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Il principe marrone – Antonino Genovese

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Una fola o poco più

 

Scrivere un romanzo per ragazzi è una responsabilità fattiva ed oggettiva.

Il precettivismo e l’inevitabile morale d’ogni fola (così la chiamerebbe Normanna Albertini) debbono essere espressi in modalità strette ed efficaci, con un linguaggio semplice e non semplicistico, con la cadenza di realtà; propria d’una creatività capace di suggellare l’andatura del testo in un tempo fine, scorrevole e dialettico.

La favola non deve – non sia superfluo dirlo – confabulare. Soltanto il fatto di verità, lo sanno bene certi cronisti da scoop, può essere rivestito disonestamente con panni fantasmagorici.

La favola, perciò, vive un tempo proprio, e gode di particolari chiavi d’accesso per permettere l’entrata nella vita reale da parte del suo primo fruitore: il giovanissimo lettore, il quale deve cogliere in essa atmosfere conosciute e divagazioni descrittive necessarie al rafforzamento conoscitivo dei personaggi – soprattutto quello principale – proposti.

Una favola, insomma, è armonica quando riesce ad esprimersi per costrutti suoi propri (di genere).

 

Antonino Genovese non solo rispetta i canoni (definiamoli così) tradizionali, ma aggiunge al substrato narrativo elementi nuovi e sintassi inusuali, che rendono l’opera sua chicca preziosa, dal sapore antropologico e storico-politico, e quindi capace d’interessare lettori altri dai fanciulli.

Le sovrapponibili letture del suo Piccolo Principe rendono necessario un programma conservativo del testo, una promessa – se si è piccoli – di rilettura futura. Si può cogliere uno o più rami del sapere espresso soltanto quando, superate una o più età della vita, ed attraversate le vie delle prime socializzazioni (le cosiddette primarie), si giunga man mano alla maturità.

 

Il rapporto tra le generazioni umane, la gestione della propria personalità e indipendenza emotiva e di crescita, le opinioni socio-esistenziali e d’appartenenza, il passaggio da un’era umana ad una storico-globale-nazionale, sono temi duri ardui adulti, e possono percepirsi indipendentemente dalla scoperta d’infiniti anagrammi (Ipla=Alpi; Angedras=Sardegna; Amor=Roma; Atir=Rita; Fuschi=Schifu, etc.), soltanto dopo un lungo periodo di permanenza su Gea (la Terra), che nel libro è “impersonificata” da un cane fedele, e nella storia dal fluire degli accadimenti antropologici.

 

La storia, smussata e confusa e svanita nel “magicismo” delle frontiere proposte, è un Risorgimento, ma anche una speranza dal sapore rinascimentale.

Si fa politica del tenere a mente un racconto “privato” sul folletto malvagio (chi è del Sud conosce il laurieddu “genovesiano”), e una storia confusionaria come quella di Ailati (la nostra Italia letta al contrario?)

 

La favola, infine, è suono; e tipica espressione ed attività dei ragazzini è giocare ad anagrammarla, per creare un linguaggio nascondibile all’adulto.

I bambini hanno una loro lingua ed una loro patria, sicché, se per noi è l’Italia, per loro è probabile che sia Ailati, Latiai o quant’altre possibili rese dallo scombinamento dell’alfabeto del verbo.

Ciò che deve, però, esser chiaro, è che se Ailati e Italia sono patria fisica (seppur di-versamente pronunciata) di bambini ed adulti, Roma è la capitale dei grandi ed Amor quella dei piccini.

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