al felice congedo del cap. Alessio
C’era una serie di cose che riusciva a deprimermi. Ma la più fastidiosa, senza dubbio – certamente -, era di aver esaurito gli spunti autobiografici per i miei lavori. Non avevo più di niente da raccontare, nulla da scrivere sulla mia vita. Non che i miei testi fossero apprezzati da un pubblico largo – anzi -, purtuttavia l’esaurirsi degli spunti era, per uno scrittore del mio calibro, un particolare piuttosto frustante. Possibile che non ci fosse nulla (di quello che facevo) che valesse la pena di essere raccontato?
No, non c’era. Questo era il punto, questo era deprimente. Tra l’altro – di più – stavo svolgendo il servizio militare, su cui nulla e che nulla era interessante da ricordare. Ridi, il caporale congedante che avrei sostituito, dopo una settimana di affiancamento mi ordinò di seguirlo alla finestra del (SUO) ufficio. La nostra palazzina dava su un viale alberato di Bologna. Era una splendida giornata. Sotto di noi, al di là del filo spinato, macchine colorate sfrecciavano (pulite) grazie a tecnologiche marmitte, pastori tedeschi espletavano funzioni nelle aiuole a loro riservate, allegri bambini passeggiavano assieme a nonni compiaciuti, graziose fichette dalla minigonna di pelle si attardavano (per un rapido sguardo) alle vetrine dei negozi di abbigliamento. “Vedi” Ridi mi disse, “tra qualche tempo, diciamo verso il (TUO) quinto o sesto mese di caserma, in un pomeriggio inoltrato, sul primo imbrunire, ti affaccerai casualmente a questa finestra, e ancora più casualmente vedrai passare su un motorino traballante un extracomunitario butterato sporco e sieropositivo.”
“…”
“ebbene?”
“…”
“Ebbene, TU invidierai quell’uomo.” Erano questi particolari a deprimermi. E non avevo più niente da raccontare. Il mio pubblico – di più – pensava di avere a che fare con uno scrittore minimalista, un dannato figlio di puttana che non sapeva scrivere altro che di sesso o di violenza. Era un pubblico cazzuto, un pubblico che si aspettava qualcosa, che non potevo deludere con una storia qualunque. Avrei dovuto inventare qualcosa di nuovo, con sorelle stuprate o bambini assassini, di quelle incredibili avventure che si vedevano (allora) su
Italia 21 o – più in generale – sulle televisioni di Arrivoni, un riccone che si era (persino) dato alla politica. Ma, contrariamente a quello che si pensava, quelle storie non destavano (in me) alcuna emozione. Per quanto possa sembrare banale J. Bach sr. è buono, Katherine Mansfield è grande, l’amore con la persona del cuore
è fantastico, e sono queste cose, totalitarie nel dipingere la vita ma
(spesso) insignificanti nel colorare un breve racconto, a causare quella piacevole mancanza d’ispirazione che caratterizza un momento positivo.
8 (mesi) all’alba
di Raffaele Gambigliani Zoccoli