Ogni cosa mi da gioia.
Sento una forza dentro che identifico con l’amore e mi impedisco di pensare a quel dolore che cresce e lievita come i germogli che stanno spuntando dalla terra per la primavera che viene.
La primavera. Sembra così lontana quando comincia il freddo che sempre mi stupisco dei primi tepori e delle meraviglie che sa offrire.
Rientrando stamattina non ho potuto trattenere un fremito notando nel piccolo giardino un fiore che ieri non c’era. E’ un piccolo fiore bianco di una specie che non riconosco simile ad un giglio, perfetto.
Mi rammarico di non averlo visto crescere, di non aver seguito la sua evoluzione – me lo ritrovo qui senza sapere da dove viene. Mi piace pensare che sia spuntato per me, per alleviare la mia solitudine.
Mi aggrappo a tutto ciò che mi circonda.
Mi ritrovo di nuovo nella mia cella a pensare consumando il mio pane quotidiano. Conservo il latte che più tardi darò al gatto.
Guardo il mio orto che sta diventando ogni giorno più verde e ignoro il significato di questo sentimento di nostalgia che mi pervade.
La mia cella mi sembra disabitata da tempo, il letto vuoto sembra abbandonato, i libri impolverati, i muri più scheggiati.
Penso a queste cose un’umile mente non sa dare risposta. Anche al gatto che mi sta aspettando non so dare risposta. Qualcosa sta cambiando e non so cosa.
Dopo aver bevuto il mio latte mi si è avvicinato piano e ha allungato il collo per annusare l’orlo del mio vestito. Non ho il coraggio di muovermi per non farlo impaurire, intimorita io stessa.
Le campane del villaggio stanno suonando a festa ed ho come l’impressione che anche quella cappella faccia sentire il suo rintocco forse per un gioco d’eco.
Il gatto è ancora qui seduto davanti a me come se aspettasse. Mi chino adagio e allungo la mano per toccarlo, un contatto vivo di cui ignoro la sensazione.
Avanza ora di qualche passo e si volta ripetutamente come se volesse essere seguito. Non mi trattengo dal farlo.
Non so da quanto tempo cammino e dove sto andando ma continuo a camminare. Mi sento bene.
Quando la luce mi avvolge e mi porta via sono felice.
Felice di non aver vissuto invano.