Era un giorno come qualsiasi altro, quando il Signor K. scomparve. La gente aveva trovato il suo appartamento apparentemente in ordine, non fosse stato per qualche accessorio da toeletta fuori posto, come fosse stato usato e mai più rimesso a posto.
Uno strano odore di mandorle amare aleggiava nell’aria, non tanto strano, dacchè molti giuravano che quell’odore era caratteristico della casa del Signor K.
Rimanevano ora soltanto gli sporadici ragni nei cantucci, intenti a tessere la loro tela destinata ad inglobare tutto lo spazio circostante, i cotton fioc che facevano capolino dai loro recipienti, i flaconi d’acqua di colonia che sbirciavano dallo scaffale del bagno, i pettini e le spazzole adagiate sulla mensola, le scope e l’aspirapolvere impettiti nel ripostiglio, la pendola, che pur funzionava, che si stagliava contro la parete nord del salotto, l’enorme faccia spenta della televisione della cucina, gli occhi dilatati dei pomelli del gas, i centrini sulle poltrone ed i tendaggi a drappo che dalle loro larghe spalle si lasciavano sfuggire segni di noncuranza, ad incontrare gli sguardi della gente che osservava l’appartamento vuoto attonita, inebetita, intenta a squadrare quegli oggetti quasi li ritenessero depositari di una verità che erano ansiosi di conoscere, traendone solo un muto assenso.
Chi fosse in realtà il Signor K., intendo quando era ancora tra noi, cioè quando nessuno, paradossalmente, sapeva della sua esistenza, sovveniva loro solamente ora, o meglio così erano convinti gli osservatori. Un alone di indeterminato si era abbattuto sulla città intera, il giorno non particolare della sua scomparsa. Non che la vita normale si fosse interrotta, no, questo no di certo, ma la monotonia del tran tran quotidiano era stata in un certo senso violata, una sensazione indefinita di mancanza aveva spinto alcuni inquilini a bussare alla porta dell’appartamento del Signor K., all’interno 212 di via Byron n.78a, e, non ottenendo risposta, a forzare la serratura per entrarvi.
Nessun annuncio ufficiale era stato dato della scomparsa, eppure una turba di persone, persino la Polizia, si stava accalcando di fronte alla sua porta, incredule, incapaci di realizzare. Nel frattempo, le voci si moltiplicavano, l’esistenza del Signor K. stava prendendo corpo agli occhi di tutti, la sua sagoma, dall’oblio in cui era sepre stata lasciata, si stava delineando. Era pur buono, il Signor K. Che ingiustizia, sono sempre i migliori ad andarsene per primi. Non era nemmeno sposato, neppure bambini solcavano i pavimenti di questa rispettabile casa.
Il signor K. possedeva beni immobili per miliardi, azzardava un’altra voce, sarà sicuramente fuggito col gruzzolo in terre lontane, ma nessuno che avesse mai visto una lira per poterlo confermare era presente.
Io lo conoscevo bene, sentenziava una vecchia signora col colbacco di pelliccia, era un poco di buono, sempre a tirar tardi con le prostitute, non escluderei che controllasse chissà quali loschi affari.
Al dipartimento di glottologia dell’Università sentiranno sicuramente la sua mancanza. Certi suoi saggi sulla pragmatica delle lingue scandinave sono stati d’importanza fondamentale per il progresso della medesima. Mafioso. Era anche lui un mafioso come tutti oggi. Non uno che se ne salvi. Brutto mondo, uno in meno. Meglio così. Ma che dice costui?, interloquì un giovane sui ventidue, K. era un mio compagno di facoltà, a Chimica. Gli ho parlato solo un paio di volte, non era granchè espansivo. Però una volta ha rovesciato la beuta dell H2SO4…
Nonostante tutto aveva intuizioni a tratti geniali. Mi chiedo come cazzo facesse a vivere in questo posto da solo. Non mi risulta lavorasse. Da dove prendeva i soldi? Sì, può darsi che abbia ragione lei, signore col sigaro in bocca, forse era un mafioso davvero.
Alcuni fogli e buste, forse avvisi di pagamento o bollette da pagare, possibili comunicazioni bancarie giacevano ordinatamente sul mobiletto d’ingresso, ma a nessuno venne in mente di ispezionarne il contenuto; ormai il loro esserci era ovvio. E, sebbene ciascuno di loro si esercitasse in supposizioni simmetriche, divergenti, mai congruenti fra loro, tutto andava a comporre, come un in un gigantesco mosaico, il ritratto del Signor K., le immagini contrastanti, la ricchezza delle possibili raffigurazioni si sintetizzava in un quadro pi complesso, unitario. Rimasero là ancora un bel pezzo, prima che la polizia li sfollasse, nuova gente dava il cambio alla vecchia, vicini di casa, negozianti, avvocati, operai, tecnici della televisione, spazzini, gente varia. Poi l’appartamento venne chiuso, e la polizia, così venne detto, si assunse il compito di indagare. La vita aveva ripreso il suo corso, ma il Signor K. era ben lungi dall’essere dimenticato. Nessuno, nessun abitante della città riusciva a rassegnarsi a che non ci fosse più; la morte ormai è un concetto del patrimonio comune degli uomini, intere generazioni sono trapassate e sono state puntualmente dimenticate, come acqua sotto i ponti sostituisce altra acqua, così fiumi di uomini hanno ricambiato il loro corso; la loro memoria si è conservata per un breve lasso di tempo, quindi anch’essa è caduta nell’oblio, nessuno che si ricordi che qualcuno degli altri sia mai esistito, il tutto dimentica il nulla il nulla dimentica il tutto ma non il Signor K. Ciascuno dei presenti, prima di addormentarsi, rivolgeva il suo pensiero al Signor K., con lo struggente interrogativo nel petto; i cattolici più osservanti raccomandavano al Signore la sua anima, o la sua protezione qualora fosse ancora vivo, altri chiedevano per lui la giusta punizione per la sua proverbiale malvagità e le sue assodate ruberìe, altri ancora, in uno slancio umanitario più agnostico speravano che un giorno potesse ritornare tra la gente o che non facesse più vedere il suo brutto muso, o qualora lo ritenessero già morto, speravano fosse trapassato serenamente o tra sofferenze laceranti, a seconda appartenessero alla fazione dei benpensanti o meno mentre i Buddisti tentavano di scoprire in ogni angolo del mondo visbile l’ente in cui si potesse essere reincarnato, altri ancora tremavano al pensiero che potesse nascondersi dietro la porta di casa loro pronto a tendere un agguato.
I passanti che si trovavano a transitare nei pressi di via Byron volgevano occhiate sospettose alle finestre semichiuse dellÕinterno
212 del numero 78a, pronti a registrare ipotetiche variazioni della luce interna, per quanto il vetro della finestra fosse quantomai opaco, imperscrutabile; i loro occhi si sforzavano di notare se da un giorno all’altro la serranda, sempre a mezz’asta, si fosse alzata rispetto al davanzale. Chi poteva, cio i coinquilini o i più audaci che si spacciavano al portiere come visitatori occasionali, origliava alla porta dell’appartamento del Signor K., o meglio che gli era appartenuto, che era stato preso in affitto o addirittura stato occupato abusivamente dal Signor K. (le versioni sul suo statuto giuridico fiorivano come muffa su pane raffermo), in trepida attesa di un rumore, un respiro, un segno di vita, di presenza, una variazione di pressione, di temperatura, di volume, uno spostamento d’aria che facesse sollevare il pulviscolo che oramai stagnava multistrato sulle suppellettili, qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse l’incertezza di un destino sconosciuto di cui tutti volevano simbolicamente impossessarsi. Il tempo aveva assunto una scansione particolare, ora esisteva il tempo prima del Signor K., di cui nessuno si ricorda, poichè il Signor K esisteva solo per sè stesso, cioè quel Nulla che solo dopo il suo simbolico suicidio, o scomparsa, o morte, aveva preso forma agli occhi del tutto di cui essso stesso non aveva mai fatto parte, se non ora che, fisicamente, sÕera azzerato, volatilizzato, dileguato, senza lasciare tracce o reliquie. La polizia, infatti, nel suo appartamento, non aveva trovato impronte digitali, nè orme, nè avanzi di cibo, nè documenti – i fogli rinvenuti sulla mensola dell’ingresso risultarono essere messaggi promozionali pubblicitari, e le buste si rivelarono solo buste: il contenuto era stato accuratamentre asportato, senza che vi comparisse intestazione alcuna.
Gli effetti personali rimasti offrivano ben pochi appigli per la sua identificazione. Tutti si parla del Signor K., ma lo si fa più per abitudine, più per la tendenza sessista insita nel linguaggio; nulla vieta che il Signor K. fosse in realtˆ una Signora K., in realtˆ cÕera chi era propenso a pensarla a questo modo, il punto non era quello.
Egli, ella, o esso era diventato un’entità flessibile, pronta ad essere informata dalla volontà comune; il Signor K., ora che, smaterializzandosi, era emerso dalla nebbia dell’indeterminato, consisteva in ciò che la gente voleva che fosse, nella convinzione che gli altri avevano di lui. Una sorta di aspettativa che altro non attendeva che di venir tradita.E il tradimento, dopo lÕincertezza dei giorni trascorsi nel forse, nella supposizione, nella camera oscura, nel ricordo dell’inesistente, colpì con precisione spietata, tra i curiosi, gli avidi, i ricercatori, i pensosi, i demotivati, i persi, gli annoiati, i critici, tra i magnati della finanza che cercavano di accaparrarsi le sue azioni quotate in borsa a cifre astronomiche, tra i sultani dei mass-media che ordivano arcane trasmissioni dedite alla raccolta di istantanee dell’agognato uomo, informazioni tese a far luce sulla sua scomparsa o ad accertarne l’attesa-temuta morte, tra le vedove vestite di nero che a centinaia infestavano i cimiteri, chine su lapidi che recavano il nome del Signor K., scomparso in un giorno come qualsiasi altro, da un appartamento come qualsiasi altro, lasciandosi dietro una scia di ignoto che aveva improvvisamente aperto gli occhi alla gente qualsiasi sulla sua esistenza.
Era un giorno come qualsiasi altro quando all’interno 212 di Via Byron n.78a, lo squillo assordante di un telefono sferzò l’aria e la polvere ma non l’oblio, che copiosa in strati velava i mobili dell’appartamento del Signor K. Di nuovo quella strana sensazione di vuoto riempito si impadronì degli astanti, che si videro spronati a sfondare la porta per penetrare nell’abitazione, a dispetto del sigillo apposto dalle autorità; la gente per strada sgomenta, attonita, persa con lo sguardo in trepidante attesa verso l’alto.
Terrore era, ciò che si era mischiato allo stato d’animo dei presenti; il trillo del telefono aveva squarciato il silenzio, fesso la coltre di nebbia sotto cui tutti ora avevano trovato una ragione di vita, rimbombava nelle loro teste come un martello pneumatico in un tunnel del metrò. Finalmente, uno di loro si scosse, ruppe gli indugi e pieno di frastornata speranza accostò l’orecchio al ricevitore.
Pronto? disse. Silenzio. Solo il ronzio del microfono. Solo dopo qualche secondo una voce che sembrava scaturire dal niente ma evidentemente emessa da un essere umano sussurrò: Sono io! Per un attimo il sangue dei presenti sembrò raggelarsi, il tempo si contrasse per un istante. Poi, di nuovo, il nulla.
Ultimato il 28 Luglio 1993, ore 23: 01