Edizioni e/o
Narrativa
Pagg. 316
ISBN 9788866327158
Prezzo Euro 14,00
Un libro imperdibile
Dopo aver letto Gli ultimi testimoni (i ricordi degli allora bambini di quella che fu per loro la seconda guerra mondiale) e Preghiera per Cernobyl’ (la ricostruzione non tanto degli avvenimenti, ma dei sentimenti della popolazione vittima della tragedia causata dall’esplosione del reattore numero quattro) ho messo mano, anzi ho messo gli occhi su Ragazzi di zinco, un ennesimo dramma provocato dalla guerra condotta in Afganistan dall’Unione Sovietica, che costò ai russi dell’epoca 26.000 morti e circa 54.000 feriti su un totale di 130.000 effettivi, senza dimenticare le vittime dell’alleato esercito della repubblica democratica dell’Afganistan (18.000 morti) e quelle civili, il cui computo è assai difficile, ma che si possono fare ascendere a una forbice fra 600 mila e 2 milioni. Come è noto in questo conflitto l’Unione Sovietica si dissanguò e di fatto le conseguenze furono la caduta del comunismo. Anche per Ragazzi di zinco la Aleksievič usa la tecnica positivamente sperimentata di fare raccontare questa guerra dai militari che vi hanno combattuto, dalle loro madri, dalle loro mogli; ne risulta così una narrazione corale che ha il potere dell’autenticità e che ben riesce a descrivere un dramma che coinvolge il lettore, lo rende spettatore sgomento e attonito di efferatezze, di stragi, di dolore, di un inferno in terra che nessuna fantasia può immaginare. Ci sono soldati usciti di senno, altri invalidi privi di gambe e braccia, altri ancora che hanno superato il confine che separa l’essere umano dalla bestia e che sono diventati incapaci di condurre un’esistenza normale in quel mondo che avevano lasciato andando in guerra e che ora non riconoscono più.
Per i morti parlano le madri, le vedove che hanno visto rientrare i loro cari dentro casse di zinco, acclamati dal partito come eroi di una guerra inutile e solo di potenza, avviata per nascondere la tragica realtà di un regime morente. In Afganistan ai soldati russi manca tutto, non ci sono bende, cerotti, siringhe, sono mandati allo sbaraglio senza un calcolo strategico di ampio respiro e privi di un supporto tattico, una storia che si ripete, si potrebbe dire, viste le attuali carenze dimostrate nel corso dell’attuale conflitto con l’Ucraina, ma quello di mandare insensatamente al macello le proprie truppe sembra una costante dei russi, come già visto nel corso della Grande Guerra e della seconda guerra mondiale. L’elemento umano è disumanizzato, gli si fa credere dapprima che è inviato magari a Taskent e poi da là lo si sposta a Kabul, gli si dice di una guerra patriottica, che è invece è nazionalista, lo si arruola con la falsa promessa di andare in Afganistan per costruire scuole, ospedali, infrastrutture civili. E’ un copione quindi che si ripete: così sotto lo zar, poi sotto la falce e il martello e ora sotto Putin.
Come per i precedenti da me letti, di cui ho brevemente accennato, il libro della Aleksievič scava profondamente l’animo di chi legge, perché non si può restare insensibili davanti all’orrore e alla sofferenza, aspetti comuni alle due parti in lotta, ma soprattutto all’inerme popolazione civile.
La visione dell’autore va tuttavia oltre l’evento, perché nella sua ottica il rilievo è per l’essere umano, capace di essere carnefice, ma anche vittima, quel che si direbbe un controsenso, ma che è proprio della nostra specie da quando si è affacciata sulla Terra.
Arrivato all’ultima pagina, il sentimento di orrore che mi aveva preso con le prime interviste poco a poco si è trasformato in pietà, in pietà per quei soldati, per quei civili, ma anche in pietà per noi stessi, per uomini e donne di questo XXI secolo, per l’incapacità non tanto di opporci alla guerra, ma di saper coltivare e difendere la pace.
Ragazzi di zinco è un libro imperdibile.
Svetlana Aleksievič è nata in Ucraina nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina. Giornalista e scrittrice, è nota soprattutto per essere stata cronista per i connazionali dei principali eventi dell’Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo. Fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale in Bielorussia, è stata perseguitata dal presidente Aleksandr Lukašenko e la sua opera è stata bandita dal paese. Dopo dodici anni all’estero è tornata a Minsk, ma nel settembre del 2020 è stata costretta a fuggire in Germania. Per i suoi libri, tradotti in più di quaranta lingue, ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2015.