Iscriviti gratis al corso di scrittura creativa di Supereva Case Editrici (link http://guide.supereva.it/case_editrici) curato dal prof Giuseppe Cerone: riceverai le lezioni sulla tua mail e potrai inviare testi che saranno valutati da Cerone, dalla giallista Barbara Zolezzi e da altri esperti. http://guide.supereva.it/case_editrici Il nome Cominciamo ora a vedere come avviene la caratterizzazione dei personaggi. A iniziare dal nome. La scelta dei nomi dei personaggi deve avvenire con la massima cura. Nomi troppo dificili tolgono scorrevolezza all’azione, nomi troppo simili confondono il lettore, nomi troppo comuni sembrano fasulli, etc. Per esempio, eviterei di chiamare un personaggio Lucio Donati, troppo mieloso e insignificante, come eviterei di chiamarlo Rodrigo Montefratecuccoli o Giuseppeantonio Merluzzo, ma si può anche dare un nome e cognome comune e poi un soprannome o nomignolo. Fra i nomi adoperati in letteratura vorrei ricordare: Renzo Tramaglino, Lucia, fra Cristoforo, Gertrude (I Promessi sposi); Mara e Bube (La ragazza di Bube); Riccetto, il Caciotta, il Lenzetta, Alduccio (Ragazzi di vita); Ida, Nino, ‘Useppe’, David (La Storia); Emilio Brentani, Amalia, Angiolina (Senilità); Ciccio, Liliana, Zamira (Quer pasticciaccio brutto di via Merulana); Andrea Sperelli, Elena Muti, Maria (Il piacere); Piero, Luisa , Ombretta, Franco (Piccolo mondo antico); Dino, Cecilia (La noia); Metello Salani, Ersilia (Metello); Bianca Trao, Ninì Rubiera, Isabella (Mastro-don Gesualdo); Mariagrazia, Carla, Leo, Michele, Lisa (Gli indifferenti); Calogero Sedara, Tancredi, Fabrizio (Il Gattopardo); Adriano Meis, Mattia (Il fu Mattia Pascal); Giovanni Drogo (Il deserto dei tartari); Ginia, Amelia, Clelia (La bella estate). L’età Se si sceglie un’età, bisogna essere consapevoli della problematica relativa a quell’età. Per esempio, se si parla di un uomo di cinquant’ani, è inutile volergli attribuire vitalità ed exploit sessuali di un ventenne, così come, parlando di una donna di sessant’anni, va tenuto presente che avrà i suoi problemi di menopausa, e che è inutile dire che è bella e piacente, poiché sarebbe una forzatura. A sessant’anni si porta la dentiera e l’alito è pesante, la pelle è quanto meno rugosa e le pieghe della carne sono quello che sono. I personaggi, è consigliabile, dovrebbero avere un’età che si avvicina al narratore, che così può meglio conoscere la sensibilità dei suoi coetanei, appunto, e rimandare un romanzo sulla vecchiaia a quando si sarà vecchi. – A proposito, questo è un mestiere che più di tanti altri consente una certa longevità creativa. I calciatori si esauriscono ben presto, le attrici vengono sfruttate da giovani e, a meno che non siano veramente brave, vengono accantonate, perché in fondo è il mito della bellezza che regge molte delle altre forme di espressione artistica-. “Erano donne fatte, ormai: Ursula aveva ventisei anni e Gudrun venticinque, ed avevano entrambe quell’aspetto virgineo e remoto delle ragazze moderne, sorelle di Artemide più che di Ebe. Era molto bella, Gudrun: morbida nella figura, delicata la pelle. Vestiva di seta blu, con guarnizioni di merletto blu e verde al collo e ai polsi, e portava calze verde smeraldo. Il suo aspetto sicuro e diffidente faceva contrasto con l’espressione di attesa ansiosa di Ursula. La gente di provincia restava intimidita dal perfetto sangue freddo di Gudrun, da quelle sue maniere secche, scostanti, e diceva di lei: è una donna di classe!” (David Herbert Lawrence: ‘Donne innamorate’, Mondadori, Milano, ’79 – pag. 4). Parlando di età, un pensiero alla discendenza: per inquadrare bene un personaggio, è opportuno delimitarne lo sviluppo anteriore, che si svolge nell’ambito della famiglia di appartenenza e quindi inutile dire di un figlio d’impiegato che sa andare a cavallo o che viaggia per il mondo, quando si sa quale sia lo stipendio dei genitori e le opportunità di crescita sociale che può avere avuto. Questo per dire anche, polemicamente, che le appassionate storie d’amore fra poveri e ricchi, così care ai romantici, quasi mai hanno riscontro nella realtà. -E un altro insegnamento si può trarre da queste mie illazioni, e cioè che la scrittura è un attimo di libertà che ci concediamo, per cui… chi ce ne può privare? Almeno di questa!-. Un curriculum Ecco una maniera agile per inquadrare un personaggio: si tratta di notizie immesse nel testo perché ritenute pertinenti, ma non giudicate degne di maggiore approfondimento. “Vic si toglie dalle guance la traccia lasciata dalla schiuma da barba e si tasta la pelle rasata, con aria soddisfatta. Occhi scuri lo fissano di rimando. Chi sono io? Si aggrappa al lavabo, si piega in avanti, puntando forte le braccia, e scruta il viso quadrato, pallido sotto una ciocca di lisci capelli castani striati di grigio, con le due rughe verticali sulla fronte, simili a un fermaglio che tenga a posto il naso lievemente schiacciato, la linea dritta e ben marcata della bocca, la mascella volitiva. Lo sai chi sei: è tutto negli schedari dell’azienda. Wilcox, Victor Eugene. Data di nascita: 19 ottobre 1940. Luogo di nascita: Easton, Rummidge, Inghilterra. Titoli di studio: istruzione elementare alla scuola di Endwell Road, Easton; liceo classico maschile di Easton; corso di tecnologia avanzata all’Università di Rummidge; laurea in ingegneria meccanica, nel 1964; Stato civile: coniugato (con Marjorie Florence Coleman, nel 1964); Figli: Raymond (n.1966), Sandra (n. 1969), Gary (n. 1972); Carriera: 1962-1964: apprendistato alla Vanguard Engineering; 1964-1966: ingegnere con grado subalterno, addetto alla produzione alla Vanguard Engineering; 1966-1970: ingegnere dirigente alla Vanguard Engineering; 1970-1974: direttore di produzione alla Vanguard Engineering; 1974-1978: direttore di fabbrica alla Lewis & Arbuckle Ltd; 1978-1980: direttore di fabbrica alla Rumcol Castings. Attuale posizione: amministratore delegato della J. Pringle & Sons, Castings and General Engineering. Ecco chi sono”. (David Lodge: ‘Ottimo lavoro, professore!’, Bompiani, Milano,’94 -pag. 17). L’aspetto fisico E’ importante, per i lettori di una società basata soprattutto su sensazioni visive, che la descrizione fisica dei personaggi renda quanto più possibile l’idea che si vuole trasmettere, poiché il lettore è abituato al cinema e alla televisione e gradisce un’immagine precisa in cui identificarsi. Anche per la descrizione fisica è opportuno, come lo è quasi sempre anche nelle altre caratterizzazioni, tenere sotto agli occhi una persona reale, in modo da poterla desrivere con cognizione di causa, e anche per evitare di descrivere delle bambole senz’anima, come Barbie, quando si sa che ognuno ha i suoi limiti e che nessuno è perfetto, a meno che non si voglia scrivere una favola. “Vedendolo entrare notai che era il tipo di giovane uomo che meno mi piace: alto, molto più di me, e pallido come chi sta al chiuso con passione. Lungo le mascelle il suo cereo pallore si intingeva di acne, come due brucianti pennellate, e gli occhi nelle orbite profonde e scarne erano di un azzurro gelido, sovrannaturale, impacciato e indicibilmente chiaro, quasi incolore. In testa aveva un berretto di lana blu, che si cacciò in una tasca del giaccone mimetico militare mentre indugiava goffo sulla soglia, e, ingombrante e imbarazzato, sbatteva gli occhi e si guardava attorno, guardava i miei libri e la finestra a ogiva dietro la mia testa. I suoi capelli sporchi e vagamente ricciuti si stavano già diradando, notai osservandogli le tempie”. (John Updike: ‘La versione di Roger’, Rizzoli, Milano, ’88 -pag. 7). “Claudia era a letto. Era una ragazza magnifica e lo sapeva, anche David lo sapeva. Lei aveva capelli lunghi, di un biondo cenere luminoso, che ricadevano folti ai lati del viso, con una frangetta che le arrivava fino alle sopracciglia, valorizzando gli enormi occhi verdi dal taglio orientale. Il viso era perfetto, con un nasino dritto e due labbra sensuali e carnose. Non aveva trucco, né vestiti, solo un leggero lenzuolo di seta a coprirla. David sedeva ai piedi del letto. Aveva quarant’anni, capelli neri leggermente ondulati e una faccia dai bei lineamenti forti. Il naso era piuttosto prominente. David portava un paio di lenti spesse con la montatura di corno. Era un uomo dall’aspetto molto maschio e godeva di un notevole successo con le donne”. (Jackie Collins: ‘La sbandata’, Sonzogno, Milano, ’88 – pag. 5). “Linda era una bella donna di poco più di trent’anni, con capelli corti neri seminascosti sotto un foulard di seta. Il suo tailleur Chanel color panna appariva un po’ fuori posto lì in mezzo. Si capiva che dieci anni prima doveva essere stata radiosa, ma ora un’espressione rassegnata aveva appannato la sua bellezza. Sul viso c’erano piccole rughe, una certa stanchezza e un po’ troppo trucco, ma l’effetto nel complesso era attraente”. (Jackie Collins: ‘La sbandata’, Sonzogno, Milano, ’88 – pag. 13). “Con quella faccia da ragazzo ammodo. Con quegli occhi così azzurri e la pelle così chiara che anche sulle palpebre, le tempie e la sommità degli zigomi c’è una impercettibile sfumatura color pervinca, come se quel colore fosse troppo intenso per rimanersene confinato nel cerchio delle iridi. Pare impossibile, ma si interessa a me”. (Francesca Duranti: ‘Effetti personali’, Rizzoli, Milano, ’88 -pag. 63). Insomma, il nostro personaggio è davvero atletico e agile o curvo e invecchiato? E le mani e le dita? Sono grosse, piccole, tozze, sottili, affusolate, rozze, curate, callose, morbide; sono mani da artista, lunghe e sottili, o ad artiglio; da scimmia, cioè eccessivamente scarne, o di pastafrolla o di creta? E come si muovono? Si alzano, si levano, si stringono, si congiungono? Le mani sono spesso lo specchio di una persona, del suo carattere, così come gli occhi. “Quando la mano che percorreva il ventre di Emmanuelle fu sazia di proporzioni, forzò le cosce ad aprirsi ancor più: esse obbedirono, allargandosi quanto possibile. La mano prese nel suo incavo il sesso caldo e ricolmo, carezzandolo come per placarlo, senza fretta, tuffandosi – dapprima leggermente – tra di loro per passare sul clitoride eretto e venire a riposarsi sui fitti riccioli del pube. Poi, a ogni nuovo passaggio fra le gambe, che, respingendo la gonna, si separavano con più ampiezza, le dita dell’uomo scesero per partire da più lontano, risalendo ad affondarsi più profondamente tra le umide mucose, rallentando il loro movimento, come esitando, man mano che la tensione di Emmanuelle cresceva… Allora la mano si immobilizzò, continuando a stringere nel palmo tutta la parte del corpo che aveva infiammata”. (Emmanuelle Arsan: ‘Emmanuelle’, Bompiani, Milano, ’90 pag. 19). E le gambe? Sono dritte, storte, lunghe, corte, snelle, ben fatte, belle, muscolose, affusolate? “Si lasciò cadere in una poltrona di tela e continuò ad accavallare le gambe senza posa, ma erano così corte che a Bech sembrava che stesse girando i pollici”. (John Updike: ‘Su e giù per il mondo’, Rizzoli, Milano, ’89 – pag. 61). Anche le ginocchia possono essere oggetto di grande osservazione. “Le ginocchia di Emmanuelle sono nude sotto la luce dorata che cade dai diffusori. La gonna le ha scoperte, e gli occhi dell’uomo non le abbandonano. Ella ha coscienza che le ginocchia sono levate verso questo sguardo perchè esso ne prenda piacere. Ma come potrebbe lasciarsi andare al ridicolo di ricoprirle… e poi, come potrebbe farlo? La gonna non può diventare più lunga. D’altronde, perché dovrebbe avere improvvisamente vergogna delle sue ginocchia, lei, a cui piace di solito giocare a lasciarle scoperte? Sotto il nylon invisibile, il movimento delle loro fossette riempie d’agili ombre il colore di pane tostato della loro pelle. Sa quale turbamento fanno nascere. A forza di guardarle, più nude perché strette l’una contro l’altra come all’uscita di un bagno di mezzanotte sotto il fascio di luce di un proiettore, ella stessa sente, in questo momento, le tempie pulsare più rapidamente e le labbra inturgidirsi di sangue”. (Emmanuelle Arsan: ‘Emmanuelle’, Bompiani, Milano, ’90 pag. 15). Come i piedi e il modo di camminare (velocemente, a fatica, a lungo, incerto, malsicuro, a tentoni). “Quei piedi nudi. Dove avrà messo le scarpe? Guardai meglio al di là del corridoio che ci divideva e vidi spuntare un tacco e una punta accanto alle caviglie. Non ero curioso di guardarla in faccia. Da come era vestita, dalla mano destra che reggeva il giornale verso il corrridoio, l’unica che scorgevo, intuivo che doveva essere discreta, soprattutto quei piedi denunciavano giovinezza. Quando voltò una pagina del giornale io, invece di approfittare per tentare di guardarla in viso, alzai gli occhi alla scritta “Tenere allacciate le cinture” al centro del corridoio. Sedevo sulla poltrona di destra, lei su quella di sinistra una fila avanti… Di lei vedevo solo una mano magra minuta e quei piedi paffutelli che contrastavano un poco con la mano, ma a guardarli si capiva che erano della stessa fattura, pieni di charme… doveva essere molto più giovane di me, da quei suoi piedi rosa… Già ne ero innamorato: dei piedi, di una mano e di quei capelli nerissimi… Mi sarebbe piaciuto alzarmi adesso con l’aria di bullo fermarmi vicino alla sua poltrona, mirarle i piedi dicendole che erano i più belli che avessi mai visto: parlanti!”. (Giorgio Saviane: ‘Diario intimo di un cattivo’, Rizzoli, Milano, ’89 – pag. 159). “Esther mi raggiunse in anticamera. Pareva avesse qualche difficoltà a camminare, anche se non portava tacchi ticchettanti; era a piedi nudi. Per lavorare in giardino usa delle scarpe di gomma oppure un vecchissimo paio di scarpe da tennis fangose, senza calze. In questi quattordici anni di matrimonio i suoi piedi si sono allargati e imbruttiti, ma dato che quelle unghie storte e i calli gialli se li è procurati al mio servizio, eseguendo i compiti necessari a mandare avanti la nostra comune casa, per me hanno una loro commovente bellezza”. (John Updike: ‘La versione di Roger’, Rizzoli, Milano, ’88 – pag. 253). Ma ciò che rende particolare una persona è spesso l’espressione, che può essere meravigliata, stupita, risentita, divertita, di affetto, di riconoscenza, di dolore, felice, triste. Espressione che si può anche cogliere dai gesti: di noia, di stizza, di rifiuto, di minaccia. Ma soprattutto dagli occhi. Non c’è scrittore che non si soffermi a lungo sugli occhi. Gli aggettivi per gli occhi (che sono anche occhiolini, occhioni, occhiettini) si sprecano. Essi possono essere: miopi, presbiti, astigmatici, strabici, grandi, piccoli, lucidi, tondi, a mandorla, incavati, sporgenti, chiari, scuri, neri, marroni, castani, blu, azzurri, celesti, grigi, verdi, bovini (grandi e sporgenti), con riflessi dorati, belli, commossi, febbricitanti, inumiditi, bagnati, velati dalle lacrime o dal pianto, iniettati di sangue, affaticati, gonfi, circondati da occhiaie, accecati dal sole, stralunati, spalancati, sbarrati, benevoli, ridenti, sorridenti, spauriti, smarriti, attoniti, perplessi, amichevoli, amorosi, languidi, compassionevoli, affettuosi, ansiosi, supplichevoli, ansiosi, indagatori, sospettosi, bramosi, avidi, concupiscenti, paterni, materni, fraterni, feroci, dolci, torvi, di triglia, di pernice, di tortora (con desiderio amoroso), fermi, sicuri, incerti, paurosi, buoni, sinceri, cattivi, limpidi, innocenti, puri, allegri, seri, tristi, falsi, bugiardi, vivi, intelligenti, penetranti, acuti, espressivi, vivaci, spenti, smorti, inespressivi, irrequieti, torbidi, asassini, seducenti, inquieti, foderati di prosciutto. Inoltre si può: aprire gli occhi alla realtà, strizzare l’occhio, far tanto d’occhi, schizzare fiamme dagli occhi, ammiccare con gli occhi, vedere di mal occhio, sbirciare con la coda dell’occhio, o di sottecchi. A volte si legge la delusione dipinta negli occhi, oppure ci sono occhi che brillano dalla felicità. Infine… un lampo improvviso gli balenò negli occhi. Medesima attenzione è riservata ai capelli (a una ciocca o a un ciuffo): sono neri, bianchi, biondi, castani, rossi, ramati, argentei, lisci, ricci, ondulati, lunghi, corti, pettinati, arricciati, con le mèches, colorati, tinti. Sono di taglio corto, a crocchia, a coda di cavallo, a trecce. Una persona può essere calva, o sta lentamente perdendo i capelli. E a qualcuno, in questo momento, possono rizzarsi i capelli in testa. Il naso: retto, greco, adunco, a sella, a patata, all’insù, alla francese, affilato. La voce: alta, bassa, acuta, metallica, squillante, chiara, melodiosa, suadente, carezzevole, stridula, secca, imperiosa, implorante, dolce, gutturale, nasale. E se qualcuno ha un timbro nasale non può far certo la voce grossa. La bocca: piccola, larga, sdentata. Si può storcere la bocca finché si vuole. I denti: finti, posticci, cariati, sporgenti, saldi, forti, aguzzi, radi, sconnessi, splendenti, bianchissimi. Le orecchie: a punta, a sventola, grandi, normali. Le labbra: sottili, pronunciate, pallide, rosse, tumefatte, piene di silicone. Si può leccarsi le labbra, mordersi le labbra, o avere il sorriso sulle labbra, pendere dalle labbra. La faccia: tonda, ovale, rossa, pallida, bella, stupida, intelligente, leale, falsa, allegra, corrucciata, allungato; o il viso: quadrato, bagnato, sudato, riposato, stanco, arcigno, imbronciato, tirato, familiare, abbronzato. A volte bisogna far buon viso a cattivo gioco. Lo sguardo: di compassione, benevolo, timido, fiero, fisso, severo, tenero, penetrannte, sfuggente, languido. Si può sollevare, abbassare, allontanare, alzare. C’è chi capisce al primo sguardo o chi ha una paralisi dello sguardo. La testa: piccola, grossa, a punta, a pera, rotonda, dura. Le sopracciglia (folte, pelose, sottili o rade che siano) si possono inarcare e aggrottare. Le ciglia delle donne dei romanzi sono quasi sempre lunghe. La pelle: liscia, rugosa, chiara, scura, olivastra, vellutata. I seni: piccoli, grandi, all’insù, etc. Le braccia… Insomma, e così via. Ma è inutile dire, credo, che non bisogna per forza elencare tutti i particolari, anzi anche pochi tratti, ma ben delineati, possono servire a caratterizzare in modo magistrale un personaggio. “Julien le si avvicinò con premura; ammirava la bellezza delle sue braccia che uno scialle, frettolosamente gettato sulle spalle, lasciava intravedere. La freschezza dell’aria matttina aumentava lo splendore di una carnagione che i tormenti notturni rendevano anche più sensibile a tutte le impressioni”. (Stendhal: ‘Il rosso e il nero’, Garzanti, Milano, ’88 – pag. 69). Raramente i personaggi hanno delle cicatrici o le basette; più spesso un pizzo (o pizzetto) o la barba (folta, ispida, rada); frequentemente i baffi, che sono arricciati, bianchi, biondi, bruni, corti, folti, grigi irti, lunghi, radi spioventi, a manubrio, alla mongola. Anche la statura ha la sua importanza. Può essere media, piccola, alta, gigantesca, normale. E soprattutto il peso. Se una persona pesa cento chili, è chiaro che avrà una predisposizione al cibo, quindi per lui sarà importante che mangi durante l’azione. Scherzo, naturalmente, ma è difficile caratterizzare una persona se non ci caliamo nei suoi panni. Se fossi, e forse lo sono, nei panni di uno che tende ad ingrassare, sarebbe perché mangio troppo, inutile negarlo. “Sale sulla bilancia del bagno: settanta chili circa, decisamente abbastanza per un uomo alto circa un metro e sessantacinque. Qualcuno sostiene – Vic ha udito per caso queste parole – che lui cerca di compensare la bassa statura con i modi aggressivi. Beh, lasciatelo dire”. (David Lodge: ‘Ottimo lavoro, professore!’, Bompiani, Milano,’94 -pag. 16). “Ahimè, i grassi sanno far meglio dei magri il fatto loro. I magri vengono per lo più impiegati in missioni speciali e corrono di qua e di là; la loro esistenza è in certo modo troppo leggera, aerea e non molto sicura. I grassi, invece, non occupano mai cariche incerte, ma solo quelle stabili e, quando si insediano in un posto, si insediano decisamente, così che potrà piuttosto il posto scricchiolare e crollare sotto di loro, che loro esserne sbalzati. Essi non amano lo sforzo esteriore: la loro marsina non è così ben tagliata come quella dei magri, ma in compenso nei loro cassetti c’è ogni ben di Dio. Al magro, dopo tre anni non rimane più nemmeno un’ “anima” che non sia impegnata la monte di pietà; invece al grasso, che è, che non è, ora gli spunta fuori una casaa in una zona alla periferia della città, comperata a nome della moglie, poi nella zona opposta un’altra casa, poi nei pressi della città un piccolo villaggio, poi un villaggio più grande con chiesa e tutto il resto. Finalmente il grasso, dopo aver servito Dio e lo zar ed essersi meritato il rispetto generale, lascia il servizio, si trasferisce in campagna e diventa un possidente, un gran signore russo, molto ospitale; vive evive bene. E dopo di lui gli eredi magri sperperano, secondo l’usanza russa, di gran carriera, tutto il patrimonio paterno”. (Nikolaj Vasil’evic Gogol’: ‘Le anime morte’, Garzanti, Milano, ’83 – pag. 11).
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