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Train du rêve – Francesca Mazzucato

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Train du rêve e il fantastico sociale

Train du rêve, l’ultimo romanzo di Francesca Mazzucato, si apre con “un prologo, per iniziare”, si apre il sipario dunque e subito ci accarezza l’orecchio l’eco delle note di una sonata per violino, il cambiamento di tono di una voce che parla, e poi veniamo sorpresi dal sapore di una nespola “variabile dall’aspro al delicato[…] una nespola profumata di campagna abitata dai fantasmi delle passioni”; dunque si ‘parte’, in questa storia di viaggio fantastico, coi sensi, stimolati dalla musica, dalla voce, dalle associazioni della mente-memoria, associazioni calde di vita, calde. È il primo romanzo di Mazzucato da non poter essere considerato di genere erotico, appartiene semmai al fantastico, richiama il fantastico sociale di Carnè, e il neorealismo poetico di Zavattini. Ma interiorizzati dalla Mazzucato e attraverso la sua persona questi generi si arricchiscono di un sapore diverso, a volte sensuale. Come se questa fosse una conferma che nei suoi libri precedenti non era il genere erotico a fare la scrittura erotica di Francesca, ma, e cito Stilos di maggio: “Erotismo: una propensione che costituisce un genere.”

Con ciò non intendo affermare che la composizione dell’opera sia un rimaneggiamento più o meno erotico del fantastico sociale. Il romanzo è caratterizzato da una scrittura varia che richiama a volte anche lo stream of consciousness e quella parte di letteratura proustina di Anais Nin. Lo stream of consciousness è reso esplicitamente in alcune parti della storia: la protagonista ascolta gli altri e non parla quasi mai, ma ci rende partecipi dei suoi pensieri, e questi arrivano fino ad occupare il dialogo: a volte i personaggi che si avvicendano intorno alla protagonista, nei loro monologhi sembrano rispondere ai pensieri di lei: “Ho solo l’indirizzo di una amica ad Avignone che forse mi può ospitare qualche giorno, per il resto tutta una nuova vita da inventare.Mi chiamo Norma.”

Una vita da inventare. Un posto dove guarire dal meticoloso sapiente macello delle fatalità famigliari, dei ricordi…

“Ricordi? Quanti. Io…” (Pag 194)

I sensi invece sono introdotti nel racconto per riportare il lettore alla realtà vissuta, il vissuto delle persone comuni, il vissuto di chi nei treni regionali dove la puzza dei cessi è forte si sente a suo agio, perché ama gli odori pregnanti come in “Storia della mia vita” di G. Casanova quando l’autore afferma: “Ho amato i piatti dal sapore forte: i maccheroni preparati da un bravo cuoco napoletano […] e i formaggi, soprattutto quelli passati, nei quali i piccoli esseri che li abitavano cominciavano a diventare visibili. Anche nelle donne ho sempre trovato che quella che amavo aveva un buon odore, e più la sua traspirazione era forte più mi sembrava soave.” Le descrizioni dei  sensi, però, al contrario di una prospettiva proustiana, non rendono la protagonista con la sua vita interiore il punto di vista centrale della narrazione  rispetto ad un esterno cristallizzato ma piuttosto è l’io dello scrittore che si espande, si dilata, dilaga l’esterno. In questo senso l’autrice si avvicina moltissimo a quella che è la teoria Zavattiniana del pedinamento di un passante qualsiasi: “perché ogni uomo è una storia degna di essere raccontata, poteva succedere che il pedinato, l’uomo qualsiasi, l’individuo anonimo tra la folla, appena mostrava la sua faccia, altri non fosse se non lo stesso Cesare Zavattini, quella Prima Persona volta a volta impertinente e gentile, triste e dispettosa, che si affaccia dalle pagine dei suoi libri.”

Ecco che l’autrice si ritrova continuamente nelle parole e nelle storie di tutti i personaggi del suo libro. Il romanzo è come una suite dove le danze si alternano in andamenti ora sereni e ora vivaci ma accomunate dalla medesima tonalità. Un’autrice sdoppiata, dunque, anzi no, divisa in più e più parti del suo io, ciascuna parte associata ad un personaggio, a un punto di vista sempre diverso ma infondo riconducibile all’io che scrive. Un’autrice che in questo libro decide di associare senza troppo descrittivismo il suo essere scrittrice alla protagonista della storia. La protagonista dunque è metafora dello scrittore, caratterizzata da una volontà di puro ascolto (o ascolto puro?) e dallo spirito del viaggio. Si delineano così pian piano le parti che caratterizzano un libro che è meta narrativo, un racconto sul narrare, perché come afferma Goody il creatore d’atmosfere: “Non si è mai soli quando si hanno delle belle storie da raccontare.” (Pag. 69) Questa breve citazione introduce una prima considerazione sulla scrittura di Francesca Mazzucato che è, come afferma lei medesima, prima di tutto atto in sé stesso, experience, e poi la narrazione di una o più storie, l’apertura di un mondo. In questo senso, il viaggio sembra essere metafora perfetta della scrittura che racchiude experience e narrazione di storie. Un viaggio circolare: la protagonista parte da sola, incontra tante persone che si ritrovano a fine corsa, ma mentre gli altri festeggiano (‘la fine dello spettacolo’) facendo colazione, lei li saluta, non può restare, ha un altro treno, un altro viaggio da intraprendere. La circolarità dunque non divide l’io dello scrittore dal mondo in un rapporto conflittuale, ma rappresenta il perimetro di un’esperienza immaginativa dell’io della protagonista-scrittrice, che crea e da vita a suoi personaggi e alla fine li abbandona perché essi vivano di vita propria, perché lei deve cominciare un altro viaggio. 

Ma Train du rêve è anche un omaggio alla letteratura di Cesare Zavattini, alla poetica di Marcel Carnè, e alla Nin. E infatti ritroviamo frasi o personaggi che a loro appartengono: c’è Mobic di Totò il buono, che sta imparando ad essere buono anche lui, ci sono i pensieri su Miracolo a Milano dove alla fine i poveri della baraccopoli si dirigono con le scope verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno, e poi c’è il violinista che assomiglia tanto a Baptiste il protagonista de Les enfants du paradis, e infine quando una ragazza, protagonista di una storia border-line ricorda: “Aveva sussurrato al mio orecchio  parole esagerate, belle da sentire come sono belle le bugie” (pag 41) ricorda la Nin. 

Quest’ultima citazione  in prima persona ad un lettore già avvezzo alla letteratura di Mazzucato farebbe individuare che anche in questo scritto l’io narrante, come un folletto salta a destra e sinistra, facendoci rapportare con punti di vista molteplici. Sembrerà strano in una struttura romanzesca come questa dove c’è una protagonista, che viaggiando in treno giustifica l’apparizione di tutti gli altri personaggi, e dove la scrittrice si ritrova in tutti i personaggi, ma anche se la protagonista-scrittrice è sicuramente un punto di vista centrale nella narrazione lascia libertà espressiva anche ad altri punti di vista in una complessità di visioni che spesso sono antitetiche tra loro, ma importanti per darci una visione ampia e multisfaccettata dell’oggi. Perciò la scrittrice si ritrova nelle parole dei personaggi perché medium, strumento per loro di comunicazione, come quando il violista ci legge il diario del bisnonno dove c’è scritto che il liutaio, le sue mani, i suoi strumenti sono arnesi di Dio, un io dunque a servizio di qualcosa d’altro.

Il presente con i suoi problemi è nelle parole di molti personaggi: c’è il creatore di atmosfere, o lo sniffatore di pianerottoli che si sono inventati un nuovo lavoro per sopravvivere in una realtà di lavori precari e di sfruttamento come per la cambogiana, che prende il posto di lavoro di Loriana la pendolare in un calzaturificio e che è costretta a dichiarare di esser pagata diciotto euro l’ora quando invece prende dieci centesimi l’ora, e poi c’è Sanremo, realtà di speculazioni edilizie che “da città lussureggiante di fiori e di bellezza è diventata un grande ipermercato” (Pag 116), e i discorsi sulla sanità e sulla società, sulle nuove generazioni che parlano di sé, come la ragazza da i capelli metà biondi e metà rossi che dice: “Lo so, è facile. Siamo, e mi ci metto anch’io, la generazione della banalizzazione.” (pag. 91) e ancora il discorso sulla libertà, affidato a Miranda, una trans, e infine il discorso sui reality come schermi mentali per non pensare.

Il presente però è sempre accompagnato dal passato; come nei suoi precedenti scritti la relazione passato-presente anche se a volte vive di contraddizioni è una relazione pacifica, che integrata nella vita di tutti i giorni. Così si avvicendano storie di oggi e di ieri, storie di amori antichi e presenti, storie di problemi di oggi e di ieri, storie che in comune hanno una forte umanità.

Ed è proprio questo il tema principale del romanzo, ovvero una sfilata di tipi umani, ognuno con le sue idee, ossessioni, con il suo modo di vivere. Certo il personaggio che forse è il più amato dalla protagonista è il violinista in cerca di informazioni su Madame de Buci, una cantante lirica di eccezionali timbri vocali, amante del bisnonno liutaio Monterumici. Un personaggio che più di altri si lascia vivere trasportato dalle corrispondenze della vita, un personaggi con gli occhi da bambino che non smette di ricercare come del resto faceva anche il bisnonno con i timbri degli strumenti, un personaggio che sembrerebbe amare la vita anche nel dolore come predicava Tolstoj.

In complesso il romanzo è di una improvvisa e affettuosa allegria che contraddice ogni normalità e di un’altrettanta improvvisa introspezione nella vita di persone comuni. 

I personaggi a prima vista, o meglio, a prima descrizione hanno aspetti clowneschi o teatrali, richiamo il teatro della morte, e sembrano apparentemente chiusi nelle loro parole, nel loro monologo, ma pian piano si aprono come avverrebbe in una vera conversazione introducendoci nel loro mondo interiore: troviamo i dispiaceri di un padre che voleva che il figlio avesse un lavoro socialmente riconosciuto, una ragazza che da bambina doveva essere ‘educata alla morte’, ad essere pronta a tutto, e poi una donna obesa traumatizzata dalla diagnosi di un medico che le aveva scritto: grande obesa (e qui un passo simpaticamente interessante a pag. 210 che richiama il poema sulle lettere di Rimbaud). È comunque in questi momenti che troviamo frasi sporche di vita come quando Norma parla della nonna morta, e di suo nonno rimasto solo, e allora: “Improvvisamente è il silenzio. Per quasi mezzo secolo i rumori di un altro corpo sono stati il tuo universo. Rutti, sussulti, respiri, parole, borbottii. Adesso assenza gelida. Niente.” (Pag 200)

È un treno dunque questo che è prima di tutto un teatro della vita, dove si fanno sentire le contraddizioni tra la vita interiore dei personaggi e la realtà sociale; per esempio la grande obesa, e qui ritorna il discorso sul corpo già affrontato precedentemente dall’autrice, ma, con qualcosa in più: “Il grasso come una armatura. Il grasso che la rende una guerriera. Ma gli occhi hanno tracce timide e indifese.”(pag.212) Una donna dunque che si presenta in modo aggressivo, in continua difesa contro l’esterno ma che dentro di sé ha altro e anzi vorrebbe solamente vivere il suo corpo con naturalezza e ricercare nello sguardo degli altri non compassione ma semmai voracità.

Ci sono però anche personaggi che non si raccontano ma vengono raccontati, perché è il narrare l’elemento principale del romanzo. Tra questi la vecchia Sill, un personaggio veramente particolare che tra l’altro ritorna alla fine del romanzo: da lontano, perché lei resta lontano, incita la protagonista a prendere la sua strada, a ricominciare un altro viaggio. Sill è la santa protettrice delle fermate del treno Milano-Ventimiglia, ma prima di tutto è colei che ha visto il mare in tempesta, i gabbiani volare a zig zag e ora sa quali sono i destini di tutti, perché non ha perso l’illusione forse ovvero quell’illusione di cui parla Baudrillard: “quella radicale del mondo, quella che si riferisce alla magia delle apparenze, l’illusione vitale di cui parlava Nietzsche: un’illusione che è più fondamentale dello stesso reale.”

Questo che forse è il personaggio meno umano del racconto è comunque descritto nel suo aspetto esteriore: “una signora come tante […] ha i capelli bianchi, lunghi e soffici […] le mettono in evidenza il bel viso, solcato da rughe profonde come trincee ma molto bello.” (pag. 130). C’è dunque sempre una volontà di partire dal corpo, un corpo ritrovato al di là della plastica, che lo aveva rivestito negli anni ’90, un corpo che, come afferma Bazzocchi: “non è più un involucro da osservare e conservare, ormai è ridotto a un oggetto la cui esistenza si giustifica solo con la logica splatter dello squartamento esibito.” E ancora: “Sembra non esserci più legame con l’individuo con l’individuo, con le ansie che pur continuano a manifestarsi sotto il flusso delle merci.” Mazzucato invece con estrema umanità ci invita a: “Il rispetto. Del corpo che seduce come di quello che si consuma, ormai sfarinato. Il corpo che vomita e quello che si inginocchia, stremato. Il  corpo che richiama e che si perde. Il corpo degli altri e il proprio, la stessa avventura che merita amore, compassione, dedizione.” (Pag. 103.)  

La prosa è a tratti poetica, come in alcuni dei libri precedenti, ma la novità stilistica di questo libro è il monologismo, che permette all’autrice di misurarsi con la lingua verbale, e che favorisce a dare un tocco grottesco ai personaggi. C’è da dire comunque che mentre la poesia negli altri libri era nella prosa, in questo sembra essere nei contenuti, nella vita in sé dei personaggi che si avvicendano e come direbbe Zavattini: “La poesia è sempre. Cioè sta nella vita.”

Il tempo del romanzo si concentra nel viaggio da Bologna a Ventimiglia, viaggio intrapreso di notte e che si conclude di prima mattina. La notte sembra essere simbolo di una volontà che mira a trasfigurare o meglio a far rivivere, e da dove se non dal buio, dei personaggi particolari. Tempo che però è anche dilatato o accelerato: sembra di essere veramente in treno dove a volte chiacchieriamo e il tempo scorre rapido, o magari viceversa.

Lo spazio, ribadisco con maggior chiarezza, è caratterizzato dalle stazioni ferroviarie, di un viaggio che da Bologna, passa per Milano, e finisce a Ventimiglia, ma le varie narrazioni si svolgono quasi sempre all’interno del treno, un treno scelto appositamente tra quelli vecchi, un treno regionale con i bagni poco puliti e i finestrini sporchi come i sedili. Una scelta questa che contribuisce a evidenziare ancora una volta una politica, che è di recupero, delle piccole cose, dei ricordi, dei piaceri veri e non usa e getta, una politica anti-consumistica, anti-confort!

Il treno però a volte è anche “teatralizzazione scenografica dell’inconscio”, luogo in cui far riemergere i desideri, gl’incubi, e le ossessioni. Ma non solo, è anche il posto dove ritornano luoghi comuni, le parole della gente e le banalità.

Per più della metà del libro, comunque, mentre il viaggio in treno continua ci sono alla fine di ogni capitolo dei flash back ambientati alla stazione di Bologna, la stazione di partenza dove c’è una giovane coppia alla fine della loro relazione border-line. È strano, perché non sembra un’operazione formale premeditata, ma più una storia difficile da digerire eppure un’ossessione costante.

Sicuramente ci sono anche in questo libro delle componenti autobiografiche: il nonno di Francesca era un liutaio bolognese come il bisnonno del violinista, la grande obesa va a Marsiglia in cerca d’amore come la scrittrice anni fa quando andava a Marsiglia accompagnata da colui che poi diventò il suo compagno. Mi guardo bene da proporre una lettura del romanzo in chiave autobiografica, ma mi servo di queste conoscenze della vita dell’autrice per chiarire quello che dicevo prima quando affermavo che Mazzucato si poteva intravedere nelle parole di ogni personaggio, e in più aggiungo che, forse grazie a questo, il romanzo, (ma non solo quest’ultimo) è pieno di autenticità nel senso che è sinceramente vero e sentito.

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