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Fallimento (default) dello Stato

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Il budget è un programma per indebitarsi
con metodo.
L. Levinson

Ogni Stato nazionale è titolare di una certa quantità di “debito pubblico”, quella (ingente o meno) somma di denaro che rappresenta il debito nei confronti di altri soggetti economici, nazionali o esteri – quali individui, imprese, banche o Stati esteri – che hanno fornito denaro allo Stato, risorse destinate a coprire il “fabbisogno monetario di cassa” (pagare beni e servizi) degli enti pubblici di ogni livello, in cambio dell’acquisizione di obbligazioni (i titoli di stato)[1].

L’obbligazione (bond) è un titolo di credito che, alla scadenza prefissata, attribuisce al suo possessore (obbligazionista/bondholder) il diritto al rimborso del capitale prestato all’emittente, più un interesse su tale somma (coupon rate)[2]. Questo è il funzionamento essenziale, e apparentemente semplice, del finanziamento del debito pubblico nei sistemi economici dei moderni Stati nazionali.

Infatti, la risorsa ordinaria di sostentamento degli organi pubblici, costituita dalla tassazione di cittadini e imprese che producono reddito sul territorio nazionale, solo parzialmente riesce a coprire le innumerevoli spese inserite nel bilancio annuale di un moderno “Stato sociale”, bilancio che presenta costantemente un deficit al termine dell’esercizio, destinato ad accumularsi, nel corso degli anni, e ad essere ingrossato dai relativi interessi[3]. Quando il debito dello Stato è contratto con soggetti economici di stati esteri, si parla di “debito estero”, mentre quando è contratto con soggetti economici interni allo stesso Stato si parla di “debito interno”: normalmente entrambe le componenti sono presenti, in misura variabile, all’interno dello “stock” (ammontare totale) del debito pubblico di uno Stato[4].

I titoli di Stato hanno rappresentato il principale ambito verso cui si è canalizzato il risparmio delle famiglie e ancora oggi sono una parte rilevante della ricchezza finanziaria del nostro Paese; questa forma di finanziamento riveste una importanza decisiva e comune a tutti i Paesi con sistema economico evoluto: di conseguenza il rischio nell’acquisto di Titoli di Stato risulta direttamente proporzionale alla solidità economica di quello Stato e alla importanza e autorevolezza della sua moneta sui mercati internazionali[5].

D’altra parte la presenza di un “debito” nei conti pubblici impone, da parte di ogni Nazione, oltre alla sua copertura finanziaria, al fine di poter restituire i capitali nei tempi prestabiliti dai titoli stessi (dopo averne pagati gli interessi alle scadenze pattuite[6]), anche la necessità di “tenere sotto controllo” il disavanzo: nel breve periodo si ricorre spesso a politiche di risanamento dei conti pubblici, nell’ambito di politiche pubbliche “restrittive” o di rigore (c.d. “austerità”), con abbattimento del deficit pubblico, oppure operando verso la creazione di un “avanzo primario” (ad es. tramite aumento delle entrate con aumento delle imposte e/o recupero dell’evasione fiscale, parallelamente ad una forte riduzione della spesa pubblica)[7]; diversa idea sul controllo e (progressiva e lenta) riduzione del debito è alla base, nel medio-lungo periodo, delle politiche di bilancio di tipo “espansivo” (ad es. immissione di liquidità nel mercato nazionale, sotto forma di sussidi pubblici-deficit spending), che vanno a stimolare la crescita economica, aumentando il PIL con incremento delle entrate fiscali (gettito).

Tuttavia, e prescindendo dalle condizioni dei Paesi occidentali, a “capitalismo compiuto”, e di quelli membri dell’Unione Europea, soggetti a vincoli di bilancio del tutto particolari, per i quali queste ultime considerazioni sulle politiche economiche più sostenibili sono di costante attualità, il problema dell’indebitamento verso l’estero di alcuni Paesi, soprattutto del sud del mondo e/o definiti “in via di sviluppo” ha fortemente interessato da sempre Governi nazionali e istituzioni finanziarie internazionali, in quanto la dimensione del debito con queste Nazioni è tale che, ove non fosse estinto, si produrrebbero effetti a dir poco “destabilizzanti” sull’intero sistema delle relazioni economiche internazionali[8]. A soffrirne infatti sarebbero tanto i Paesi e istituti creditori (che subirebbero perdite ingentissime) quanto i Paesi debitori, i quali subirebbero, quanto meno, una lunga esclusione dai circuiti finanziari, con rilevanti scompensi dei flussi finanziari mondiali e ripercussioni negative sugli scambi commerciali internazionali. Ecco perché si rivelano decisive le occasioni di incontro e mediazione tra creditori e debitori, sedi in cui vengono discusse le “ristrutturazioni” del debito, ossia il solo rimedio all’indebitamento in grado di evitare la “bancarotta” dello Stato.

La più nota di queste sedi è il cosiddetto “Club di Parigi”, più che un’organizzazione strutturata, una sorta di “procedura consolidata”, secondo la quale il Paese debitore, nell’impossibilità di osservare puntualmente i propri obblighi di rimborso delle diverse rate del debito contratto verso l’estero, si rivolge al Ministero del Tesoro francese per convocare una conferenza con i creditori onde ottenere delle dilazioni[9]. La sua origine risale al 1956, quando un gruppo di Paesi creditori del governo Argentino si riunì a Parigi per discutere la ristrutturazione del debito di quel Paese. Le sue regole di funzionamento vennero fissate definitivamente alla fine degli anni settanta allo scopo di rendere sistematiche e coordinate le azioni di cancellazione, recupero e riprogrammazione dei crediti nei confronti dei Governi dei Paesi debitori con gravi difficoltà nei pagamenti[10]. Più specificatamente, in seno a Club di Parigi vengono trattate le ristrutturazioni di crediti concessi da Stati, da loro suddivisioni o agenzie, nonché da istituti privati purché coperti da garanzia assicurativa (pubblica) dello Stato creditore[11].

Nonostante le politiche economiche attuate dal Governo nazionale e i rimedi “negoziali” sopra illustrati, si è verificato spesso il “punto di rottura” per diversi Stati: le entrate finanziarie statali, si sono rivelate insufficienti per coprire le uscite e quindi le spese pubbliche. Questo ha generato, in una specie di “circolo vizioso”, aumento deficit pubblico, con annesso incremento del debito pubblico, che ha portato all’incapacità dello Stato di restituire il debito alle scadenze prefissate. Una situazione simile si rischia anche quando gli interessi sui titoli di Stato diventano così alti da risultare insostenibili da parte dello Stato, con conseguente impossibilità di emettere nuovi titoli per finanziare/coprire il deficit[12].

Ancora possono intervenire altre circostanze “eccezionali” come quella di uno Stato impegnato in una guerra, o che subisce una grave calamità naturale[13].

Si realizza lo stato di “insolvenza sovrana (o nazionale)” che è la condizione per cui uno Stato non è più in grado di restituire completamente il suo debito pubblico ai creditori (insolvenza, fallimento o default). Può essere accompagnato da una dichiarazione formale del Governo circa l’intenzione di pagare solo in parte (o non pagare) i propri debiti (un taglio parziale dei debiti è detto haircut), oppure consistere in un “comportamento concludente”, in cui uno stato cessa de facto i pagamenti dovuti alle scadenze stabilite.

Anche un Paese, dunque, può fallire, come un’impresa, e questa situazione rappresenta, a tutti gli effetti, il momento di “morte organizzativa” dello Stato[14]. Il “default”, però, non è mai totale, ma ha diversi livelli di gravità. In altre parole lo Stato cerca sempre di “ristrutturare” il suo debito, cioè di raggiungere (o imporre) un accordo per cui, invece di restituire la cifra pattuita, ne rende una inferiore o spalmata su più anni, anche nei confronti dei creditori privati[15]. E’ ovvia la conseguenza di questa scelta, ossia il crollo totale del valore dei titoli pubblici, con l’impossibilità di venderli sui mercati.

Il primo effetto a cascata della caduta di valore dei Titoli di Stato, si estende immediatamente al sistema bancario, che essendo un grande possessore di obbligazioni pubbliche, si trova a corto di liquidi e con un incredibile valore economico andato in fumo. Considerando che molte banche hanno oltre il 50% dei propri investimenti nei Titoli di Stato, alcune di esse potrebbero avviare le procedure di fallimento. A questo punto si potrebbe innescare un effetto psicologico pericoloso (il “panico finanziario”), in cui tutti i clienti delle banche si precipitano a ritirare i depositi prima che sia troppo tardi, e non esiste istituto che possa resistere al prelievo contemporaneo di danaro di buona parte dei suoi clienti[16].

Lo Stato “fallito” dovrà tagliare le sue spese. Le voci di costo che in genere pesano di più sui conti pubblici sono tre: le pensioni, la sanità, le retribuzioni dei dipendenti pubblici. I primi ad essere ridotti saranno gli organici (e i salari) della Pubblica amministrazione, con pesanti conseguenze sui servizi erogati. La stessa sorte toccherà a sanità e pensioni.

In ogni caso nel dettagliato elenco degli Stati falliti c’è un illustre assente. L’Italia, infatti, non ha mai vissuto un fallimento del debito, perlomeno dalla sua nascita, nel 1861[17].

Lo scenario sarebbe apocalittico ma sembra, per ora, lontano…

 

La proprietà pubblica è inefficiente, e non produce ricchezza.
Tommaso d’Aquino

 

  1. Cfr. “Art. 81: ma è proprio pareggio?” di Alberto Monari, in Kultunderground-n.203-giugno 2012, rubrica Diritto.

  2. Il Ministero dell’Economia e Finanze dispone regolarmente l’emissione sul mercato interno di quattro categorie di titoli di Stato disponibili sia per gli investitori privati sia per gli istituzionali:

    1) Buoni ordinari del Tesoro (BOT)

    2) Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ)

    3) Buoni del Tesoro Poliennali (BTP)

    4) Certificati di Credito del Tesoro (CCT)

  3. La spesa per gli interessi corrisposti ai detentori delle obbligazioni statali è detta “servizio del debito” e costa all’Italia circa 90 miliardi di euro annui.

  4. Anche altri soggetti pubblici (Regioni, Province, Comuni, Stati federati ed Enti pubblici vari) possono emettere titoli di credito rappresentativi del proprio debito, con circolazione dei titoli sia interna che estera. Il debito pubblico può essere dunque suddiviso in debito pubblico dell’amministrazione centrale e debito pubblico dell’amministrazione periferica.

  5. Il tasso d’interesse dei titoli è uno degli indici più immediati per misurare la rischiosità percepita dagli investitori; un altro indice (comunque basato sul tasso di interesse) che misura la “rischiosità relativa” percepita, è il cosiddetto spread: esso infatti valuta la differenza di rendimento tra un titolo di stato di un paese, e un titolo di pari caratteristiche emesso da un altro paese, preso come riferimento per la sua particolare solidità (es. la Germania). Uno spread alto significa che quel titolo statale è, certo, percepito come più rischioso, ma rende un interesse più alto (e per questo viene acquistato ugualmente degli investitori).

  6. Dovendo prevedere apposite, ulteriori e più onerose voci di spesa a carico del bilancio annuale.

  7. L’avanzo primario del bilancio statale altro non è che la differenza fra la spesa pubblica e le entrate tributarie e extra-tributarie (es. vendita titoli debito pubblico), esclusi gli interessi da pagare sul debito. In altri termini l’avanzo primario è la somma disponibile per pagare gli interessi sul debito pubblico ed eventualmente per ridurre il debito restante.

  8. Cfr. “Corso di Diritto Internazionale Superiore” Lineamenti di diritto internazionale dell’economia, Tomo I, Luigi Condorelli-Alberto Tita-ISU-Università Cattolica 1994-95, pp.93 e ss.

  9. Dal punto di vista giuridico il “Club di Parigi” si qualifica come una “Conferenza Internazionale”, cioè una semplice riunione di organi appartenenti a Stati diversi, che emana “dichiarazioni di volontà” imputabili allo Stato a cui detti organi appartengono.

  10. Questo gruppo informale di organizzazioni finanziarie pubbliche dei 22 paesi più ricchi del mondo (Australia, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Corea del Sud, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Irlanda, Israele, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Russia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera), si riunisce ogni sei settimane in Francia presso il Ministero dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria di Parigi.

  11. I debitori sono spesso “raccomandati” dal Fondo Monetario Internazionale dopo l’inutilità accertata di altre soluzioni.

  12. La situazione si è verificata nel novembre 2011 in Italia con la cosiddetta “crisi dello spread”.

  13. Dopo il maremoto dell’oceano Indiano del 2004, il “Club di Parigi” decise di sospendere temporaneamente alcune delle scadenze dei Paesi coinvolti nel disastro.

  14. Che cosa succede quando fallisce uno stato?” in http://www.neversleep.it/

  15. “Italia sorvegliata speciale. Ecco cosa succede ai cittadini se lo Stato va in default”, https://quifinanza.it/ del 9 Novembre 2011.

  16. In una situazione di questo genere, infatti, salterebbero anche i sistemi di sicurezza esistenti, come il “Fondo di garanzia sui conti correnti”, operante in Italia come in tutti i paesi dell’Unione Europea. Il Fondo copre l’insolvenza delle banche fino a un ammontare di 100mila euro per conto corrente e il suo funzionamento dipende da un accordo interbancario. Ma può funzionare in caso di default di singole banche, non dell’intero sistema creditizio.

  17. Cfr. “Fallimento della Russia, 30 giorni per evitare il crack” in https://www.truenumbers.it/

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