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L’Isola di Arturo – Elsa Morante

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VACANZE DEL CUORE

 

Non perché l’arcipelago campano, comprendente l’isola di Procida (meno famosa delle sue consorelle Capri ed Ischia, ma ricca di fascino anch’essa) – non solo ambientazione, ma anche coprotagonista della storia di Arturo Gerace – evochi atmosfere vacanziere, che ho deciso d’intitolare come sopra il presente commento.

Vacanza va qui intesa come vacatio, come soluzione di continuità, come pausa esistenziale che rimandi il più possibile la presa di coscienza che la vita vera si svolge ed è altro da Procida; che la realtà è altra da quella che il protagonista Arturo si è costruito, in maniera idealista, quasi schizoide, durante i primi sedici anni di solinga vita nella casa dei guaglioni, antica residenza di un eccentrico, cinofilo quanto misogino e maschilista, con più di qualche nuance omosessuale, forse addirittura pederasta, commerciante del settore che chiameremmo import-export: Domenico l’Amalfitano.

 

Costui, la cui figura è ambiguamente rievocata dal melodrammatico sangue misto Wilhelm Gerace, biondiccio Dio Padre di Arturo il moro, sviluppò, negli ultimi anni di vita, una morbosa predilezione proprio per questo nevrastenico ragazzetto di padre procidano e di madre tedesca, facendo di lui un ereditiere parassita, che solo la trasfigurazione di Arturo riesce ad idealizzare come il prode guerriero che va e viene dalla casa dei guaglioni quando più gli aggrada, lasciando il figlioletto neonato a balia da un balio: Silvestro, che poi partirà soldato per poi riemergere nel finale, a chiudere l’ennesimo cerchio dell’ennesima grecità.

 

E proprio da tragedia greca è l’andazzo di questo irritante ma struggente romanzo, che riesce a ricostruire le atmosfere omofile maschili dell’antica Atene neanche la Morante avesse viaggiato con la macchina del tempo, e parlato con qualche allievo di qualche Maestro, innamorato di quest’ultimo e del mito dell’Eroe, l’ipervirile guerriero che vede la donna solo come un’incubatrice vivente. E la donna di conseguenza come una reclusa vive e deve vivere; e come una minorata mentale libidinosa da velare.

Ma quest’ultimo aspetto è più presente in Gerace senior (Wilhelm) che non in Arturo, Gerace junior fino a quando la giovane matrigna Nunziatella non avrà partorito Carminiello Arturo, incipiando nel primo Arturo un anelito al ne bis in idem, causa non secondaria della successiva di lui partenza dal limbo procidano.

Arturo, infatti, nella sua psiche, modellata da letture di gesta eroiche così come dalla straziante sindrome abbandonica nei confronti di una madre che morì partorendolo, coltiva sensibilità, sensismo ed intuizioni ferine e ferrigne, molto più femminili di quanto egli stesso possa rendersi conto.

Compreso l’innamoramento – da perfetto manuale di psicanalisi – che l’adolescente moro sviluppa nei confronti di Nunziatella, matrigna praticamente coetanea, mollata anch’ella nella casa dei guaglioni dall’ineffabile Vilèlm, marito-padrone per il quale la ragazzetta non smette mai di nutrire un miscuglio di ferino senso di protezione e timore reverenziale.

 

Un classico della nostra letteratura da leggere e meditare, quest’opera della “strega” Elsa, che evoca, con una magia direi sciamanica, atmosfere, ambienti, darsene e strade della piccola Procida, conferendo al mastodontico penitenziario, così come a tutta l’isola, vita propria arcigna, dolce, bellissima.

 

Uno spaccato di vite, una magistrale resa dei turbamenti psichici adolescenziali che trascende i personaggi, universalizzandone aneliti e pulsioni.

 

Da segnalare, infine, un gustoso siparietto comico nell’ordito tragico della narrazione: l’irruzione di Viulante, madre di Nunziatella, nel “castello” dei Gerace.

Un’offerta, chiarificatrice per Arturo, di una porzione di realtà, quella realtà che gli verrà di lì a qualche mese sbattuta in faccia da un avanzo di galera pseudo-dandy, di cui il padre è assolutamente e platealmente infatuato, e che non a caso di cognome fa Stella.

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Elsa Morante (Roma 1912-1985), romanziera, poetessa e saggista italiana. Dopo aver esordito con i racconti di Il gioco segreto (1941), e dopo il matrimonio con Alberto Moravia, si dedicò alla costruzione di un grande romanzo familiare. L’opera, Menzogna e sortilegio (1948, premio Viareggio), uscì in piena era neorealista, ma risulta assolutamente irriducibile ai modelli del neorealismo letterario. Romanzo d’esordio, stupefacente per maturità e per originalità, Menzogna e sortilegio costruisce la sua straordinaria tensione stilistica intorno al contrasto insanabile fra realtà e illusioni, fra un mondo rappresentato nella sua concreta durezza e i fantasmi mentali dei protagonisti, di cui la stessa letteratura è l’ultima, paradossale incarnazione.

In seguito Elsa Morante pubblicò pochissimi libri, tutti accompagnati da un lungo e complesso lavorio linguistico e tutti capaci di concentrare realtà e magia in simboli ad alta densità. Giustamente famoso è anzitutto L’isola di Arturo (1957, premio Strega). I racconti di Lo scialle andaluso (1963) riprendono testi scritti fra gli anni Trenta e Cinquanta. Di grande rilievo è anche La Storia (1974), che suscitò un violento dibattito per il suo radicale pessimismo. Con l’ultimo romanzo, Aracoeli (1982), la scrittrice approdò a una visione del mondo se possibile ancora più sconsolata. Si ricordano inoltre le poesie di Il mondo salvato dai ragazzini (1968) e i saggi di Pro o contro la bomba atomica (1987, postumi)[1].

 

Elsa Morante “L’isola di Arturo”, Edizioni Mondolibri s.p.a., Milano, 2005, su licenza della Giulio Einaudi editore.

Prefazione: Cesare Garboli

Prima edizione. 1957 (Einaudi)


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