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Mezzogiorno dell’animo – Enrico Pietrangeli

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occasione di crescita nel dolore
 
L’ultima raccolta in versi di Enrico Pietrangeli, uscita con la CLEUP di Padova e dal titolo “Mezzogiorno dell'animo”,  si suddivide in dodici sezioni compiendo un ciclo sul dolore con testi perlopiù compilati a partire dall'epilogo di un altro ciclo, quello della scorsa rassegna estiva di poesia e bicicletta denominata CicloInVersoRoMagna 2011, manifestazione da cui prende spunto lo stesso incipit del libro e che, per il secondo anno consecutivo, ha visto l’autore operare a fianco di Gloria Scarperia insieme ad altri alternatisi. A seguire viene riportata una nota critica al testo realizzata da Luca Benassi.
 
 
Leggendo poesia capita di imbattersi in testi dettati da un’improvvisa maturazione umana; avvenuta, si direbbe, per balzi, fratture, scosse delle quali i versi sono un fedele sismografo, in grado di accorciare le distanze fra biografia e letteratura. Non è detto che ogni verso sia all’altezza del portato umano, vi è però quella incandescenza naturale, quella onestà dello spirito, per dirla con Saba, quella aderenza alla propria natura, che è segno di vera, grande poesia. Sono queste le prime impressioni che si hanno nel leggere “Mezzogiorno dell’animo” di Enrico Pietrangeli, sostanziate da una lettura sistemica che riconosce nell’architettura del macrotesto uno degli aspetti più interessanti di questa nuova fatica del poeta romano; che fra l’altro mette a sistema, insieme agli inediti, anche testi editi degli anni Novanta e Duemila, testimoniando il fermento, la macerazione, il lavoro di lima che sta dietro a questa opera.
Pietrangeli procede in una ricognizione del dolore, nelle dodici sezioni che compongono il libro, sviscerandone ogni aspetto, fisico, spirituale, umano, naturale. Da dove venga tutto ciò è difficile dirlo, anche se appare evidente l’emersione nei testi, come la punta di un iceberg, di quel rovello interiore segno di una qualche ‘metanoia’. L’occasione del dolore è occasione di crescita, di una catarsi nella quale il divino ha un ruolo fondante. Emerge la figura del Cristo sofferente, che nel dolore della croce purifica e ‘disinfetta’ l’umanità come l’anima del poeta: “Del dolore mondato/ disseppellendo amore/ tra cumuli di fango e macerie./ nell’anima commisurabile/ d’innocente, travolgente corsa/ ove tutto, al fine, è donato./ Pende dalla croce,/ vergato e proscritto,/ della vita prosciolto/ e dal Padre raccolto.” Vi è dunque una prospettiva teleologica della sofferenza come ritorno a un Eden perduto, un luogo fatto di dignità e purezza: termini come ‘infetto’ e ‘disinfettato’ appartenenti alla sfera del corpo e della materia, presto debordano in quella dello spirito, costantemente minacciata da un processo di suppurazione, che è specchio della devastazione della società contemporanea occidentale. Si indugia, a volte, in particolari dai tratti secenteschi di un barocco macabro, fatto di “ratti infetti”, “vermi” e “lingue di serpenti” che si apprestano a banchettare su “cuore, fegato e cervello.” Anche questo può essere letto come segno di una waste land caratterizzante il territorio naturale e spirituale del poeta. Non mancano i cortocircuiti, i paradossi, in alcuni casi affidati a brillanti prose come “Un giorno, una mosca, per caso”.
Tutto, per Pietrangeli, è riportato al dolore come ciclo universale di nascita e vita e morte, come magia di un fuoco che brucia il sentimento per farlo rinascere dalle proprie ceneri, bilanciandolo con il pensiero, il logos: “Mondato sperma di castità/ dei pensieri l’utero feconda/ tornando gravido dal ventre,/ altri natali la tomba attende.” Ecco allora che il Nostro riflette sull’amore, sul cosmo, sull’universalità dell’esistere; impone una poesia dai caratteri universali, sovrabbondante nelle immagini, poderosa nell’architettura formale, a tratti acuminata, tagliente. Pietrangeli affronta il suo mezzogiorno come un’ascesa al proprio monte ventoso, e ce ne riporta l’essenza, il succo distillato della poesia.

 

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