Ormai ho fatto l’abitudine a questa bianca stanzetta. I medici non mi danno piu’ neanche tanto fastidio e ho fatto amicizia con un paio di infermiere, senza contare quel ragazzo che fa del volontariato il
Venerdi’ o il Giovedi’ pomeriggio, non riesco piu’ a ricordarlo…
Il mio tempo e’ ormai scaduto, il mio corpo e’ piu’ o meno uno scheletro, e mi viene spesso da pensare a una predica di un prete che ascoltai tanto tempo fa e che raccontava la storia di un ragazzo di vent’anni, proprio come me, che a causa della lebbra era messo anche peggio di me, ma che continuava a vivere col sorriso sulle labbra, e piu’ ci penso e piu’ mi fa male perche’ lui semplicemente non se l’era cercata, io si. Allora un giorno ho pensato di impiegare queste mie ultime forze in un modo piu’ produttivo, e, bloccando il buon Gian
Carlo, il ragazzo del volontariato di cui sopra, ho iniziato a dettargli queste poche pagine; Ad essere del tutto sincero non l’ho fatto solo tipo “monito alle future generazioni” per non ripetere i miei stupidi errori di ragazzo immaturo, ma anche per sfogarmi un poco.
In questi momenti mi vengono in mente le parole di una canzone che tradotte piu’ o meno bene significano:”la gente dice “non preoccuparti”, dice che questa volta c’e’ una perfetta medicina, che gli incubi finiranno. Non posso sentire quello che dicono, vivo nel mio mondo.”
Quando ero piu’ giovane pensavo che quello che facevo fosse la medicina per la mia vita che non andava. Ma gli incubi non finiscono mai, non finiranno mai, almeno se imbocchi la strada che ho imboccato io. L’unica soluzione e’ uscire dal mondo che prima o poi ognuno di noi finisce per crearsi intorno, e non crearsene altri che finiranno solo per crearti problemi ancora piu’ grossi. Magari, se ci fossi arrivato prima, non sarei dove sono, ma sono in ogni caso sereno per il semplice motivo che forse penso che questa sia piu’ o meno uno giusta punizione per una persona che oramai i suoi genitori definiscono “tossico” e non piu’ “figlio”.
E sopratutto perche’ spero, o per meglio dire so, che fra poco arrivera l’Uomo del Sonno a prendermi per sempre…
Il paesetto dove sono nato non mi ha mai dato niente di particolare.
Da piccolo amavo girare nel mio giardino e osservare il verde delle foglie in primavera: a dire il vero sentivo la mancanza di una persona con cui divertirmi, con cui spartire lo stesso verde delle foglie che mi piaceva tanto, di un amico; ma se da una parte i miei genitori non si decidevano a darmi un fratellino, dall’altra abitavo nella zona piu’ sperduta del mio paese e, quando iniziai ad andare a scuola, c’era la combricola degli amici che si conoscevano dalla nascita, e poi c’ero io. A volte si tende a sottovalutare la crudelta’ dei bambini, e magari, quando si e’ grandi, ci si ride sopra, pero’ io ricordero’ sempre il disprezzo con cui mi guardavano quei bambini di cui non ricordo nemmeno i nomi. E poi arrivo’ quel giorno…
Avevo portato a scuola delle figurine di giocatori di calcio a cui tenevo molto.
Le feci vedere, orgogliosissimo, ad alcuni bambini che mai prima di quel giorno si erano dimostrati tanto amichevoli nei miei confronti: usci’ da scuola felice come non mai, ma mentre aspettavo l’autobus tre di quei bambini mi si avvicinarono e, dopo avermi portato nel campetto sportivo della scuola e pestato, mi rubarono quelle figurine.
Arrivai a casa che non c’era nessuno, e iniziai a piangere e a tremare fino a quando non sveni’ sul mio letto; nella mia giovane vita non avevo mai provato ne il disprezzo, ne il terrore, ne l’umiliazione che quei tre bambinetti mi avevano fatto subire a mie spese, e decisi che non sarebbe piu’ successo, mai piu’: dentro di me cresceva un sentimento mai provato prima, una rabbia che superava la rabbia, un desiderio di provocare paura e dolore col solo sguardo che piano piano si impossesso di me. E il giorno dopo arrivai a scuola con un tubo di ferro che avevo staccato da un termosifone in una casa abbandonata poco tempo prima, e che mi ero riproposto di usare come torre in un plastico che avrei realizzato prima o poi, e che non fu mai piu’ realizzato.
Non dimentichero’ mai la sensazione di piacere, quasi erotica, che provai nel picchiare a sangue il piu’ forte di quei bambini. Ora che sono piu’ grande mi rendo conto di quanto fosse esagerata quella reazione, che tra l’altro mi cambio’ abbastanza radicalmente la vita, ma, nella furia di animale ferito dal disprezzo, mi era impossibile evitarla.
Chiaramente si disse che quel bambino era caduto dalle scale e questo mi fece sentire come un miliardo di chili di tritolo pronti ad esplodere: sapevo che tutti sapevano, anche le stesse maestre che ora guardavono quel bambino che “era sempre stato tanto buonino” con paura, o almeno penso che fosse paura la sensazione che provavano quando alzavo solo minimamente la voce e che le dipingeva un velo di non so che cosa negli occhi, e cio’ equivaleva a dire che se tutti in una scuola avevano paura di un cinno di 10 anni, potevo fare quello che volevo.
Iniziai ad amare il rispetto che tutti incomincirono a dimostrarmi me, anche se era solo dettato dalla paura che incutevo e, in cuor mio, almeno questo lo sapevo benissimo e cosi’ alla fine delle elementari mi trovai carico di una quantita’ di amici incredibile; questi, che si consideravano miei amici, li disprezzavo ancora di piu’ di quelli con cui finivo a fare a botte: sapevo che mi tenevano buono solo perche’ gli avrei parato il culo in qualsiasi guaio si fossero cacciati e percio’ iniziai a sentirmi superiore a loro in modo incredibile; questo equivale a dire che li trattavo piu’ o meno come schiavetti personali, pena dolore fisico piu’ o meno elevato. Se penso che adesso non potrei piu’ vivere, nel vero senso della parola, senza quelle poche persone che ritengo veri amici mi sale una tristezza infinta su dallo stomaco e mi si forma un nodo in gola cosi’ grande che fin quando non mi sfogo piangendo, mi sento un rifiuto umano…
Le cose alle medie non andarono certo meglio, se non che iniziai a scoprire quell’universo di divertimento che fino ad ora non avevo minimamente considerato, cioe’ l’universo musicale: ho splendidi ricordi di pomeriggi in camera mia a suonare la chitarra mentre ascoltavo le cassette che regolarmente mi passavano dei miei “Amici”, e questo mi rendeva immensamente felice. A volte avrei voluto che quei pomeriggi fossero durati tutta l’eternita’, per non farmi tornare in quella scuoletta di paese che avevo iniziato ad odiare dal profondo del mio cuore e che mi aveva trasformato in quella specie di Innominato di Manzoniana memoria che tanto spaventava ragazzi e professori.
Dopo tre anni che passarono incredibilmente veloci mi iscrissi al
Tecnico, non convintissimo della mia scelta, ma sicuro che non avrei avuto enormi problemi.
Inoltre mio padre desiderava che io seguissi le sue orme negli affari e per diventare un buon ingeniere quale era, avrei dovuto fare il
Tecnico.