Con La Janara, Luigi Boccia, dopo il ben noto saggio Arcistreghe (Il Foglio, 2003), coautore Antonio Daniele, ci riporta nel cuore del folklore campano. Un romanzo breve, in carta patinata, impreziosito da inquietanti illustrazioni e dalla prefazione del regista Pupi Avati.
Fin dal principio, supponiamo che la janara, la strega campana, sia Francesca, che ha trascorso un lungo periodo in un ospedale psichiatrico dopo la morte di suo figlio. Francesca è tormentata da ricordi, dal pianto di bambini, morti, nel silenzio “impastato all’oscurità”. E’ lei, “incapace d’intendere e di volere”, che ha ucciso il piccolo Gabriele? Sì, forse. Visti e considerati i dubbi che certa cronaca nera di questi ultimi tempi impianta nelle nostre coscienze. E, Rosanna, vicina di casa e amica di suo fratello Martino, che ruolo ha in questa storia? I personaggi, di non grande spessore, poco studiati nei tratti somatici, ma ben realizzati sul piano psicologico, si contano sulle dita di una mano. La protagonista, per esempio, potrebbe essere “la ragazza della porta accanto”. La trama si dispiega con molta semplicità, sebbene si passi sovente, attraverso il recupero memoriale, da fatti avvenuti in passato allo status quo.
La leggenda vuole che la donna nata la notte di Natale si trasformi, quando c’è il plenilunio, proprio come il lupo mannaro, in janara ed entri nella casa di chi le ha fatto un torto, per uccidere i bambini, spezzando loro le ossa. Rabbrividiamo. Per allontanarla si è soliti mettere, davanti alla porta di casa, una scopa di fascine; la janara è costretta a contare i rametti sottili; intanto scompare la luna e, con essa, anche il pericolo. Ancora oggi una piccola scopa, appesa alla porta o al muro di casa, è ritenuta uno “scaccia-guai”.
Si tratta della “follia nel folklore” e della“follia del folklore” di cui ha scritto Luigi M. Lombardi Satriani in Il silenzio, la memoria e lo sguardo: “Anche nella cultura folklorica, infatti, la follia rappresenta la negazione della <<normalità>>, lo spazio altro nel quale le regole del noto sono sospese”. Di “magare” e “magarie” parla Maffeo Pretto, in La pietà popolare in Calabria: “In Calabria un tempo erano famose le streghe, le magare di Pittarella del comune di Pedivigliano”. Lo scrittore, di seguito, afferma che esse si diffusero nel resto della regione. Si ricorda, ancora oggi, che era usanza mettere, recitando “Sutt’acqua e sutta vientu alla nuce di Bonivientu”, una testa d’aglio nel buco della serratura o coprirla con un vaglio per la farina, per non far entrare le “magare”.
La Janara ci sorprende con il finale: antiche superstizioni e psicopatologie freudiane, infuse di sapore biblico, sacro e profano s’intrecciano indissolubilmente.
Stegoneria, folklore, cultura demologica, “…fragranza del passato”.