La tortura può essere molto efficace
per costringere qualcuno a dire la verità.
Dan Brown
Un’esaustiva definizione, in termini giuridici, di “tortura” è quella contenuta nella “
Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti[1]”: “
…il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito…”
[2]. Per la Repubblica italiana la Convenzione stessa ha avuto efficacia dall’11 febbraio 1989, avendo l’Italia depositato alle Nazioni Unite il relativo strumento di ratifica
[3].
In realtà, ancora prima, sia l’art.5 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (Assemblea Generale ONU, 10/12/1948), stabiliva che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli inumane o degradanti”, come l’art.27, comma 3, della Costituzione Italiana prevedeva che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”; tuttavia solo la Convenzione realizza effettivamente la proibizione generale della tortura, obbligando esplicitamente gli Stati contraenti ad adottare una serie di provvedimenti adeguati, per assicurare la prevenzione e la lotta contro le torture e per proteggere l’integrità fisica e spirituale delle persone sotto il controllo delle autorità pubbliche e momentaneamente prive della loro libertà. Infatti, la Convenzione ONU, nel suo “nucleo” essenziale, agli art.1 e art.4 in combinato disposto, sancisce l’obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura (come pure il tentativo praticare la tortura o qualunque complicità o partecipazione a tale atto), sia espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno, conformemente alla definizione di tortura prevista all’art.1, e dotato di specifiche, adeguate pene.
Nonostante ciò, il reato di “tortura” ha impiegato quasi trent’anni per entrare nel Codice Penale italiano
[4], sottolineando che la mancanza di un delitto specifico nel nostro ordinamento è stata più volte censurata a livello internazionale: lo scorso 22 giugno la
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia, definendo le sue leggi “inadeguate” a punire e prevenire gli “atti di tortura” commessi dalle forze dell’ordine
[5]. Condanna analoga era stata emessa dalla Corte di Strasburgo nel 2015, con la decisione sul caso “Cestaro”, un manifestante del G8, anche lui vittima del pestaggio da parte delle forze dell’ordine nella scuola, sede del Genova Social Forum. La Corte aveva ritenuto che “
i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia” dovessero essere “qualificati come tortura”, ma che il ricorrente non avrebbe potuto comunque ottenere giustizia nel proprio paese, poiché il reato non era previsto. Per questa ragione i Giudici avevano stabilito la necessità che l’ordinamento italiano si dotasse di strumenti giuridici adeguati.
Infine, solo recentemente, il Parlamento ha approvato, in via definitiva, la
legge 14 luglio 2017, n. 110, “
Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano[6]”.
La soddisfazione dovrebbe prevalere, ma la lettura del “nuovo” art.
613bis del Codice Penale
[7], inserito dall’art.1 della legge citata, ci dimostra subito come l’auspicio che la
Convenzione Onu contro la tortura facesse da guida al legislatore italiano, sia stato disatteso.
Art. 613bis (Tortura): “1. Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, e’ punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto e’ commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.”
Lo stesso Servizio Studi della Camera dei Deputati, ha riconosciuto che questo testo, divenuto poi definitivo, “
dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l’applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta”. La Convenzione ONU definisce la tortura come
un crimine proprio del Pubblico Ufficiale: s
olo chi porta una divisa può diventare un “torturatore”. I soggetti privati, di fronte a tali comportamenti, dovrebbero essere puniti secondo
altre fattispecie di reato (art.581 c.p. Percosse, art.582 c.p. Lesione personale, art.610 c.p. Violenza privata, art.612 c.p. Minaccia, ecc.), mentre la tortura è il crimine di chi dovrebbe legittimamente custodire qualcuno e invece abusa di questa persona per ottenere informazioni o per altri motivi. Nella norma italiana il
pubblico torturatore si confonde con il
torturatore privato, soggetto privo di alcun fondamento legittimo nel tenere in custodia la sua vittima
[8]. In altri termini, la tortura non viene configurata come “
reato proprio” ma come “
delitto comune”, che può essere commesso da chiunque si trovi a esercitare una qualche forma di “
vigilanza, controllo, cura o assistenza”
[9]. In realtà, inquadrare la tortura come un “reato comune”, snatura l’essenza stessa di un delitto che non è “misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine”. “Questo è il nodo che il legislatore sembra non abbia voluto comprendere a pieno: non è un atto tra due individui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona: “legalmente” è in questo caso un termine cruciale
[10]”.
Affinché ci sia tortura, per di più, devono esserci
violenze o minacce gravi. Subito ci chiediamo perché utilizzare il plurale? Quale esigenza ha sentito il legislatore di lasciare all’eventuale processo penale di accertamento, la possibilità di valutare l’effetto di una violenza, due violenze, tre violenze? D
eve esserci crudeltà, un concetto non ovvio da definirsi e dimostrarsi, proprio perché secondo l’interpretazione corrente dell’omonima “aggravante comune”, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del Pubblico Ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira “finalità istituzionali
[11]”.
Il delitto deve aver causato “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”, e ciò significa introdurre un elemento di valutazione che richiederà, probabilmente, perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a distanza di anni dai fatti commessi: come sarà possibile verificare un trauma avvenuto tanto tempo prima?
Anche il riferimento alla condizione di “
minorata difesa” della vittima indica la scelta di configurare il reato come comune: questa “circostanza aggravante” del reato è prevista dall’art.61 n.5 del Codice Penale, e vi incorre chi commette il reato avendo “…
profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
[12]”.
In sostanza, così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella fattispecie tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione interpretativa; ad esempio, la richiesta di commissione del reato attraverso
più condotte implica che un singolo atto di violenza brutale possa non essere punito
[13]. Anche la previsione di un “
trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, è estremamente generica, apparentemente ispirata solo al lessico giuridico internazionale in tema di tutela dei Diritti Umani, e affidata, nell’applicazione concreta, alla discrezionalità dei Magistrati
[14].
Certo che il secondo comma dell’art.613bis c.p. prevede: “
Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.”. Commettere il fatto da parte di un Pubblico Ufficiale da elemento costitutivo del reato passa così a
circostanza aggravante[15]: con pena della reclusione in carcere da 5 a 12 anni per il responsabile. Il campo di applicazione della norma è poi ulteriormente ristretto, laddove si specifica che la legge non è applicabile nel caso “
di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”
[16].
Ulteriori aggravanti sono previste quando dai fatti sopra descritti derivino:
· una lesione personale grave
[17]: aumento della pena detentiva di 1/3;
· una lesione personale gravissima
[18]: aumento della pena detentiva della metà (art.613bis, co. 4 c.p.);
Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni
trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’
ergastolo (art. 613bis, co. 5 c.p.)
[19].
L’art.1 della Legge 110/2017 inserisce nel Codice Penale anche un altro articolo, il 613ter rubricato “Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura”, per cui “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non e’ accolta ovvero se l’istigazione e’accolta ma il delitto non e’ commesso, e’ punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
L’art.2 L.110/17 inserisce il comma 2bis all’art.191 del Codice Procedura Penale, in tema di
prove illegittimamente acquisite[20], stabilendo la inutilizzabilità delle “
dichiarazioni o delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura… salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale”.
Ulteriori disposizioni prevedono:
· il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, quando vi siano “fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura“; a tal fine si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi ai diritti umani (Art.3 L.107/17);
· l’esclusione dall’immunità diplomatica agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un Tribunale internazionale; in tali casi lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura (Art.4 L.107/17).
Questa Legge è oggetto di forti critiche da parte di cittadini, giornalisti, psicologi, vittime di tortura, magistrati e Associazioni per i diritti umani: si ritiene che la norma sia di fatto difficilmente applicabile a casi concreti
[21], e per questo molti dei critici ritengono sia stata imposta alla fragile maggioranza parlamentare, che l’ha approvata, dai gruppi di pressione delle rappresentanze sindacali delle Forze di Polizia che “hanno pensato fosse un’onta al proprio potere aderire (semplicemente) a quanto scritto dalle Nazioni Unite”, non avendo colto “che quel reato (non comune ma proprio del Pubblico Ufficiale) serve a distinguere il poliziotto onesto da quello disonesto”
[22]. In ogni caso adesso abbiamo una legge, legge che avrebbe funzionato molto meglio se si fosse limitata a tradurre in italiano la definizione della Convenzione Onu mettendo da parte la creatività…
Vedremo se e come verrà applicata, dipende anche dalla cultura degli operatori della Giustizia fare in modo che ogni processo per violenza da parte di pubblici ufficiali accerti il ricorrere della tortura, laddove tortura c’è stata.
C’è stato un momento in cui ti avrei voluto morto,
ma sarà la vergogna la tua tortura,
e la tortura sarà la tua vita,
che ti auguro sia lunga.
Heinrich Harrer