traduzione di Nicola Manuppelli
prefazione di Sandro Bonvissuto
readerforblind (Ladispoli, 2021)
pag. 370
euro 19.00
Pietro Di Donato con “Cristo fra i muratori” scrisse un libro di culto pensando di redigere semplicemente un omaggio in tempra di rivendicazione di appartenenza alla sua classe sociale. Infatti, un’altra volta, portando a compimento un’operazione editoriale che sapeva di operazione culturale in Italia – perché (va detto ancora) il romanzo è scritto in inglese – un piccolo editore, allora Textus con Sara Camplese, ristampò coraggiosamente un testo mirabile che era di nuovo caduto nell’oblio. Adesso, appunto, la piccola è ancora più apprezzabile readerforblind di Ladispoli di Roma, grazie alla cura della sempre più attenta e preparata salentina Margherita Macrì, alla traduzione di Manuppelli e una prefazione di nuova forza del forte scrittore Sandro Bonvissuto, conferma la testi che Di Donato fece l’opera per i cultori della letteratura pura.
Di Donato, classe 1911, nacque nel New Jersey di un po’ di altri romanzi successivi viene subito da dire, da genitori italiani, al pari tanti tante altre penne di peso, emigrati negli Usa. Io su tutti ricorderò per sempre N. G. Corso, per esempio.
E quando riuscì a pubblicare il suo romanzo, facendo il ritratto ai fiori del cantiere messi fra la morte e l’emisfero del sacrificio, qui passato con la salma del padre preso e rimesso nell’opera, non avrebbe ancora potuto immaginare che aveva rafforzato la letteratura di un testo cementato di storia umana. Dove un fatto unico, seppure ovviamente paragonabile e simile agli altri mille e milioni che adesso si ripropongono col nome ufficiale di ‘incidenti sul lavoro’, diventa il motivo scatenante la vita piena, totale, intransigente per certi e tanti versi dell’intera classe lavoratrice; allora, insomma, quella che ha fatto quei ponti degli States. Oppure messo in alto il lancio dei mattoni poi portati nel petto delle camicie in forma di ufficio agli impiegati e ai dirigenti di tutti i tempi a seguire. Persone che, ancora, facevano luce con le loro mani nel buio della terra, sotto sotto, nelle viscere, oltre i genitali delle miniere. Proletariato di tutti i settori.
Per di più, Di Donato raggiunge l’obiettivo di dire con più accuratezza degli operai italiani su tutti. E delle loro vite domestiche. Di certo strettamente modellate dagli scalpelli delle professioni imposte per la sopravvivenza. Ché il salario è casa. Come la casa c’è col salario. Mente deve accelerarsi, in questo caso per la morte accidentale, un passaggio di consegne. Il figlio che si fa padre prima del tempo. Ma io, questa volta, più che dalle prese in giro per
Paolino sul cantiere, appunto, mi faccio irretire da questo stile liricizzato all’ennesima potenza quando i luoghi devo annettere le persone: la vita sul cantiere: ma soprattutto tutti quei materiali che se ne vanno poi a casa insieme agli uomini. Dove proprio vediamo “il job si trasformava in un organismo in espansione, rumoroso, ruggente, pulsante, smanioso di crescere”. Che segue e mangia l’operaio. Dentro e fuori il posto di lavoro. Chiuderei, invece, con Bonvissuto, possibilmente per aumentare quel pensiero iniziale: “(…) Lo storia lo ha ignorato ma tanto Di Donato era venuto al mondo direttamente come leggenda, e ha continuato a scrivere altro immerso nel suo laborioso esilio onsumato in presenza”.