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Edgar Varèse a Torino

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Torino ha perso un ingegnere (tra i tanti), ma il mondo ha guadagnato un grande compositore grazie anche a quell’ingegnere “mancato”. Edgar (Edgard Victor Achille Charles) Varèse nacque a Parigi il 22 dicembre 1883 da padre piemontese e madre francese. Morì a New York il 6 novembre del 1965. Varèse, considerato uno dei più influenti compositori americani del ’900, visse a Torino tra i dieci e i vent’anni d’età. Il padre, Henri Varèse, nato a Pinerolo, fu ingegnere.

Del periodo torinese di Edgar Varèse, Torino non si è accorta e interessata per oltre un secolo. Se ne è scritto, ma sempre e soltanto in modo sbrigativo: un piccolo particolare biografico. Oggi, insieme a un rinnovato interesse “postindustriale” per la città, riaffiora, purtroppo tra tante lacune e difficoltà di reperire più notizie, il ricordo di Varèse in città. E in ricordo della prima opera di Varèse irrimediabilmente perduta (volontariamente dispersa o distrutta), scritta a Torino nel 1894, oggi un negozio nel quartiere Vanchiglia si è voluto chiamare “Martin Pas” e vende sintetizzatori analogici e macchine modulari. Come è detto dallo stesso: il nome del negozio nasce da una suggestione musicale: Martin Pas, infatti, è un’opera perduta di Edgard Varèse, compositore francese che visse a Torino. Un nome che gioca con la musica e le sue leggende, come dimostra la finta lapide commemorativa installata nel negozio

Eppure il periodo torinese fu fondamentale nella formazione musicale e intellettuale di Varèse, incidendo particolarmente sul suo pensiero scientifico e ingegneristico applicato alla musica e al suono, il quale fu significativamente innovativo nella storia internazionale della musica. La composizione di Varèse rimastaci più vicina a quelle del periodo torinese potrebbe essere “Un grande sommeil noir” del 1906 sui versi di Paul Verlaine.

A poche settimane di vita Edgard fu mandato dalla famiglia a vivere con il prozio e con il nonno materni a Le Villars in Borgogna. Suo nonno, Claude Cortot, fu anche il nonno del pianista Alfred Cortot, cugino di primo grado di Edgard. “Edgar” (come ribattezzeranno poi gli americani) crebbe sviluppando un affetto per il nonno materno superiore a quello provato per gli stessi genitori, i quali lo rivendicarono nel 1890. La Borgogna esercitò su Edgar una significativa influenza al punto che la sua prima opera orchestrale eseguita in pubblico, si intitolò appunto “Bourgogne”. Precedente fu la “Rhapsodie romane” del 1905, lavoro ispirato all’architettura romanica della Abbazia di San Filiberto a Tournus.

Nel 1893 la famiglia di Edgar si trasferì a Torino, città orfana del titolo di capitale d’Italia ma già maniche rimboccate nel rivendicare il titolo compensatorio di capitale economica e industriale, così come della tecnologia e delle scienze. Il padre, da buon positivista, “solido” e “quadrato” piemontese, indirizzò Edgar agli studi della matematica e dell’ingegneria al Politecnico di Torino. Studi ai quali Edgar rinunciò infine per la musica, non senza riceverne un’impronta peculiare. Ogni sua opera, infatti, prenderà spunto e si svilupperà mai scevra di riferimenti matematici e scientifici.

A Torino Edgar iniziò anche i suoi studi musicali con Giovanni Bolzoni (Parma 1841, Torino 1919), violinista, pianista, direttore d’orchestra, direttore del Teatro Regio di Torino, poi direttore del Conservatorio Giuseppe Verdi della stessa città e compositore compositore (famoso un suo minuetto spesso eseguito da Arturo Toscanini, che ebbe anch’egli importanti anni d’esordio a Torino). Tra gli allievi di Bolzoni ci furono anche Leone Sinigaglia, Carlo Adolfo Cantù e Giuseppe Blanc.

Nel 1894 Edgar compose a Torino la sua prima opera dal titolo “Martin Pas”, su testo di Jules Verne, andata poi perduta, sicuramente distrutta dallo stesso Autore come quasi tutte le altre composizioni del primo periodo.

Suo padre disapprovava l’interesse di Edgar per la musica, preferendovi una dedizione assoluta allo studio dell’ingegneria. Questo generò un conflitto sempre più grande, specialmente dopo la morte della madre nel 1900, fino a quando nel 1903 Edgar Varèse non esitò a lasciare il padre e Torino per tornare a Parigi, qui completando gli studi musicali con Vincent D’Indy, Albert Roussel e Charles-Marie Jean Albert Widor. Alcune composizioni di quegli anni parigini, non sopravvissute alla successiva cernita e volontà dell’autore, avrebbero potuto darci un’idea di quelle che compose prima a Torino: Trois pièces, Souvenir, Chanson des jeunes hommes, Prélude à la fin d’un jour… Ma purtroppo…

È però nella relazione, conflittuale o meno, con suo padre ingegnere, che il giovane Varèse costruisce il suo rapporto radicale con la storia: un rapporto positivo, anche scientifico, ingegneristico. Ma anche di rifiuto della tradizione che esige, pretende di restare nei solchi già tracciati e consolidati.

Edgar Varèse scrisse inizialmente in uno stile a metà strada tra Claude Debussy e Richard Strauss, interessandosi poi alla dodecafonia di Schönberg e alle teorie del futurismo italiano, alla cosiddetta “arte del rumore”. Ma da un certo punto in poi, arrivato a New York nel 1915 ed entrato a far parte del movimento che verrà battezzato “Mistica del Grattacielo” quale espressione della nuova civiltà tecnologica e industriale, non fu più influenzato da altri compositori, ma piuttosto  dalla geometria e dalla matematica, dai fenomeni fisici (soprattutto acustici) e naturali, servendosi vieppiù – fin dalla sirena dei pompieri in “Amèriques” del 1918/21, prima opera americana per orchestra – dei mezzi offerti dagli sviluppi tecnologico-elettronici.

Emigrando negli Stati Uniti Edgar Varèse disperse o distrusse quasi tutto quello che aveva composto fino a quel momento in Europa.

“Hyperprism” del 1922/1923 fu la prima di una serie di composizioni che evocavano le scienze, trasponendo musicalmente l’effetto di diffrazione che il prisma ha su un fascio luminoso, quindi scomponendo il flusso sonoro come attraverso un prisma concettuale (attacchi, risonanze, frequenze, durata, intensità).

“Intégrales” del 1924/1925 fu un’opera concepita come “una proiezione spaziale” in rapporto con la terza dimensione spaziale dei fenomeni sonori attraverso il calcolo infinitesimale e pensata per impiegarvi mezzi acustici o elettroacustici che ancora non esistevano, ma che sapeva prima o poi realizzabili  e utilizzabili. Come spiegò Varèse stesso: “Vi si spiegano movimenti sonori di massa di radianza variabile e di densità e volumi differenti. Quando queste masse entreranno in collisione, ne risulteranno fenomeni di compenetrazione o di repulsione”.

“Ionisation” del 1929/1931, prima opera per sole percussioni mai concepita, riferendosi alla ionizzazione di atomi e molecole, era centrata sull’espansione e sulla variazione delle cellule ritmiche. Con quest’opera il pensiero musicale smise definitivamente di fondarsi sul contrappunto e sull’armonia. Il suo titolo alludeva a un termine geometrico e implicava un significato quadridimensionale”, segnalando l’apertura di una nuova era nella storia musicale, in cui il rapporto con la scienza diveniva dominante. La melodia non avviene, non esiste più uno sviluppo melodico di nessuna sorta. Ciò che conta e conterà sempre più è e sarà il “suono”, il suo rapporto con la sua stessa fisica.  Un’opera, “Ionisation”, che ebbe grande influenze su molti compositori, invogliando tra gli altri Frank Zappa a intraprendere la variegata carriera musicale. Frank Zappa dichiarò sovente il suo debito verso Varèse e forse dagli anni torinesi di Varèse ha preso spunto la sua composizione al Synclavier dal curioso titolo “Dio Fa (So they say in Turin”) compreso nell’album postumo “Civilization Phaze III”.

“Ecuatorial” del 1932/1934, su testo da Popol Vuh dei Maya Quiché in Guatemala, una raccolta di miti e leggende a cominciare dalla creazione del mondo è un’opera è per voce di basso solista, coro all’unisono, otto ottoni, piano, organo, sei percussioni e include nell’organico anche uno strumento elettronico tra i primi della storia: le Onde Martenot, il quale sfruttava gli stessi principi del Theremin di Lev Thermen e può essere considerato un antenato delle tastiere moderne in quanto si basa sullo sfruttamento delle differenze di frequenza emesse da due generatori sonori (oscillatori), gli stessi alla base dei futuri sintetizzatori.

“Octandre” sviluppa piccoli frammenti sonori che Varèse stesso descrive come la formazione naturale di un cristallo. 

“Density 21.5” del 1936, scritta per Georges Barrère e il suo flauto di platino (da cui il peso specifico 21,5 (21,45 g/cm3), spinge il flautista a esplorare sonorità inedite dello strumento e a inoltrarsi nel campo del rumore, invito a superare le solite sonorità attese dal flauto. Varèse confermò con essa (fino alla massima espressione in “Desert” del 1954), la sua intrapresa ricerca fisica e materica del suono.

Nel 1939, in seguito a contatti con ingegneri del suono, elettronici e fabbricanti di strumenti intravede la possibilità di una nuova machine à son” (macchina del suono) capace di liberare il compositore dalle strettoie della tradizione. Scrive al riguardo, anticipando le invenzioni dei sintetizzatori e dei computer musicali capaci di creare nuovi timbri e di suonare qualunque frequenza, qualunque frazione di tono: “I vantaggi che prevedo sono questi: una macchina simile ci libererebbe dal sistema arbitrario e paralizzante dell’ottava; consentirebbe l’ottenimento di un numero illimitato di frequenze, la suddivisione dell’ottava e, di conseguenza, la formazione di ogni intervallo desiderato; un’insospettata distesa di registri, nuovi splendori armonici che l’uso di combinazioni subarmoniche renderebbe possibile; suoni combinati, differenziazioni timbriche, intensità insolite al di là di tutto ciò che le nostre orchestre possono realizzare; una proiezione del suono nello spazio mediante la sua emissione dall’una o dall’altra parte di una sala da concerto, in base alle esigenze dell’opera; ritmi che si intersecano indipendentemente l’uno dall’altro, contemporaneamente in contrappunto… poiché la presente invenzione potrebbe suonare tutte le note desiderate, in frazioni di note in una data unità di tempo o misura, tutto ciò che ora è umanamente impossibile fare “. 

Il “suono organizzato” di Varèse si concentra sui fenomeni sonori generati dalle interferenze determinate dall’incontro o scontro di timbri, note, armonici e va oltre la notazione e la leggibilità sulla carta. Fondamentale è l’aspetto concettuale che sta tanto dietro la composizione quanto la peculiare esecuzione, il modo cioè di suonare gli strumenti musicali per ricavarne nuove sonorità fino allora inesplorate o inusate, non senza passare – negli ultimi anni – attraverso progetti sinestetici  e multimediali.

Negli anni seguenti, dopo un lungo periodo di silenzio, Varèse fece anche uso del nastro magnetico come in “Déserts” (1950-54); o come ne “La procession de Vergès”, nastro per un film su Joan Miró (1955). Nel 1958 la Philips commissionò a Le Corbusier la progettazione di un padiglione alla Fiera di Bruxelles tale che fosse “una poesia dell’età elettronica”. Le Corbusier, con Iannis Xenakis, chiese a Varèse di scrivere la musica per una fantasia di luci, colori, ritmi e suoni a rappresentazione della “genesi del mondo”. Nacque così il “Poème électronique”. L’opera, totalmente elettronica su nastro, fu pensata per una  distribuzione spaziale dei suoni attraverso quattrocento altoparlanti, ascoltabile attraversando il padiglione in modo multidimensionale, annullando i concetti di inizio e fine, senza più richiedere un ascolto frontale. 

Evidente dunque l’importanza della formazione scientifica e ingegneristica acquisita da Varèse a Torino attraverso il padre e gli studi al Politecnico della città, ora non resta che scoprire, sempre che ne sia rimasta traccia, qualche altra notizia biografica del suo periodo giovanile in Piemonte. E su tutto un grande rimpianto: che delle sue composizioni torinesi non sia rimasto nulla.

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