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Tutto in una notte

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Tutto in una notte

L’edizione 1998 della Mostra del cinema di Venezia non è riuscita, a mio parere, a costruire al suo interno percorsi riconoscibili e a caratterizzare tematicamente le varie sezioni. Il concorso si è risolto principalmente in uno specchio del narcisismo d’autore. Le Prospettive, che dovevano essere la sezione esplorativa, il contenitore del cinema che sperimenta nuovi linguaggi e si apre a nuovi orizzonti, per provenienza, temi e stili, sull’esempio della Quinzaine des réalisateurs di Cannes o del Forum di Berlino, nei fatti hanno assunto la fisionomia di un contenitore degli "avanzi", alcuni anche di valore, che non avevano trovato spazio, per varie motivazioni, nella sezione principale. E’ stato il caso del film "La polveriera" ("Bure Baruta"), del regista serbo Goran Paskaljevic, un esplosivo apologo nero e una delle migliori pellicole viste a Venezia. L’opera avrebbe in realtà meritato di essere inserita in concorso, ma ciò non è stato possibile, a detta del direttore Laudadio, perché il film è stato terminato soltanto poche settimane prima dell’inizio della rassegna; voci più maliziose sostengono che ci sia stato invece un esplicito veto da parte di Emir Kusturica, l’altro regista jugoslavo (così si autodefinisce, riferendosi però alla stato federale dissoltosi nell’ultima guerra balcanica) presente nella rassegna e vincitore del Leone d’argento. "La polveriera" è il singolare frutto di una collaborazione creativa tra uno sceneggiatore macedone – il drammaturgo Dejan Dukovski, autore anche del testo teatrale da cui il film è tratto – e un regista serbo, e di una coproduzione tra Francia, Macedonia, Turchia, Grecia e Jugoslavia. Interamente girato di notte, in nove settimane, nell’allucinata Belgrado di oggi, il film mostra le conseguenze sulla popolazione serba della guerra che ha devastato l’ex-Jugoslavia, descrivendo il clima di follia balcanica e la cultura del fatalismo che sembrano vanificare ogni possibilità di cambiamento.
Paskaljevic non lo fa argomentando razionalmente, alla maniera del film "politico", ma suggerendo per immagini le radici di odi etnici profondi. "Da sette, otto anni – ha affermato il regista – i miei compatrioti vivono in una situazione precaria, sotto un regime intollerante, con la guerra alle porte. In queste condizioni ognuno di loro diventa una polveriera pronta ad esplodere". L’azione del film si svolge nell’arco di una sola notte (che potrebbe essere anche la notte in cui furono firmati gli accordi di pace di Dayton), popolata da numerosi personaggi i cui destini si intrecciano, racchiusi in una cornice ambientata al "Balkan Cabaret", dove un attore dal trucco espressionista intrattiene i clienti, fungendo da narratore del film. Un minorenne senza patente investe la vettura di un automobilista estremamente vendicativo; un giovanotto sequestra i passeggeri di un autobus e li terrorizza, ma viene raggiunto e ucciso dall’autista; due pugili, amici da sempre, cominciano a confessarsi, come per scherzo, i reciproci tradimenti e gli inganni: finisce in un bagno di sangue e con la fuga dell’omicida che, in treno, farà un’altra vittima; un tassista confessa a un suo cliente, ex poliziotto, che è stato lui a ridurlo in fin di vita e a renderlo disabile permanente, per vendicarsi di un violento sopruso subito; un gangster costringe un giovane a cantare una canzone, mentre gli violenta la fidanzata, ma la vittima non è migliore del carnefice e le parti si rivolteranno. Il frammento conclusivo inizia con un furto di benzina, per poi assumere le proporzioni di una piccola Apocalisse. Il film è duro e a volte tragico, ma anche con momenti di ironia; violenza e criminalità sembrano esser penetrate in tutti i pori della società, nelle famiglie, tra gli amici, inducendo gente dall’apparenza inoffensiva a compiere gesti atroci. I personaggi femminili sembrano le uniche vittime innocenti. Benché la violenza sia costantemente presente, è trattata in modo molto diverso a seconda delle situazioni: su un sottofondo di derisione, di disperazione, di realismo. Quel che più colpisce è proprio la disperazione che caratterizza tutti i personaggi, ciascuno dei quali sembra attribuire valore zero alla vita altrui, oltreché valutare ben poco la propria. L’ambientazione notturna assume il valore di un tunnel senza uscita, ma Paskaljevic non è un nichilista: vittime e carnefici sono accomunati da uno stesso sguardo di pietà. Il finale rimane aperto: il film si conclude nel cabaret, con un amaro brindisi finale, riscaldato e illuminato dall’energia, dall’umanità e dall’umorismo che nonostante tutto i personaggi del cabaret emanano. Oltre che intensa testimonianza "dall’interno", "La polveriera" è anche un film di grande qualità cinematografica: riuscirà a trovare un distributore che permetta agli spettatori italiani di vederlo?

Paolo Baldi

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