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Ad Istanbul, tra pubbliche intimità – Enrico Pietrangeli

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Edizioni Il Foglio – 2007 – 10,00 Euro

 
Un tuffo “critico” nel profondo di alcune poetiche dell’otto-novecento, massime la deriva decadente, da Baudelaire in poi, passando per Kavafis, fino all’ ermetismo nostrano, è quanto sorprendentemente ci aveva rivelato  Enrico Pietrangeli nella sua prima raccolta poetica: Di amore, di morte. In questa sua seconda silloge, Ad Istanbul, tra pubbliche intimità, la medesima  indagine diventa in qualche modo ancora più vasta ed incisiva, a tratti “impietosa”, vista com’è dalla primaria angolazione di una propria infanzia usurpata, o  comunque spossessata, dai detriti di quanto di  più ideologicamente funesto in quelle poetiche era contenuto. Pietrangeli, non senza una  sua lucida quiete, ci fa avvertiti di quanto irrimediabilmente abbia dovuto esperire l’ideologia negativa di quelle poetiche, come persona e soggetto “storico” innanzitutto, prima ancora che come lettore. Sente la costitutiva inaccettabilità di quei “movimenti” letterari, nella loro più intima  essenza-causalità, come nesso di morte e poesia, di gloria mitica da una parte e devastazione dell’immagine dell’uomo dall’altra. Valga su tutto, a dimostrazione di un persistente quanto ineludibile sostrato ermetico nelle esperienze poetiche degli anni settanta, il grido  ungarettiano, invero a sua volta di già fortunatamente di un ordine restaurativo petrarchesco, con cui si aprono le Invettive e licenze bellezziane: “Ma non saprai giammai perché sorrido”. Da qui l’affondo di Pietrangeli nell’ermetismo si spinge storicamente nelle sue più lontane e smarrite sedimentazioni, dove gli avviene di sondarne inquietanti implicazioni con l’esperienza totalitaria del Novecento – non sarebbe poi tanto casuale la prefazione di Mussolini a Il porto sepolto, come il montaliano “ciò che non siamo” rivolto alla dittatura non andrebbe oltre l’ipocrisia “liberale” di un flatus voci;  la vera resistenza “epocale” semmai è stata quella di un Rebora, di uno Sbarbaro, di un Campana, fino alla definitiva disfatta dell’ermetismo operata da La libellula di Amelia Rosselli, e saremmo di già nel 1958, ma si stenta a prenderne atto -.  Dell’ideologia ermetica Pietrangeli riattraversa l’origine cabalistica quattro-cinquecentesca, indugia doverosamente su alcune tra le molte caratteristiche che la legano alla cultura alessandrina, da qui estendendo la propria indagine fino al punto critico – per l’Impero e per ogni singolo individuo – di Bisanzio-Costantinopoli; di poi risale alla fenomenicità prima di quella scissione che fu il colpo di lancia, davvero una primeva  “finzione” totalitaria, che la cabala ermetica inflisse al corpo di leggi mosaico della Thorà. Da questi poemi, così altrettanto dimessi nella nudità dello stile, quanto incisivi nella visione della catastrofe, sembra che ci parlino ancor più gli occhi di Antonietto, il figlioletto morto di Ungaretti;  sembra di ascoltare ancor più le voci dei giovinetti scampati ai disastrosi “idilli” di Penna, a quella sua finzione di ontologia pitagorica su di cui anche noi ci eravamo dapprima illusi, come catturati dalla banalissima mimesi ermetica del suo “tuffatore”. Il libro invece, questo libro, si chiude sommessamente e si  posa su quel po’ che di un vivo Mosè è stato dato di salvare da tanta “grafica onnivora”: “Mosaic, suo primogenito,/nel pieno di beltà/giace archiviato,/ricordo sopra un tempo/non ancora compiuto”.    

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